Strappare lungo i bordi: su Netflix la serie di Zerocalcare

Se le nostre strade sembravano nate per essere ritagliate alla perfezione, per fare succedere tutto ciò che ci eravamo prefigurati nel minimo dettaglio, quasi sempre poi accade che le cose cambiano, che non facciamo quello che davvero volevamo (o pensavamo di volere), cambiamo idea, cambiamo mondi, atteggiamenti, frequentazioni. Magari subiamo una perdita, ci rompiamo in mille pezzi impossibili da ricomporre, eravamo al pub e adesso siamo dentro un vortice, una spirale.  E ciò che rimane di quei percorsi falsamente stabiliti, alla fine, non sono che pezzi di carta tagliuzzati malamente, senza un significato apparente e di cui non sarà facile nè banale trovare un senso.

Strappare lungo i bordi è giusto quell’idea perfezionista (in realtà fallace e ben poco rassicurante) alla base della popolarissima serie di Zerocalcare, nuova serie TV amata e magnificata dai più, incentrata sulla narrazione dei percorsi di vita e della loro imprevedibilità. Se volessimo individuare un topic universale sviscerato nella serie forse, alla fine dei conti, ci rimarrebbe questo.

Uscita il 17 novembre 2021 su Netflix, si tratta di serie-lampo di soli 6 episodi, di circa due ore complessive di durata, in cui si racconta una brevissima storia di Zerocalcare (dal tono ovviamente autobiografico) localizzata tra Roma e Biella, nei luoghi (a partire da Rebibbia e Ponte Mammolo) in cui l’autore è cresciuto. Chi conosce le sue opere e la prolificità dell’autore, troverà esattamente quello che si aspetta: un flusso di coscienza spassoso ed autentico, che si perde in mille meandri narrativi, fatti di sotto-storie e micro-narrazioni. Tanti altri coglieranno forse meno: andrebbe citata la critica più in voga, l’unica, con cui ad esempio Guia Suncini rimprovera alla serie di essere in romanesco poco comprensibile (e si sdegna vagamente per la “permalosità” di chi non accetta la critica). A parte i toni che erano forse evitabili, e che sono tipici di chi critica anche lecitamente un’opera facendosi prendere la mano (tanto più nell’era dei social), si intuisce essere una polemica poco funzionale, dato che il linguaggio non poteva che essere quello. Non avrebbero comunque potuto realizzarla in modo diverso, salvo ottenere effetti tipo “lo spinoff neozelandese di Superman”, insomma quasi uno Z movie in cui nessuno è quello che dovrebbe. E poi sono presenti i sottotitoli, utili soprattutto per chi volesse guardarla mentre sta usando un frullatore oppure in mezzo al traffico (non mentre sta guidando, si spera). Tutto questo si barcamena in una discussione polarizzata e irrisolvibile per sua stessa natura, che rischia di non cogliere la sostanza dell’opera.

Del resto quella che può sembrare una storia frammentata ha pure il pregio di far ridere sul serio (e anche tanto, in certi momenti, il che non è poco), per quanto il principale merito di Strappare lungo i bordi risieda nella sua sensibilità artistica e sociale, e anche nella sua sintesi auto-conclusiva, con un finale sentito e sincero, privo delle ambiguità classiche modello “e mo’ so cazzi vostra, famo artri 18 milioni de puntate“. La sintesi è un pregio indiscutibile anche in questo caso (chi mi legge sa quanto poco apprezzi le serie TV in quattordicimila puntateTM), ed evita potenziali derive auto-indulgenti che avrebbero reso il prodotto meno incisivo, meno in linea con il fumetto ed il mood da cui è tratto. Solo sei puntate di circa venti minuti ciascuna, basate su personaggi e cifra stilistica del fumetto La profezia dell’armadillo (lavoro di cui esiste anche un film, vale la pena ricordare, disponibile su Amazon Video), per quanto l’idea di animare i personaggi derivi da Rebibbia quarantine, la serie animata essenziale, potenziale “pilota” e anticipatrice di Strappare lungo i bordi, trasmessa durante il lockdown su La 7 nel programma Propaganda Live.

