Ad astra è la fantascienza materialistica (e umanizzata) di James Gray
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Roy McBride è il figlio di Clifford McBride: sono entrambi astronauti in un futuro prossimo, nel quale l’umanità ha riconosciuto il grande valore delle missioni spaziali. Dopo molti anni dalla misteriosa scomparsa del padre, Roy si fa coinvolgere in un lungo viaggio alla scoperta di alcune radiazioni pericolose e, nel frattempo, del reale destino del proprio genitore.

In breve. Fantascienza concettuale di natura filosofico-psicologica, di sicuro non banale, molto di concetto quanto vagamente indigesta per via di certe lungaggini, personaggi non sempre riusciti e qualche crepa narrativa. I fan di Nolan dovrebbero apprezzare, gli altri possono accogliere con il beneficio del dubbio.

Il titolo significa “verso le stelle” in latino. È spesso usato come abbreviazione di “Per Aspera Ad Astra” oppure “Per Ardua Ad Astra” (significa in ogni caso “Attraverso le avversità, verso le stelle”), che è anche il motto della Royal Air Force.

Ad astra – coi suoi vuoti interstellari e quel silenzio cupo che dovrebbe, realisticamente, sentirsi nello spazio – sembra dare l’impressione di scoperte aliene imminenti, creature dallo spazio profondo, buchi neri minacciosi. Buchi neri psichedelici, al limite, proprio come quelli kubrikiani: queste false impressioni vengono poi smentite dai fatti, da un incedere della storia incentrato sul futuro dell’astronomia, sul senso di responsabilità etico della scienza e, soprattutto, con una narrazione dai tratti umani e auto-riflessivi. Lo stesso regista, del resto, ha definito il proprio lavoro come una mashup tra il capolavoro sci-fi di Kubrick, Apocalypse Now e un romanzo di Joseph Conrad, e per quanto non sia per forza agevole intuire l’essenza del film da questi riferimenti, gli stessi restano molto consistenti.

No, davvero, nello spazio non c’è nulla: ci vogliono due ore di film per arrivare a questa conclusione, e tanto basta a decretare la qualità (o quantomeno l’originalità) di Ad astra: anche i detrattori più terrorizzati dagli spoiler potranno farsene una ragione. Per la fantascienza (e per questo sottogenere qui, fantascienza concettuale quasi quanto 2001 Odissea nello spazio) sarebbe già un fatto di per sè clamoroso, un autentico punto di svolta. Si va finalmente ben oltre l’approccio positivistico (o presunto-scientista) di film come Interstellar, che a mio avviso andavano a bersaglio soltanto in parte. Il che non è poco, per un film che vanta la consueta ottima interpretazione di Brad Pitt (e non dovrebbe essere una novità, per quanto vada citato a riguardo anche Tommy Lee Jones), una storia relativamente credibile (che per il genere è fondamentale per non risultare infantili o stucchevoli), per quanto la narrazione sia strutturata in modo non sempre ottimale (si diluisce troppo, in molti casi), una regia che resta convincente e varie sequenze nello spazio realmente mozzafiato.

Roy McBride è l’astronauta calato nel proprio mestiere, totalmente rapito dallo spazio, alla ricerca più di se stesso che di altro, tanto da trascurare l’unico affetto della moglie, sia pur superando brillantemente i test psicologici a cui tutti gli astronauti vengono sottoposti (da quello che vediamo nel film, realizzati ed elaborati mediante un’intelligenza artificiale). Roy è anche una figura che evoca l’Uomo in generale, la sua voglia di oltrepassare i limiti e la sua incapacità cumulativa di badare a ciò che conta: anticipando di qualche anno il sovraguardismo / sottoguardismo di film come Don’t look up, la sceneggiatura di James Gray e Ethan Gross sembra suggerire al grande pubblico come l’umanità sia troppo spesso fuorviata dalle questioni vitali (chi siamo, chi amiamo, cosa vogliamo dalla vita) dall’analisi autoindulgente di problemi che più complicati sono, meglio è.

È altrettanto vero, poi, che per risolvere il dilemma viene tutto chiarificato in chiave pop, non certo ricorrendo ad una filosofia formalizzata, ad una psicologia elaborata o alle finezze di Tarkovsky. Ma dato il contesto, il cast e la provenienza del film ci potrebbe anche stare, ed è un miracolo (peraltro) che non abbiamo assistito ad un prevedibile rifacimento di Inception o (peggio ancora) La moglie dell’astronauta, di cui questo film sembra quasi la versione “riveduta e corretta“. Quasi secondario, a questo punto, considerare tale originale mood come una scusa per sentimentalizzare la trama – tanto per dirla in modo colorito: “amiamoci meglio, e di più! Anche perchè nello spazio attorno a noi non c’è un cazzo“. Il film pone quesiti autentici sulla ricerca scientifica, si sforza di rimanere nell’ambito plausibili e mostra una filosofia materialista, terrena e legata alla scienza che più, in effetti, non si potrebbe, pur raccontando una ricerca padre-figlio tra le più toccanti mai viste in questi contesti.

