Quel motel vicino alla palude: coccodrilli o alligatori?

Louisiana: una prostituta viene cacciata da un bordello perché non vuole assecondare Buck (un giovanissimo Robert Englund): la donna trova rifugio nello scalcinato Starlight Motel, il “motel vicino alla palude” gestito da Judd, un tizio piuttosto fuori di testa che alleva il proprio coccodrillo lì vicino.

In breve. Un classico dell’horror “artigianale” americano, penalizzato dal non avere un intreccio troppo convincente (specie nella prima parte) e, soprattutto, dal fatto che ormai chiunque conosca il finale. Non entusiasma nel suo complesso, ma rimane da vedere almeno una volta nella vita, se non altro per la seminale trovata del coccodrillo (ispirata, a quanto pare, ad un fatto di cronaca).

“L’ha visto? Non è mica un alligatore, è un coccodrillo: gli alligatori sono lenti, se non sono in acqua. Il coccodrillo, invece, corre come un cavallo. Il coccodrillo non fa distinzione: divora tutto.”

Tobe Hooper, reduce dal successo del capolavoro Non aprite quella porta di tre anni prima, firma un ennesimo horror sporco e cattivo, un po’ sulla falsariga del lavoro di Craven uscito lo stesso anno (Le colline hanno gli occhi). “Ricicla” la scream queen del film precedente (Marilyn Burns) e realizza un film semplice, essenziale ma non esaltante nel suo complesso. La seconda metà rimane superiore alla prima, sia in termini di ritmo che di storia vera e propria, e (da sola) finisce per valere il tipico “prezzo del biglietto”. Siamo immersi in una logica di accennata exploitation, comunque, che qualcuno potrebbe trovare monotona o ripetitiva, proprio perchè non c’è certo un “bagno di sangue” a livello splatter (per quanto il poco che si vede riesca, a mio parere, a disturbare un bel po’) e l’atmosfera asfittica rischia a volte di risultare semplicemente noiosa. Secondo IMDB l’intreccio è parzialmente basato sulla storia di Joe Ball (noto come “Il Barbablù del South Texas” o “L’uomo alligatore“), che a quanto pare possedeva realmente un alligatore, e che utilizzava come attrazione del bar che gestiva. Molte donne furono uccise da quelle parti, ma non fu mai provato che dei resti, trovati seppelliti poco vicino, fossero umani: l’uomo ad ogni modo si suicidò prima di essere catturato. Questo truculento fatto di cronaca fu probabilmente l’idea che riuscì a dare “benzina” all’intera storia, propria perchè Hooper riuscì a bilanciare realismo e terrore in un mix che, visto oggi, appare forse acerbo per quanto non manchino momenti di pathos. Una forma di realismo estremizzato che accompagnò vari epigoni di exploitation di ogni ordine e grado, con il suo incedere lento e costante e coi suoi personaggi cinici  e disumani: il capolavoro Cani arrabbiati, Autostop rosso sangue oppure il tremendo I spit on your grave. Del resto va detto che limitare le scene orrorifiche ai pur notevoli attacchi del feroce coccodrillo è, forse, un po’ poco per gridare al vero e proprio miracolo, per cui “Quel motel vicino alla palude” rimane a mio avviso assestato in una ordinarietà che non dovrebbe, visto il regista, essergli propria.

Gli elementi che caratterizzano Eaten alive sono sostanzialmente due, e sono legati ad un’insano desiderio di fare exploitation mediante un elemento sessuale sempre vivido, schiaffato in modo brutale sullo schermo come se ci trovassimo nel più feroce revenge-movie: dall’altro lato vi è il gusto del macabro “gotico“, lo stesso che il pubblico di Hooper desidera(va) ardentemente e che, in “Quel motel vicino alla palude”, appare nella sua foga “primitiva”. Cosa che, per l’epoca, riesce parzialmente bene, facendo risultare la pellicola brutta, sporca e cattiva al punto giusto: il tutto proponendo pure un tipo di narrazione parzialmente anti-convenzionale, nella quale Clara – la ragazza che fugge dal bordello all’inizio – viene quasi presentata come se fosse la protagonista / scream queen, salvo essere fatta fuori dopo pochi fotogrammi dal sadico proprietario del motel. Personaggio, quest’ultimo, perennemente in bilico tra calma apparente, sessualità repressa (elemento ricorrente in Hooper) e violenza innata, anche se – il più delle volte – sembra di assistere ad una crudele mattanza nella quale si fatica a trovare un filo logico. Al di là dei caratteri dei personaggi (e della particolarissima colonna sonora, quasi interamente giocata su pazzesche dissonanze), il vero protagonista del film è proprio il feroce coccodrillo che gironzola dalle parti della palude, espressione della potenza brutale della natura, nutrito da corpi (non solo umani!) da parte dello psicopatico proprietario. Un primitivismo espresso attraverso il colore rosso (sangue) che risalta nell’ambientazione paludosa, e che viene ribadito dal protagonista quando descrive, meditabondo, il comportamento del suo “animaletto domestico”: un bestione che non conosce morale, che vive di istinto e divora qualsiasi cosa, un’avvenente signorina come un cagnolino, e che esprimerà una (forse prevedibile) nemesìs nel finale. Di fatto il dualismo di cui sopra è riscontrabile anche in una duplice dimensione da incubo, nella quale una situazione già claustrofobica di suo (il gestore di un motel assassino, maniaco sessuale, che parla da solo ed è pure moralista!) si affianca ad uno scenario circostante ancora peggiore, nel quale un feroce coccodrillo è disposto a farti fuori in un boccone. L’accoppiata dovrebbe essere perfetta per un horror,  tanto più che – si evince dai soliloqui che ci propone Judd durante il film – il passato del personaggio sembra essere segnato da un trauma subito quando era militare (?): la cosa non è troppo chiara ma, probabilmente, non c’è neanche il tempo di accorgersene perchè, come uno sprint in piena salita, la pellicola diventa accattivante nell’ultima mezz’ora. Nonostante tutto, in definitiva, un horror non perfetto ma realmente sui generis e seminale.

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