Vorrei partire dal signicato del titolo: Nope è una forma di slang colloquiale per indicare la negazione, un “no” rafforzato, un no che diffida, in qualche modo, dall’idea che un qualcosa non sia reale, non sia plausibile, non sia ammissibile – nemmeno dopo una vivida prova del contrario. Urban dictionary descrive il nope, a ragione, come un rifiuto categorico, completo e definitivo della realtà e di tutte le cose associate ad una certa realtà. Come se non riuscissimo ad accettare, ad esempio, l’idea che un simpatico scimpanzè possa veramente diventare un assassino.
Questo terzo lavoro di Jordan Peele, noto ai fan dell’horror sociologico dei precedenti Scappa – Get out e Noi, si diverte più del solito a seminare il panico tra gli spettatori, propinando una storia parallela impossibile da raccontare per buona metà del suo incedere: da un lato vediamo un studio televisivo, in cui uno scimpanzè sembra aver aggredito quasi tutti i presenti come reazione istintiva allo scoppio di un palloncino. Il riferimento è alla terribile storia di Travis, un fatto di cronaca del 2009 per cui uno scimpanzè aveva aggredito imprevedibilmente Charla Nash Trust, amica della proprietaria dell’animale, lasciandola sfigurata per sempre.
La sequenza è girata con la maestria che avrebbe caratterizzato George Romero, con l’effetto straniante dell’animale che punta l’ennesima nuova vittima, rivolgendosi direttamente alla camera ed esitando il giusto per far correre il classico brivido lungo la schiena. Dall’altro fronte, poi, assistiamo ad un iniziale dialogo tra padre e figlio addestratori di cavalli, nella sconfinata e stereotipata campagna americana, con l’uomo anziano che – dopo qualche istante – muore sul colpo, colpito da una monetina caduta misteriosamente dal cielo. L’intuito e le skill del protagonista saranno vitali per lo svolgimento e la risoluzione della storia, affiancato dalla sorella dal carattere opposto al suo, per quello che si prefigura come uno dei prodotti più originali degli ultimi anni, per quanto viziato da qualche passaggio forse un po’ confusionario.
Peele abbandona l’horror sociologico e relativamente lineare dei primi due lavori, e declina Nope in maniera puramente irrazionale. Racconta una storia senza dare tutte le coordinate, come se abolisse la terza dimensione spaziale mettendo la camera di sbieco, ed il puzzle si ricompone come una passeggiata casuale in cui non sempre gli elementi sono a fuoco. Per farlo sfrutta un montaggio anticausale, dai tratti vagamente lynchani, arrivando a mozzare imprevedibilmente alcune sequenze e raccontando un monster movie atipico, fuori norma e fuori scala, dove il “cattivo” da abbattere si rivelerà degno dei peggiori incubi da LSD. Il puzzle si ricompone un po’ per volta, nel frattempo, mostrando che dallo studio TV è sopravvissuto solo un bimbo (Jupe), da adulto diventato proprietario di un parco a tema western: lo stesso a cui i protagonisti (OJ e la sorella Em) cercando di vendere alcuni dei loro animali per ricavare qualche soldo. È l’horror portato alla dimensione sociale, ovviamente, ma è un horror atipico: per gran parte della storia non è chiaro chi sia il villain, cosa sia la minaccia che sembra aggredire gli animali della zona, come tutto questo sia legato con la vicenda dello scimpanzè. È l’horror che si ispira alla tradizione animalesca, da Lo squalo a Carnosaur, da Red Water a Creature dagli abissi, ma che sfrutta l’intreccio per raccontare della crudeltà umana contro gli animali, così come del suo vizio innato per il voyeurismo.
