Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.

Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebbero usciti negli anni settanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.

Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.

La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.

Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.

E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.

Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).

Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)

Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.

Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come  Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.

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