1999: un giornalista trova un antico manoscritto su una bancarella a Montecatini, luogo in cui visse Alfred Galpin, storico amico e corrispondente di H. P. Lovecraft. All’interno di quello che si svela un diario viene descritto un viaggio in Italia del celebre autore americano: che avrebbe visitato Venezia e molti altri luoghi non immediati da decifrare, tra cui la misteriosa L. (nota solo per l’iniziale del nome, come molti altri riferimenti a luoghi e persone).
In breve. Un falso documentario che indaga sul potere della suggestione, mescolando tesi alternative con presenza di alieni. Interessante soprattutto per i fan dello scrittore, al netto di un finale dal climax leggermente fiacco.
Road to L. è ambientato nel 2004 e teorizza la possibilità di un viaggio di H. P. Lovecraft in Italia: aspetto che smentirebbe ciò che sappiamo ad oggi sullo scrittore, che ufficialmente non avrebbe mai avuto i mezzi per permetterselo e non si sarebbe mai mosso dagli Stati Uniti. Il film (vincitore di un Méliès d’argento al Fantafestival 2005) viene presentato come fosse il backstage di un corto, presentato al Festival di Venezia nel 2004, dal titolo H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia. Per completezza documentale li ho appena (ri)visti entrambi, anche perchè i dettagli da raccontare sono tanti, e volevo compensare il senso di sostanziale incompiutezza, quello che ricordavo di aver avuto dopo averlo già visto qualche tempo fa.
Andiamo, pertanto, per ordine.
H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia
Sul corto diciamo subito che è una specie di “seminario” del lungometraggio in questione: si trova anche su Youtube, e racconta in meno di mezz’ora, con stile documentaristico ed alcune interviste, del ritrovamento di un manoscritto inedito che potrebbe essere stato concepito dalla mano dell’autore. Un documento dall’immenso valore che, di fatto, cambierebbe non solo la prospettiva, ma anche la biografia dell’autore: Lovecraft sarebbe stato in visita in Italia, passando prima per la Biblioteca Marciana di Venezia, per poi avventurarsi in zona Delta del Po. Cercava ispirazione per i racconti che avrebbe scritto di lì a poco (in realtà questa affermazione è in parte inconsistente, dato che alcune cose le aveva già concepite rispetto al 1926, anno chiave per la narrazione), e il documentario prova ad immaginare cosa sarebbe successo, soprattutto che cosa abbia visto il solitario di Providence.
Ovviamente – è il caso di specificarlo – le ipotesi in questione sono pura fiction, perchè il falso documentario fa sostanzialmente questo – pur cercando la verosimiglianza, ed è altrettanto vero che in questi casi produzione e regia giocano sulla più classica sospensione dell’incredulità. Questo corto di neanche mezz’ora fa proprio questo: imporre una narrativa “alternativa”, provare a seminare dubbi, lanciare “sassolini” relativi a circostanze (forse) ambigue. Così facendo l’effetto immediato è di lasciare lo spettatore, specie quello non troppo informato, “affamato” di ulteriori dettagli (ecco perchè ho usato la parola seminario).
Tutto sommato un discreto finto documentario che, peraltro, strizza continuamente l’occhio all’Altro (inteso come l’oscura congettura), e si avvale della furbesca “consulenza” tra gli altri di Fusco e De Turris, tra i maggiori e più documentati esperti italiani sullo scrittore.
Contestualizzare Lovecraft (in Italia)
Sarà stato scritto milioni di volte, ma lo ribadiamo: Lovecraft è stato un punto di riferimento assoluto per letteratura e cinema del terrore (cinema che, stando a quello che sappiamo, non avrebbe neanche amato più di tanto). Lo ha fatto con quello stile unico, fatto di allusioni e uso sapiente di circonlocuzioni orrorifiche, uno stile ricercato e a suo modo altamente innovativo – per quanto certi suoi lavori siano considerati ostici da leggere, e ciò derivi anche, per inciso, da certe traduzioni italiane un po’ grossolane (ne ho una del Miraggio dello sconosciuto di Kadath, di circa 20 anni fa, che è quasi incomprensibile – per usare un eufemismo).
