Vivere e morire a Los Angeles: il thriller fuori dalle righe firmato Friedkin
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Un agente dei servizi segreti è alla ricerca di un gruppo di spietati falsari che ha ucciso il suo collega…

In breve. Un thriller notevole quanto a suo modo fuori dalle righe, dai toni particolarmente cupi e pessimisti.

Girato con un budget disponibile di soli 6 milioni di dollari, costrinse Friedkin da subito a scritturare attori poco noti (Turturro e Dafoe erano agli esordi, all’epoca: secondo film per l’attore naturalizzato italiano, settimo per Dafoe). Il soggetto si basa su un romanzo di Gerald Petievich, scrittore americano con un passato da agente dei servizi segreti, del quale pero’ il regista mantenne solo il 20% della trama originale.

Friedkin – fin troppo ricordato per L’esorcista, in effetti – si mostra ancora una volta a suo agio col genere thriller, e (come già aveva fatto con Cruising qualche anno prima) dirige magistralmente un noir cupo, ambientato in una metropoli desolata e senza scrupoli. Per conferire maggiore realismo alla trama, Friedkin si affidò a degli autentici falsari di banconote – tanto che si racconta che alcune delle stesse finirono in circolazione, caratterizzate per fortuna dalla lettera X (non valida nel sistema bancario americano) per renderle riconoscibili da quelle autentiche. Nel libro “The Friedkin Connection” il regista racconta di alcune persone che cercano di falsare banconote seguendo il processo descritto accuratamente nella parte iniziale del film, e di aver speso parte di quel denaro in ristoranti e scarpe.

Vivere e morire a Los Angeles racconta una storia poliziesca classica, di base: un poliziotto che vorrebbe vendicare il collega ucciso brutalmente da un gruppo di falsari. Se in questi casi la prassi vuole che l’irreprensibilità morale dell’agente non sia mai messa in discussione e, perlopiù, diventi la molla per risolvere la trama e far scattare la giustizia, in questo caso le regole narrative finiscono per essere capovolte.  Tanto è vero che Richard Chance è talmente accecato dal dolore da arrivare ad architettare una rapina ad altissimo rischio, pur di trovare i soldi per trattare col falsario Masters e scovarlo con le mani nel sacco. Il vero personaggio tragico della storia, probabilmente, è proprio lui, ma andrebbe menzionato anche il collega Vukovich, espressione dello stereotipato “poliziotto buono” che poi, in fin dei conti, non sarà destinato a rivelarsi tale.

Se molti dei toni ricordano quelli del poliziottesco all’italiana (il cinismo di fondo e lo spiccato senso per gli affari loschi da parte di molti personaggio), il film è impregnato di un senso di degrado che rende, nonostante tutto, pienamente godibile l’intreccio. Questo avviene anche a costo di banalizzarne alcuni dialoghi (l’immancabile “sono troppo vecchio per fare questo mestiere“) ma innestando abilmente alcuni notevoli twist, di cui alcuni davvero sorprendenti soprattutto nel finale.

Il vero colpo di scena in quello che sembrerebbe (e non è) un thriller ordinario, in effetti, non è tanto nel mancato focus sul protagonista in cui identificarsi- i due possibili candidati ad esserlo non saranno tali, come si vedrà – quanto nella spirale di crudeltà umana che Friedkin sembra avere a cuore di mostrare. In tal senso, potremmo paragonare To live and to live in LA alla versione americana di Milano odia: la polizia non può sparare, per la violenza esplicita (almeno due scene in cui la morte dei personaggi viene mostrata in primo piano, e non fuori campo come usualmente si fa), per come si sviluppa la storia, per gli intrighi subdoli tra i personaggi e per gli inseguimenti interminabili. In particolare, quello che finisce con l’auto che viaggia per un lungo tratto contromano.

Quello che sarebbe stato il consueto dilemma morale – un poliziotto irreprensibile che valuta, tra mille tormenti, se sia davvero necessario infrangere la legge per catturare un pericoloso falsario – diventa poi un saggio di antropologia negativa, in cui nessuno è davvero pulito e qualsiasi poliziotto cederà al vortice narrativo, ineluttabile, di morte e vendetta. In tal senso, Vivere e morire a Los Angeles è sicuramente uno dei più espressivi e significativi thriller anni ’80, caratterizzato da una fotografia oscura e cupissima, come raramente si è visto in questo ambito. Sicuramente da riscoprire ancora oggi.

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