Le spiegazioni sull’opera si sono sprecate, e lo stesso regista ha dichiarato che si tratta di meta-cinema, che racconta la magia dello stesso e vorrebbe ergersi a sua metafora concettuale per mezzo dell’ossessione voyeuristica dei protagonisti, intenti a filmare prima ancora che a salvarsi la pelle. Non sono temi nuovi (da Videodrome in poi), ma ciò che cambia è il formato, un po’ come se Cloverfield avesse deciso di darsi una ripulita concettuale quanto scenografica. Per capire, poi, cosa c’entri tutto questo con il titolo Nope ce ne passa, perchè di fatto sembrerebbe una trollata cucita ad arte sulla reazione di OJ, nella sequenza in cui scopre l’entità del cattivo della storia. Apre lo sportello dell’auto, guarda in cielo, vede qualcosa, se ne capacita, chiude la portiera e pronuncia nope (il doppiaggio dice “no”).
Abbiamo finalmente scoperto cos’è il cattivo, la sua reale natura, i suoi obiettivi e forse anche come gestirlo, ma la reazione è semplicemente quella di negare una realtà talmente spaventosa da dover essere negata, forse per non impazzire per sempre. È l’epitomo del negazionismo, l’espressione cristallizzata e schizofrenica con la quale abbiamo affrontato l’emergenza sanitaria del Covid-19 (e non solo), con la negazione che diventa ultima arma di difesa per una realtà inconcepibile, irracontabile, forse troppo brutale per essere vera. L’autore della sceneggiatura e regista avrebbe pertanto scelto “Nope” come titolo per ironizzare sulla reazione di diniego all’idea che un film faccia veramente paura. Peele ha pertanto voluto riconoscere quelle persone con il titolo e coinvolgerle, come un gigantesco tributo a chi afferma di non amare l’horror, probabilmente per mostrare loro che non è così.
Col tempo si scopre che c’è una nuvola fissa nel cielo, che sembra essere sempre stata lì, nonostante nessuno l’avesse notata (un po’ come la lettera rubata di E. A. Poe), cosa di cui i protagonisti si accorgono grazie ad un sofisticato sistema di telecamere procurato al centro commerciale di zona, in collaborazione con un visionario regista di documentari che usa una camera a mano. Sì, perchè la comparsa del villain coincide con la corrente che va via, e non c’è modo di filmarlo, oltre al fatto non da poco che è preferibile non fissarlo con lo sguardo. C’è un ulteriore sottotesto legato alla società dello spettacolo (lo studio televisivo della sit-com), ma c’è anche la cultura pop legata al mondo dell’ufologia che negli USA è mediamente radicata (almeno dai tempi di Bob Lazar) e l’ossessione per la ripresa impossibile, archetipica di un film come Nope che deve qualcosa anche alla tradizione survival horror. Per quanto si muova in una direzione apparentemente ordinaria, in altri termini, l’orrore di Nope arriva in modo sinistro, imprevedibile, dall’esterno, sembra avere a che vedere con gli animali (come il classicone Monkey Shines, che rappresenta una specie di antefatto “profetico” della storia), viene narrato in maniera non lineare per essere più volte stravolto nel corso dello svolgimento della stessa.
È l’orrore del nostro senso di colpa innato, del nostro sentirci colpevoli di qualcosa a livello genetico, del nostro inconscio collettivo che scalpita e si dibatte nascosto dentro quell’innocua nuvoletta. È l’orrore concettuale di un film molto meno banale di ciò che l’apparenza da monster movie potrebbe celare, e nel quale sarà possibile perdersi piacevolmente.
Meme nope
Il meme “nope” rimane comunque un’espressione informale utilizzata per esprimere un rifiuto o un netto rifiuto nei confronti di qualcosa. Può essere accompagnato da una immagine o da una GIF che rappresenta una persona o un animale che scuote la testa o si allontana, indicando chiaramente il rifiuto o il disinteresse. Questo meme è spesso utilizzato nelle conversazioni online o nei social media per rispondere in modo sarcastico o divertente a una proposta, un’idea o una situazione che non si desidera accettare o considerare. La parola “nope” è spesso enfatizzata o ripetuta per evidenziare la fermezza della risposta negativa.
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