Lo scrittore di Providence, la città in cui crebbe e passò gran parte della sua vita, fu personaggio schivo e singolarissimo, quanto controverso sia socialmente che politicamente, e fu anche in grado di inventare un genere nuovo, a cavallo tra horror e fantascienza, elevandolo a Letteratura riconosciuta da chiunque. Lovecraft influenzò Stephen King (tra gli altri) ed è anche il “non filmabile” per eccellenza, come il caso di Reanimator ha lasciato ai posteri (non che Yuzna abbia diretto un brutto lavoro: è proprio che c’entra poco con Lovecraft). Per fortuna non mancano le eccezioni a questa – fin troppo citata – “legge” non scritta.
Anche solo a livello cinematografico, per chi proprio non fosse amante della lettura, film tratti dalle sue opere sono considerati imprescindibili per il genere: penso a Il colore venuto dallo spazio (a chi sarebbe mai venuto in mente di creare un villain immateriale di quel tipo?) o La vergine di Dunvich (orrore epico e tenebroso, che ha fatto scuola), che trasudano paura in senso modernissimo e accattivante, senza contare la trilogia del terrore di Fulci, in particolare Paura nella città dei morti viventi – che è lovecraftiano, per quello che vale, quasi a pieno titolo.
Un mockumentary del genere, per quanto non sia probabilmente nemmeno l’unico caso al mondo, è comunque un azzardo, anche perchè rischia ciò che tutti temono: che quelle circonlocuzioni tenebrose e allusive diventino iper-splatter oppure, banalmente, non-detto, depotenziandone l’effetto in entrambi i casi. Cosa che in Road to L. non succede, almeno per larga parte, nonostante non tutto il film sia ritmato in modo uniforme, mentre i punti di tensione autentica siano, al massimo, tre in tutto.
Road to L.
Già il titolo è piuttosto intrigante, evidentemente concepito per un mercato internazionale: peraltro con un minaccioso gioco di parole all’interno (Road to L suona esattamente come Road to hell, la strada per l’inferno). Calembour a parte, come ogni mockumentary che si rispetti, la storia si basa su un racconto filmato on the road: vediamo in sostanza quello che dovrebbe essere il “dietro le quinte” della realizzazione del cortometraggio di cui sopra, con tanto di tecnici, sceneggiatori e registi all’opera e letteralmente sulle tracce di H. P. Lovecraft. Rileggendo il manoscritto man mano, tecnici e regista ripercorrono le strade che avrebbe fatto l’autore nel suo ipotetico (e mai confermato) viaggio in Italia, utilizzando la tecnica dello pseudobiblion che ha fatto la fortuna, per inciso, del celebre Necronomicon.
Road to L. risulta sostanzialmente un meta film sull’autore di Providence, dall’ambientazione sinistra nelle più oscure tenebre padane, proposto in forma di mockumentary e rientrante, per questo, in una tradizione controversa di suo. Lo sappiamo bene, ad oggi, che questo genere di lavori è più facile odiarli che amarli: sono film quasi sempre difficili da giudicare per una varietà di ragioni.
La sua carriera fu la realizzazione dei suoi incubi da bambino.
Da un lato perchè appaiono troppo scarni, in media, a livello di trama o sceneggiatura, tanto da sembrare improvvisati alla meno peggio (non è questo il caso, peraltro). Dall’altro difficilmente coinvolgono cast di livello, tendono a ricorrere a stilemi fotocopia (il non-detto di cui sopra, un’arma a doppio taglio tra il genio e la noia), mostrano quasi sempre poco o nulla (chi ha visto Blair Witch Project lo sa) e danno la sensazione al pubblico di essersi persi qualcosa per strada (cosa che qui in realtà succede, sia pur parzialmente). A dircela tutta, senza filtro da fan, sono davver pochi i falsi documentari ben realizzati, se si pensa che sono passati quasi sessanta anni dal seminale The war game e che, ad oggi, il genere è consolidato in fin troppe opere dubbie, dal background quasi sempre complottistico / sensazionalista. Road to L. rimane sostanzialmente promosso, come vedremo, con l’unica pecca del finale, che ho trovato confuso, più che ambiguo come voleva sembrare.
