L’assedio dei morti viventi: gli zombi di Bob Clark nel 1972

Una compagnia teatrale finisce su un’isola abbandonata per realizzare un macabro spettacolo in un cimitero. Non si rivelerà, come prevedibile, un’idea brillantissima.

In breve. Non il miglior Clark ma sicuramente con un suo perché e qualche motivo di interesse: un horror in salsa zombi che lascia il segno, per quanto ricalchi fin troppo esplicitamente i lavori di Romero.

Abbstanza fuori dalle righe questo horror del regista che, con lo pseudonimo di Benjamin Clark, decise di girare quasi in parallelo a La morte dietro la porta. Se i toni iniziali sono quelli dell’horror sovrannaturale, fin dalle successive sequenze si intuisce un feeling più virato sul gotico, con la presenza di morti viventi a voler richiamare le origini del genere (White Zombie del 1932). Del film in questione, peraltro, era stato anche pianificato per un remake, cosa che non avvenne per via della tragica scomparsa di Clark in un incidente stradale nel 2007.

Ad ogni modo il regista di Black Christmas e La morte dietro la porta gira questo zombi-movie ispirandosi alla tradizione voodoo – ma anche a quella romeriana, omaggiando apertamente La notte dei morti viventi nella sequenza dell’assedio finale. L’origine degli zombi è da attribuirsi ad un misterioso grimorio satanico in possesso di uno dei personaggi: un aspetto originale che si discosta, se vogliamo, dalla classica origine voodoo o dovuta a radiazioni e/o disastri ecologici.

Al tempo stesso Clark è abile a costruire un climax di tensione magistrale, che non ci mostrerà alcun morto vivente per oltre due terzi del film, relegando le scene clou agli ultimi minuti finali. Il personaggio di Alan – che per puro esibizionismo darà luogo anche ad una insistita e grottesca necrofilia, per inciso – è, a suo modo, un archetipo del classico “più stupido che cattivo“, l’antagonista-bullo che spopolerà nel genere anche (per non dire soprattutto) nei successivi anni ’80.

Al netto di questo, il film è considerato di culto nel proprio genere, ma non è (a dirla tutta) esente da difetti: vediamo la compagnia recarsi in un’isola per realizzare uno spettacolo, ma non è chiaro cosa vadano a fare dei teatranti su quell’isola (nemmeno dovessero girare un film), quale sia l’idea di spettacolo che ha in mente Alan, per quale motivo il suo personaggio riesca a ricattare l’intera compagnia con facilità (da quello che si capisce è solo un egocentrico dalle discutibili pretese artistiche, non certo un VIP). Del resto se c’è un patto tra noi ed il regista, che consiste nel credere a qualsiasi cosa ci proporrà, è opportuno ricordarselo da subito per evitare di trovarsi impreparati.

Andando al di là di questi buchi narrativi che, per essere completamente sinceri, caratterizzano un po’ il sotto-genere (vedi anche Horror hospital, ad esempio), bisogna riconoscere un po’ di meriti a Children Shouldn’t Play with Dead Things. Ad esempio l’aver introdotto elementi inediti in un film di zombi (il satanismo come causa del ritorno dei morti viventi), l’ossessione per l’occultismo tipica degli anni ’70 (per quello si vede, peraltro, alcune sequenze potrebbero aver ispirato l’evocazione dei demoni del primo La casa), la scelta anti-convenzionale di fare morire per primi i personaggi più simpatici, il clima cameratesco da scherzi di cattivo gusto che, alla lunga, prepara l’atmosfera agli orrori reali, l’idea conclusiva che i morti viventi si avvicinino alle barche per espandere l’invasione (un qualcosa da cui potrebbe aver preso spunto Lucio Fulci all’interno di Zombi II).

Dal punto di vista scenografico gli undead sono credibili e ben realizzati (da Alan Orsmby, che recita anche nel film), e non mancano trovate originali come l’uso caratteristico del ralenti in tutte le sequenze di aggressione. Un film da riscoprire, insomma, soprattutto per gli amanti del genere morti viventi, per un lavoro a suo modo interessante.

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