Three… Extremes: pregevole carovana orrorifica con tre registi diversi

Tre storie differenti (una donna che afferma di conoscere l’elisir di lunga vita, un famoso e giovane regista e due sorelle) a comporre una inquietante e grottesca trilogia di horror orientali.

In breve. Trilogia di cortometraggi dell’orrore, decisamente accattivante e crudele al punto giusto.

Presentato nella sezione Mezzanotte alla 61a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un collage di  tre episodi distinti, accomunati dagli estremismi tipici del cinema orientale. La distribuzione di stili e generi è piuttosto omogenea, per cui è anche un buon modo per avvicinarsi al genere senza “costringersi” a visionare lungometraggi spesso decisamente troppo corposi. Siamo distanti anni luce dall’orrore “cartonato” di certi prodotti del passato: qui è tutto vivido, realistico e – proprio per questo – decisamente disturbing in almeno un caso (neanche a dirlo, di cannibalismo).

Dumplings

Quando li mangia, non pensi al contenuto: pensi al beneficio.

Giocando su inquadrature ultra-ravvicinate, nonchè sfruttando un’idea di fondo tanto macabra da sfociare nel grottesco più spaventoso, il cinese Fruit Chan rappresenta – ispirandosi alle discusse tematiche abortiste – l’ossessione moderna per l’esteriore, la totale mancanza di scrupoli a vantaggio del benessere, il culto dell’ apparenza e – naturalmente – la totale disumanità di certuni. Il tutto in una formula apertamente sovversiva, visibile all’interno dei contesti rappresentati che vengono, in ogni occasione, contrapposti con abile cinismo alla crudissima realtà dei fatti. Una ex-attrice tormentata dall’età che avanza e dal marito che la trascura si rivolge ad una “specialista” – la “zia Li” – che le inizia a preparare regolarmente il “cibo della lunga vita”. Giocando su abili chiaroscuri e fondando lo sviluppo della storia su interpretazioni convincenti, vedremo come il tutto – al di là delle prime, rassicuranti, premesse –  finirà per rivoltarsi ferocemente contro la protagonista. Un episodio decisamente spaventoso e, di fatto, molto poco adatto ai deboli di stomaco. Da guardare con cautela.

Cut

L’odio è un sentimento imprevedibile.

La vendetta può essere, a suo modo, tanto sadica quanto apertamente bizzarra: questo sembra essere il messaggio sottinteso a questo secondo cortometraggio di “Three… Extremes“, probabilmente  il migliore della trilogia in quanto a mix di efficacia, ritmo e contenuti. La storia è quella di un attore-comparsa fallito, il quale sequestra un giovane regista considerandolo “troppo buono” per potersi permettere quello stile di vita; dopo averlo rinchiuso nel set del suo ultimo film, lo costringe a scelte decisamente complesse per avere la vita risparmiata. Giocando con la sua esistenza come uno dei migliori “sadici burattinai”, ed imponendo alla vittima costrizioni assurde (e molto sadiche, per quanto decisamente lontane dalle violenze iper-amplificate dei torture porn), in un gioco accattivante di inversione del ruolo tra comparsa e regista. Il tutto fino ad un finale piuttosto imprevedibile, articolato sulla presenza di soli quattro attori protagonisti e che finirà per lasciare il pubblico realmente spiazzato. Un piccolo capolavoro, per la cronaca, sia l’immagine della pianista con le dita incollate al pianoforte (vincolata da numerosi fili che la rendono simile ad una sorta di grottesco burattino) sia la sequenza che contiene i siparietti – fatti di danza e recitazione – dello psicopatico, capace di architettare trappole che rivaleggiano, in parte, con quelle di Saw – L’enigmista (uscito lo stesso anno), pur essendo impiantate in modo piuttosto elementare. Da vedere ad ogni costo.

Box

Il sogno si interrompe sempre così…

Una scrittrice è ossessionata da un incubo ricorrente che sembra risalire ad un trauma infantile, nel quale parrebbe aver causato la morte della sorella con cui si esibiva in un numero di contorsionismo. La scatola del titolo, di fatto, è quella in cui le due ragazzine si trovavano ad essere rinchiuse, ed un ricordo di atroce gelosia sarà la molla che farà scattare questo episodio decisamente fuori dalle righe. Probabilmente il più introspettivo e psicologico della trilogia, certamente il più criptico, in bilico perenne tra incubo, sogno e realtà. Un Takashi Miike che non tutti finiranno per riconoscere come tale, preso com’è dall’accennare (senza esplicitarli troppo) gli orrori, e nel fornire allo spettatore esclusivamente suggestioni, spunti e immagini che raccontano una storia semplice esclusivamente mediante simbolismi, scene oniriche alla Lynch e sequenze di tensione ben congegnate. Un episodio abbastanza interessante che pero’, a bene vedere, non rappresenta necessariamente il meglio del repertorio del regista: se non siete avvezzi alla sezione più intimista del genere non sarà facile concludere la visione senza alzare più di un sopracciglio.

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