La storia inizia a fine anni ’90, con la storia di uno studente di folklore locale – sì, Road to L. è anche un proto–folk horror, molto prima che diventasse di moda parlarne sulla falsariga di The Vvitch: si chiama Andrea, e sta scrivendo una tesi molto suggestiva. Tratta la possibilità che H. P. Lovecraft possa aver preso ispirazione, per i suoi racconti, dai racconti popolari più macabri narrati oralmente sul Delta del Po. Che l’horror possa o debba prendere spunto dal folklore è, del resto, un fatto assodato: basterebbe leggere L’almanacco dell’orrore popolare per capacitarsene. Nel film, pero’, il giovane Andrea è scomparso: sia la madre che la fidanzata non hanno idea di dove possa trovarsi, o se sia vivo o morto. L’unico indizio è la sua auto, trovata aperta nel pressi delle zone di cui parlerebbe Lovecraft nel fantomatico manoscritto, e anche il suo cadavere non si trova da nessuna parte. Questi sono i presupposti, narrati in modo anti-casuale, da cui tra vediamo la troupe del film partire per iniziare a girare il documentario, recandosi prima nella Biblioteca Marciana a Venezia (una delle biblioteche più fornite d’Europa, ci viene detto) e poi, sulle tracce del manoscritto, fino ai più isolati paesini o villaggi sul Delta del Po.
Il manoscritto di cui si parla è, a ben vedere, una specie di libro proibito, che nessuno dovrebbe leggere, e su cui nessuno dovrebbe tantomeno indagare: sfruttando un classico topos lovecraftiano, la troupe viene accolta con diffidenza dagli abitanti del posto, diffidenza che in alcuni casi diventa vera e propria ostilità. Si narra poi di un antico culto diffuso nella zona del Polesine (nei pressi di Rovigo) in cui alcuni frati (osteggiati al tempo dalla chiesa cattolica) porterebbero avanti un culto segreto: i Fradei (fratelli) di Loreo. È qui che la L. del titolo assume il significato di Loreo, la località del Polesine in cui i protagonisti si recano. L’affermazione del regista “we’re in L.” non andrebbe semplicisticamente tradotta come “siamo a Loreo“, peraltro, bensì a livello inconscio come “siamo all’inferno“. Il culto è segreto, non si può raccontare e – se si prova ad insistere – succederà qualcosa di molto brutto.
Tra i racconti popolari – un mix di tradizione e paura diffusi, peraltro, praticamente in qualsiasi regione d’Italia – vengono citati i racconti di Filò, narrati di notte attorno al fuoco e a cui la troupe ha il privilegio di poter assistere, accompagnati da una guida del posto. Ma la situazione non può durare: l’equilibrio tra i protagonisti e l’ambiente si spezzerà, saranno respinti da tutti, il documentario rimarrà impatanato sul non detto e, soprattutto, molti elementi diventeranno di vera e proprio minaccia nei loro confronti. C’è tempo anche per una digressione ufologica, peraltro, in cui viene intervistato un esperto in materia che racconta di avvistamenti dell’homo saurus (una via di mezzo aliena tra uomo e anfibio, dagli occhi che sbattono in verticale) in zona, in grado di immergersi nelle acque del Po e avvistato da alcuni abitanti della zona. L’idea non sarebbe male, di per sè, se non fosse che questa narrativa è stata fin troppo annacquata da avvistamenti fake e figuranti vari nella storia dell’ufologia, senza dimenticare figure come quelle di Bob Lazar. Da un certo punto di vista è un twist narrativo non da poco, ma l’effetto generale rischia di risultare fiacco, proprio perchè si fa appello ad una narrativa poco credibile da troppi punti di vista (considerando che la suggestione del film fa decisamente appello alla sospensione di credulità dello spettatore).
Il finale di Road to L.
