La casa nel vento dei morti (F. Campanini, F. Barilli, 2012) parla di resistenza, horror e nazi-fascismo

Una rapina ad un ufficio postale nell’Italia del 1947 finisce male: la fuga dei protagonisti ha seguito con mezzi di fortuna, attraversando le campagne parmensi ed ossessionati da rimorsi e paure. Presto i tre si fermeranno nella casa sbagliata…

In breve. Prodotto italiano che evoca l’exploitation, più che l’horror vero e proprio, e si pone nella scia del revival del genere molto di moda negli ultimi anni. Citando apertamente sia la tensione di Cani arrabbiati che le dinamiche di Frontiers, il film riesce a collocarsi in un “settore orrorifico” ancora inesplorato, che vive sul connubio tra uno scenario storico verosimile (l’Italia post-fascista) ed elementi di cinema del terrore impensabili per l’epoca. Non un film eccelso,  con qualche pecca soprattutto a livello recitativo, ma da vedere per sana curiosità.

La casa nel vento dei morti” riporta alla mente numerosi (e gloriosi) titoli horror del passato, a partire da La casa dalle finestre che ridono (con cui condivide parte dell’ambientazione “casereccia”) e passando per varie produzioni fulciane, senza dimenticare prodotti più artigianali: ad essere al centro dell’attenzione, in questo caso, sono i caratteri dei personaggi, che vivono su un’avidità senza remore, senza curare i rapporti umani e pensando ognuno per sè. Non starò qui a ripetere la solita predica sul cinema italiano bistrattato: questo film di Campanini (alla sua seconda produzione) e Barilli (Il profumo della signora in nero) è stato probabilmente snobbato dai più, ma in realtà qualche critica di fondo è più che lecita. Pur trattandosi di un soggetto decisamente originale, non fosse altro per aver confezionato una explotation anni 40 probabilmente mai vista in questi termini, soffre di qualche calo di ritmo – e recitativo, in parte – soprattutto nella prima sezione, e fa durare troppo poco, a mio vedere, il frammento più pulp.

Il tentativo di Luca Magri (sceneggiatore e protagonista del film) è stato, a ben vedere, dei più nobili, ovvero “dare un contesto storico diverso da quello che si vede di solito in questo genere di film, ambientando l’azione nell’immediato dopoguerra”. Del resto cui i personaggi (che potrebbero apparire insoliti agli occhi degli spettatori abituati agli stereotipi ed alle scream queen) “a loro modo (e in negativo) rappresentano un’Italia stracciona e picaresca che cerca di rialzarsi dalla terribile esperienza della guerra” (fonte). In sostanza l’idea è quella di far recitare personaggi vividi, rurali, neanche troppo coraggiosi e con qualche difetto ulteriore (sessuomania, avidità, ingenuità) catapultandoli in un contesto modello “Le colline hanno gli occhi“. Questo dovrebbe bastare, di per sè, a dare l’idea di cosa vedrà lo spettatore in questa pellicola: una prima parte da road movie, quindi, con un flashback quasi immediato utile a ricostruire l’intreccio, un sostanziale calo a metà film fino ad un crescendo di tensione, violenza e qualche picco di splatter. Nulla di realmente insostenibile, per quanto disturbi alquanto (in positivo) il voler essere retrò della pellicola, dando anche la sensazione di un discreto lavoro documentaristico a priori.

Certo è che questo film potrà non piacere agli amanti esterofili delle produzioni modello Splatters o Hatchet, visto che il sottotesto è nostrano, artigianale a partire dal tipo di riprese, estremamente serio e, cosa ancora più importante, riesce a far parte integrante della storia senza tirare in ballo le forzature che, mutatis mutandis, avevo riscontrato in Frontiers. Se nel film di Gens, infatti, le crudeltà inflitte dai personaggi servivano più che altro come “bandiera” simbolista per innestare sottosignificati politico-sociali piuttosto slegati dal contesto, ne “La casa del vento dei morti” la crudeltà degli aguzzini viene a innestarsi in modo più convincente nel momento storico. Il movente delle violenze, in altri termini, è legato alla fame, alla guerra appena conclusa ed anche alle note vicende dei collaborazionisti (con una variante insolita, da scoprire). Questo, pero’, agli occhi degli spettatori che non contestualizzeranno, e che si aspettano l’ennesimo clone de Non aprite quella porta, farà risultare il tutto una pellicola scialba e piuttosto “grezza” nel suo incedere. Il livello di recitazione non eccelsa resta forse il problema più grosso (su cui i detrattori avranno parecchio da “ricamare”), e per questo motivo siamo lontani dai fasti omologhi di Bava. Eppure il tentativo dei registi non è da buttare: solo, come unico appunto, un casting attoriale differente avrebbe potuto giovare notevolmente alla pellicola.

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