Del resto in Ad astra anche il finale funziona, finale che non è neanche artificioso come certa critica ha insinuato, anche perchè è presente un considerevole twist (peraltro, molto poco hollywoodiano) che finisce per motivare il protagonista, aiutandolo ad uscire dall’abisso in cui si stava specchiando e facendosi inghiottire. Alla fine la fantascienza materialista (perchè parla di futuro e tecnologia senza inventarsi villain o “Altri” umanoidi con cui rapportarsi) di questo film induce un meta-racconto sulla psiche dell’astronauta, e lo fa riflettere sia sulla propria rinascita che sulle preziose scoperte fatte dal padre, da lui amorevolmente ricopiate e trasmesse ai posteri. È una fantascienza “quasi” nolaniana che dovrebbe piacere ai suoi fan, pur ammettendo che Nolan avrebbe (quasi certamente) complicato la narrazione ed inserito, quantomeno, almeno una distorsione spazio-temporal-paradossale nella storia. Niente male, in definitiva, per un Ad astra oggetto di dibattimenti (im)probabili ed eventuali, ridotto troppo spesso ad una sterile gara tra capiscer di fantascienza vs. hater bastian contrari.

Ci troviamo in un futuro prossimo, in cui l’esplorazione dello spazio è la norma, ma nessuno sembra aver trovato una prova di vita extraterrestre. Verso le stelle, verso il Progresso, guidato da un “progresso” che abbiamo finito per sopravvalutare, forse drogati dallo scientismo e dal positivismo, smarrendo i valori di empatia e umanità (il comportamento di Roy è mostrato a sprazzi come passivo, o del tutto anaffettivo, verso i propri cari). Triste o deludente che sia, per certi versi, è sempre meglio che cercare aliene sexy nello spazio, raccontare di alieni che vengono a visitarci nei modi più strambi, far lavare i piatti a delle aliene umanoidi (giuriamo di aver visto una sci-fi nostrana che mostrava una cosa del genere) oppure, dulcis in fundo, cercare il partner ideale nello spazio.

L’appellativo fantascienza materialista trova, a questo punto, una piena giustificazione: il padre del protagonista è andato in missione spaziale anni prima, per cercare prove concrete di vita nello spazio. Per motivi misteriosi (che farebbero pensare al più classico dei complotti, e che poi si disveleranno) la missione è stata annullata, l’uomo è stato dato per morto. Sarà il figlio a scoprire cosa sia successo, dopo una riunione in cui gli verranno comunicati dei documenti classified, scoprendo che il padre potrebbe essere ancora vivo. Il tutto lo porterà prima sulla Luna, poi su Marte, infine su Nettuno (dove, sia consentita la battuta agghiacciante, c’è il riTchio di non trovare NeTTuno).

Non mancano alcuni elementi narrativi evitabili o, a essere buoni, non indispensabili: le incursioni nell’horror che sembrano quasi casuali (i babbuini cavie che aggrediscono gli astronauti, ma perchè?), le dilatazioni temporali che a volte annoiano e fanno distrarre, alcune interpretazioni che sembrano anonime e troppi “buchi” / personaggi che scorrono sullo schermo senza lasciare traccia (per intenderci, che fine ha fatto Thomas Pruitt? Eppure il personaggio affidato a Donald Sutherland, così come quello di Ruth Negga, sembravano tutt’altro che irrilevanti). Il doppiaggio italiano sembra aver commesso, peraltro, un errore di traduzione in qualche passaggio, dato che traduce documenti classified come “documenti classificati“, il che è un errore marchiano che non giova alla comprensibilità della storia: nella classificazione USA dei documenti governativi (anche in ambito informatico, ad es.), si usa il termine classified per indicare i contenuti riservati.

Curiosità astronomiche: la stringa 6EQUJ5 che compare nel film (contiene spoiler)

Il 15 agosto 1977 l’astronomo Jerry R. Ehman rileva per la prima (e, ad oggi, unica) volta quello che sarebbe diventato noto come “segnale WOW“: lo stesso che, in maniera probabilmente celebrativa di quell’evento, Roy McBride (Brad Pitt) esamina nel documento classified fornitogli dal suo superiore. L’identificativo è 6EQUJ5, che è la stringa di caratteri associata al vero wow signal di cui sopra. Ispirandosi anche a questa storia, che diverte e appassiona fino ad oggi i nerd astronomici e ufologici di tutto il mondo (e che probabilmente finirà per avere una spiegazione che più razionale non si potrebbe), il film di James Gray si presenta come un unicum nel suo genere, una specie di fantascienza “materialista”: di fatto, esso porta avanti l’idea che non ci sia vita nello spazio, a parte quella terrestre, nonostante i presupposti esattamente opposti. È proprio il padre del protagonista a rilevarlo, esplicitando così la propria frustrazione per la non-scoperta e motivando il proprio gesto estremo finale.

Il radiotelescopio, nella realtà, puntava verso la costellazione del Sagittario, e ad oggi non sembra esistere una spiegazione plausibile a quella trasmissione così anomala. La stringa 6EQUJ5 è ovviamente un omaggio a questa storia, piuttosto nota in ambito astronomico e mai spiegata appieno, almeno fino al momento in cui scriviamo.

Credits: Big Ear Radio Observatory and North American AstroPhysical Observatory (NAAPO)., Public domain, via Wikimedia Commons
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