Qui arriva forse la nota dolente definitiva, ovvero il finale del film, costruito su un climax di tensione in cui la fidanzata di Andrea consegna l’ultima videocassetta in cui si vede il suo ragazzo ancora vivo: durante la narrazione di una di quelle storie ancestrali e tenebrose, infatti, una presenza esterna si avvicina al casolare, e quasi certamente il ragazzo ne rimane vittima. Che si tratti di un homo saurus emerso dal fiume è più una suggestione che una certezza, anche perchè il finale è abbastanza povero di dettagli, mostra poco (e male, a dirla tutta) quello che succede, lasciando qualche punto interrogativo non tanto su cosa succederà alla troupe (che quasi certamente seguirà lo stesso destino fatale) quanto su come sia morto il ragazzo, lo stesso di cui si è parlato per la precedente ora e mezza. Questo climax “mancato” aleggia su ciò che temevamo accadesse in un film del genere, ovvero che il famigerato non detto prenda il sopravvento, che poi è la stessa critica che facciamo da sempre ogni volta che rivediamo mockumentary di ogni tipo. L’effetto è un po’ troppo straniante, in effetti, lascia un po’ disorientati ma è anche l’unico vero difetto di Road to L., che comunque si avvale di una storia coinvolgente, di una discreta recitazione e di un paio di picchi di tensione non da poco (sfido chiunque a restare indifferenti durante le perlustrazioni dei sottorranei, con quella presenza misteriosa appena inquadrata – un umanoide, probabilmente – oppure nella visita alla casa abbandonata, giusto mentre la ragazza del regista rimane nel camper a vedere l’inquietante videocassetta).
Il manoscritto è autentico o no?
Sulla veridicità del manoscritto, suggestiva per non dire clamorosa (perchè costringerebbe di fatto a riscrivere la biografia dell’autore, e a rileggere la sua produzione in chiave eventualmente rinnovata) non dovremmo neanche discutere, dato che si tratta di un mockumentary, falso per definizione. Il punto è che ad alcuni piace comunque credere cose non dimostrabili, tanto è vero che molta gente continua a cercare il “vero” Necromonicon nelle librerie e nelle biblioteche. Del resto in un mondo in cui un mockumentary sul falso allunaggio (manipolato sul web, ma tant’è) è riuscito a cementificare ipotesi di complotto che tocca smentire o discutere ancora oggi, vale la pena dare uno sguardo all’articolo A ottant’anni dalla morte di H. P. Lovecraft, scritto nel 2017 da Wu Ming 1 con la consueta lucidità. Un articolo ricco di dettagli sulla vita e le opere dello scrittore, oltre che sulla genesi del film e le ulteriori derivazioni della storia (tra cui un fumetto di Martin Mystere).
Quell’articolo, del resto, sgombra il campo dalle ambiguità sul razzismo dell’autore (che è reale, piaccia o meno, e basta leggerlo con attenzione per farci caso), da improbabili revisionismi ammorbidenti da parte di alcuni fan in merito (fare benaltrismo e dire che erano tutti razzisti, ad esempio, non sembra nè vero nè una scusante valida) e dal fatto che l’ipotesi della veridicità del manoscritto è stata discussa (!) solo in certi circoli culturali nostrani. All’estero non c’è traccia di chi ci abbia anche lontanamente creduto (se è un dichiaratamente un mockumentary, del resto…).
Il discorso a questo punto convergerebbe su numerosi ambiti sui quali, per brevità, non ci soffermiamo: basta comunque considerare che tantissima para-letteratura (ovvero esperti che parlano di opere) è spesso da rivalutare con occhio critico (leggasi: tanto vale leggere e vedere gli originali), per lo stesso motivo per cui le stroncature di film di 60 anni non implicano che quei film siano davvero così scadenti. In questo caso vale un po’ il contrario: Road to L. è un buon mockumentary con tanti pregi rispetto alla media, ma non è il capolavoro elogiato da tanti in modo sperticato, anche perchè lascia un senso di vuoto e di insoddisfazione, l’incompiutezza di cui parlavo all’inizio.
La regia è di Federico Greco e Roberto Leggio. Road to L. è disponibile (gratuitamente e legalmente, dopo aver visto un po’ di pubblicità nel mentre) su Vvvvid.it. Vale la pena dargli una possibilità, se amate i racconti dello scrittore e se ancora non l’avete visto.
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