Tra CGI e favole nere: “Scary Stories to Tell in the Dark” (A. Øvredal, 2019)

1968, Halloween: Stella, Chuck e Tommy fanno amicizia con il giovane Ramón, e vanno ad esplorare in piena notte un’antica abitazione sperduta.

In breve. Horror sovrannaturale ricco di elementi suggestivi, in un mix di generi insolito quanto interessante da visionare. Un film non impegnativo quanto, al contrario delle apparenze, tutt’altro che banale.

Noto al grande pubblico più che altro per Autopsy, Øvredal (regista e sceneggiatore norvegese) abbandona i lidi dell’horror realistico – nei quali, comunque, si è mosso in modo magistrale – e sembra ammiccare alle origini: in particolare quel Trollhunter con cui aveva esordito (un monster-movie stile mockumentary, artigianale quanto divertente nel suo impianto). Questa volta preleva il soggetto dalla serie di libri horror “Scary Stories to Tell in the Dark” di Alvin Schwartz, da cui Guillermo del Toro (anche produttore) ha tratto soggetto e sceneggiatura, assieme a Dan e Kevin Hageman, Marcus Dunstan e Patrick Melton. Un horror insolitamente per ragazzi, una contraddizione (forse solo apparente) che offre lo spunto per un contributo al genere semplice (magari semplicistico in alcuni passaggi, a dirla tutta) ma tutt’altro che da buttare.

Se il film può considerarsi in prima istanza un buon horror “adolescenziale” (in cui pero’ sesso random e omicidi scontati 3×2 non sono affatto all’ordine del giorno), possiede tutti i topòs classici del caso: dalle battute auto-ironiche degli adolescenti al mix di sotto-generi. Anche il livello di gore è molto ben dosato, e fa emergere un film sull’America che di americano, forse, non ha neanche troppo (le riprese sono avvenute in Canada, per inciso). A ben vedere, insomma, fa emergere qualcosa in più del solito slasher per teenager: sì, lo scenario è quello di Halloween (lo stesso, anche come periodo, in cui emergono gli orrori di 31), ma c’è in ballo la polemica pacifista contro la guerra in Vietnam e l’elezione di Richard Nixon.

Øvredal realizza un film lineare nel suo impianto – tanto che, a partire dal libro, sembra essere rivolto ad un pubblico molto giovane, pur strizzando l’occhio al pubblico più propenso ai pipponi socio-politici – fedele ai canoni del b-movie classico e senza mai arzigogolare sull’intreccio o i suoi simbolismi (che comunque sono presenti). Spiattella, insomma, una storia horror modello kinghiano – il riferimento è ovviamente a IT, per quanto il focus sia incentrato, in questa sede, sulla figura di Stella Nicholls e sul suo percorso di crescita / fuga dal senso di colpa per via del proprio passato.

La protagonista, infatti, trova un libro abbandonato che – un po’ come il Death Note – sembra procurare disgrazie in ogni dove, oltre a  descrivere dettagliatamente chi e come morirà tra i suoi conoscenti. Se l’idea non è nuova, è senza dubbio accattivante vedere come è stata sviluppata dal regista, che non rinuncia ai siparietti più ironici affiancandovi, un po’ a sorpresa, momenti truculenti piuttosto espliciti. Sarà il potere curativo della scrittura, nello specifico, a fare uscire Stella dall’incubo (sognava di diventare una scrittrice horror, neanche a dirlo), mentre la macchina da presa passerà in rassegna un villain differente per ogni ragazzino (tra cui un gigantesco spaventa-passeri ed un essere deforme che ricorda in parte La cosa). Se qualcuno stesse ostinatamente pensando ad un rehash col pagliaccio Pennywise, bisognerebbe correggere il tiro – perché l’analisi rischia di diventare riduttiva. Il canovaccio della storia sembra essere più vicino, infatti, agli incubi “personalizzati” della saga Nightmare (Freddy che prende la forma di ciò che più terrorizza ogni sua vittima: la persecuzione di Chuck Steinberg nella “stanza rossa”, ad esempio, sembra tratta proprio da lì).

A quel punto diventa chiaro, o dovrebbe già esserlo, che lo starting point dell’intreccio era solo un pretesto, e che Halloween serviva soltanto a creare una “piacevole” atmosfera per un horror sostanzialmente favolistico, una ghost story gradevole per quanto, onestamente, neanche clamorosa. Quello che ne migliora la valutazione, in effetti, è la capacità dello script di cogliere gli elementi su cui sembra incentrarsi la scrittura di Schwartz, le cui opere furono soggette a censura in molte scuole americane (molti credono comunque, a quanto pare, nel potere catartico del genere horror, considerandolo in questa sede adatto anche a dei ragazzi – al netto dei dettagli splatter e violenti comunque presenti nell’intreccio).

Come se non bastasse, le  sue sono storie ricche di elementi tratti da urban legends. Proprio le leggende metropolitane – che negli horror, in genere, non sfigurano quasi mai –  sono uno degli aspetti più interessanti del film, in particolare quella della ragazza con il brufolo, il quale diventa sempre più gigantesco fino a svelare un nido di ragnetti al suo interno (la stessa leggenda raccontata nell’opera omnia Leggende metropolitane di Jan H. Brunvand e inserita, tra l’altro, anche in Urban Legends: Bloody Mary di Mary Lambert). Il trailer del film visto in alcuni cinema, guarda caso, si concentra proprio su questo episodio – per quanto sia goffo riportarlo, Scary Stories to Tell in the Dark è candidato come Miglior trailer horror 2019, almeno da quello che scrive Wikipedia.

L’horror non è, insomma, semplicemente il simbolo delle insicurezze e delle paure dei protagonisti (per quanto ovviamente sia anche questo); il terrore, in questa sede, simboleggia anche ciò che quella generazione temeva e a cui stava andando incontro (la guerra, in primis), delineando i difetti che gli USA probabilmente si portano dietro fino ad oggi. Ad un certo punto della storia, del resto, inizia a emergere un ritratto impietoso della società dell’epoca, confinata nel conformismo, in un malcelato razzismo e autoritarismo nei confronti degli stranieri (Ramón Morales, in tal senso, è un messicano simbolo, tanto che il mostro deforme che lo aggredisce gli da’ del vigliacco dato che è renitente alla leva), il tutto nel folle entusiasmo di tanti ragazzi che furono mandati in guerra (e non solo all’epoca). Il servizio di leva, all’epoca, era ancora obbligatorio, e molti furono mandati sul fronte contro la propria volontà: bisognerà aspettare il 1973 per la sua abolizione, per quanto negli anni ’80 venne imposto l’obbligo per tutti i giovani americani di sesso maschile di iscriversi al Selective Service System.

Tutto questo dovrebbe far riflettere e rivalutare il film a chi, quasi senza ombra di dubbio, dirà che si tratta di poca cosa, probabilmente al netto del villain “rimontabile” che è stato inserito anche nella locandina. Solo finzione, chiaramente, tanto più che ci si rivolge ad un pubblico giovane (almeno nelle intenzioni): ma lo script è costruito con gusto e sostanza, e (per quanto sia un azzardo considerarlo un horror politico vero e proprio) sicuramente sarà amato da una discreta parte del pubblico del genere.

 

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