Run: un thriller di Aneesh Chaganty niente male, per quanto difficile da inquadrare

Chloe è una ragazza disabile mite e ingegnosa, che vive con la madre Diane, premurosa quanto possessiva; Chloe è estremamente fragile ed è costretta a prendere (e dipendere) da farmaci di ogni tipo. La protagonista inizia a sospettare che la genitrice le nasconda qualcosa. E naturalmente è così…

In breve. Sicuramente un prodotto interessante, compiuto e di buon livello. Per altri versi, rischia di sconfinare nel già visto senza introdurre variazioni sul tema degne di nota.

Detta in estrema sintesi Run sarebbe horror alla Stephen King classico, per quanto deprivato della componente fantastica ed ancorato alla dura realtà di ogni giorno, declinandosi come dramma familiare a tinte estremamente cupe. Per chi conosce il cinema sarà impossibile, nel vedere la storia di Run, non pensare sia a Misery non deve morire che a Carrie, l’eroina kinghiana portata sullo schermo da Brian De Palma, anche lei in età adolescenziale e vittima dei pregiudizi folli di una madre bigotta ed egoista. Chaganty snellisce la storia rispetto al cult in questione, elimina la componente sul bullismo ed arriva ad essenzializzare il numero di personaggi: di fatto, l’intera storia si regge sul dualismo – e sull’equilibrio instabile – tra madre e figlia, mentre gli altri personaggi (anche quando apparentemente decisivi) non possono che sembrare del tutto incidentali. Questa volta sembra essere Chloe a non dover morire, ed il parallelismo col film di Reiner potrebbe addirittura non finire qui. Ci sarebbe anche da rievocare, per completezza, un celebre horror di qualche anno fa sulla stessa falsariga, The butterfly room, a cui molto probabilmente Run potrebbe essersi ispirato)

Sulla carta, Run avrebbe tutte le carte in regole per essere un buon thriller: privo di fronzoli, ben costruito, ingegnoso in alcune trovate (quanto un po’ ostentato in altre circostanze), ritmato, a tratti pervaso da una sottile ironia o humor nero, abbastanza ben interpretato. Alla prova dei fatti si basa pero’ su un gigantesco climax ascendente, in cui gli spettatori e la protagonista all’unisono vorrebbero sapere cosa stia succedendo, se Chloe si salverà e cosa sia quel maledetto medicinale che la ragazza prende da sempre. Se molte trovate sono originali (e anche divertenti, dato che la protagonista possiede un’anima sostanzialmente nerd), alla lunga sembra un po’ che il film prenda una direzione soffocante, ma si risolve quasi in un nulla di fatto soprattutto in un finale che è tutt’altro che imprevedibile. Il rischio è che, al netto di tutto, il pubblico rimanga perplesso o dimentichi la storia non appena uscito dalle sale.

Da un punto di vista scientifico, peraltro – molti non dovrebbero leggere per evitare spoiler, a questo punto – quello raccontato sembra una forma di disturbo mentale realmente esistente quanto probabilmente non troppo comune: la sindrome di Münchhausen per procura, molto difficile da diagnosticare perchè si basa sulla manipolazione e serve al paziente perchè, di fatto, possa sembrare propriamente più amorevole di quanto non sia.

Il punto dolente è proprio nel fatto che quest’ultimo sembra un po’ il segreto di Pulcinella: per come è impostato il film scoprire che Diane sia fuori di testa è tutto tranne che una sorpresa, e questo vale lo stesso nonostante i tutt’altro che rari twist nella trama, incluso quello sul finale che pero’, di fatto, rischia di sembrare un po’ banalotto. L’autentica forza di Run risiede nella sua narrazione travolgente, in grado di contrapporre un conflitto perfetto con due personaggi agli antipodi: una madre apparentemente irreprensibile, amorevole ed egoista contrapposta ad una figlia disabile, afflitta da mille mali (che vengono addirittura elencati all’inizio del film) e protesa verso un run, una corsa disperata che una disabile, di per sè, non potrebbe permettersi troppo facilmente.

Al netto di queste considerazioni, troveremo nel pubblico fan che avranno “pane per i propri denti” ed ameranno Run, così come ci saranno gli inevitabili (e tutt’altro che biasimabili) detrattori, che riconosceranno qualcosa di “monco” a livello narrativo, un po’ come se il film fosse stato travolto da un’essenzialità eccesiva che, in genere, per un thriller è quasi sempre una qualità desiderabile. Run è un prodotto nella media del genere, che presenta come suo più grosso problema lo stagnare nel regno dell’ingiudicabile, tra “film di genere come tanti” e film che avrebbe voluto dare qualcosa in più, senza pero’ mai decidere precisamente da che parte stare.

Di fatto i presupposti del film sembrano più che validi, anche perchè (se vogliamo) derivano dai dettami hitchcockiani più canonici su “come costruire la tensione con nulla“, tanto che ci sono sequenze in cui la tensione si taglia letteralmente col coltello. La sequenza delle medicine che Chloe cerca di acciuffare con una pinza telescopica artigianale, mentre non sappiamo quando e se la madre tornerà a casa, è un esempio emblematico del clima ansiolico che la sceneggiatura di Aneesh Chaganty e Sev Ohanian ha saputo declinare splendidamente. L’ansia è anche una componente psicologica della narrazione, e lo dimostra e lo conferma il fatto che si parli di malattie mentali realmente diagnosticabili – il che aumenta la dose di verosimiglianza del film stesso, e descrive con efficacia e sensibilità il dramma familiare in questione.

Che poi, soprattutto sul finale, si voglia per forza cercare l’effetto catartico un po’ tamarro o “all’americana” che dir si voglia, è comunque fuori di dubbio, e (per quel pochissimo che vale scriverlo) avrebbe funzionato meglio se fosse finiti 5 o 10 minuti prima. Ad ogni modo, ogni scusa per tornare al cinema è buona, di questi tempi, per cui se amate il thriller non temporeggiate, ed andate subito a vederlo.

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