La narrazione di Zerocalcare, del resto, non poteva che basarsi sul flusso di coscienza, in cui la storia delle sue giornate è intervallata dalla coscienza rompipalle dell’Armadillo (voce di Valerio Mastrandrea) e da apparizioni di figure fugaci umane quanto condizionanti, paranoie, ansie, problemi psicologici e “accolli” di ogni ordine e grado. Una storia in grado di mettere in primo piano la fragilità dei personaggi, senza limitarsi ad essere una mera voce generazionale (la stessa generazione, per inciso, sfiancata dal precariato, dall’incertezza e/o dai fatti del G8 di Genova). Le puntate sono state scritte evidentemente di getto, con uno stile da tradizione orale, da racconto di strada, in cui la colonna sonora non poteva che essere basata sui brani amati dall’autore: dai riferimenti imprescindibili nell’ambito punk (Klaxon, Gli ultimi) a finire su una miriade di altri artisti, di qualsiasi genere possibile (o quasi): Band of horses, Billy Idol, Tiziano Ferro, Manu Chao, M83, Apparat, Ron. Il tutto senza dimenticare il fondamentale e determinante contributo di Giancane, che firma la sigla della serie.

Uno stile ben “allenato” da libri e strisce a fumetti, note da anni ai fan dell’artista, evitando fin da principio le narrazioni diluite e didascaliche un po’ tipiche di gran parte serie televisive in genere (per un mix di probabili ragioni, siano esse pratiche, di tempistica o di budget). Parte col botto e finisce ancora meglio, con un imprevedibile finale e uno storytelling che diventa, a quel punto, leggermente più composto, ma ugualmente poco convenzionale. Un climax narrativo che sfocia in un dramma che esplica l’ennesimo “strappo” fuori norma, a cui sarà impossibile restare indifferenti. Se la narrazione della serie è diretta, lineare, realistica e ovviamente intrisa di romanità (fatta di continui paragoni creativi, metafore e accostamenti grotteschi), al tempo stesso è una storia al cui stile forse bisognerà abituarsi (specie se non si è letto abbastanza Zerocalcare nella vita), che fa prendere gusto in corso d’opera ed è in grado di appassionare e incuriosire.

Se l’ispirazione del lavoro è chiaramente ispirata a serie TV come I Simpson, è evidente la relazione con una serie come Bojack Horseman, che è riuscita a rendere delle “semplici” gag satiriche un prodotto di spessore para-letterario, filosofico e psicologico – eppure profondamente pop. E sarebbe ingiusto non tributare i pilastri narrativi che sottendono alla narrazione di Strappare lungo i bordi: le ansie quotidiane di ognuno di noi di fronte ai cambiamenti, ovviamente, ma anche le conseguenze delle relazioni tossiche, le estreme conseguenze a cui possono portare e le direzioni che possono prendere le vite di ognuno di noi. Noialtri di quella generazione, più o meno, costretti a volte dalla luce all’oscurità senza appello, a volte mentre stavamo-decidendo-cosa-fare.

Michele Rech / Zerocalcare si è fatto conoscere in questi anni come autore di ben 12 libri (al momento in cui scrivo) più un’infinità di collaborazioni e spin off più o meno estemporanei, in grado di portare il fumetto italiano oltre la seriosità delle produzioni classiche – e diventando, peraltro, la prima serie animata italiana a sbarcare su Netflix. Prodotto da Francesca Ettorre, Michele Foschini, Davide Rosio, Giorgio Scorza, ed interamente ideata e realizzata da Zerocalcare in collaborazione con il lavoro alle animazioni di Valentina Seghizzi e molti altri, Strappare lungo i bordi è da pochi giorni disponibile per gli abbonati Netflix.

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