Le vicende di due fratelli appena evasi di prigione e ricercati dalle autorità americane, in cerca della libertà in un rocambolesco viaggio verso il Messico…
In due parole. Incredibile connubio tra poliziesco-noir ed horror, con espliciti, insistiti e ripetuti omaggi al cinema di genere anni 70/80; come se non bastasse, è interpretato da un cast raramente così denso e convincente (Harvey Keitel, George Clooney, Quentin Tarantino, Juliette Lewis, Salma Hayek, Danny Trejo, Tom Savini, Fred Williamson). Un cult che non stanca neanche oggi, e questo nonostante uno script non originalissimo e parecchio movimentato. Da non perdere.
Il delirio citazionistico per eccellenza della coppia Rodriguez-Tarantino, che racconta un intreccio piuttosto semplice ed altrettanto appassionante. La fuga di due rapinatori, che assaltano il camper con un padre e due figli per farsi portare fuori dagli Stati Uniti, l’attesa di un appuntamento all’interno di uno strip-bar (il “Titty Twister“, entrato nell’immaginario collettivi di tanti cinefili), l’arrivo improvviso di un’orda di feroci vampiri. Nonostante l’accostamento alla “due film in uno” possa risultare bizzarro di primo acchito, si tratta probabilmente – e con tutti i limiti del caso – di uno dei migliori film di genere del periodo. In questa sede Rodriguez si è dimostrato davvero molto abile, e questo sia nella costruzione delle scene che nella definizione dei rapporti tra i personaggi, evidenziando a più riprese l’ambiguità delle relazioni, i “cattivi” che finiscono per allearsi coi “buoni” per necessità, l’aspetto sessuale messo spesso al centro della vicenda e – ci mancherebbe altro – l’elemento puramente exploitativo.
La prima sequenza del film – campo lungo su un deserto, uno sceriffo nel negozio a comprare degli alcolici, rapina in corso che si materializza agli occhi dello spettatore – è da manuale del cinema di genere: il commesso sta fingendo che sia tutto normale, ma due criminali sono nascosti in un angolo, ed hanno preso due ostaggi. Il momento in cui l’autorità si allontana dalla scena principale svela un crescendo di tensione tesissimo, nel quale Tarantino caratterizza da subito la propria figura di criminale schizoide degno di Funny Games (che uscirà l’anno successivo). Il tutto culmina in un delirio di sangue e violenza, con tanto di citazione esplicita di una sequenza di Zombi 2 (gli spari che demoliscono le bottiglie di alcolici ed il rotolo di carta usato a mo’ di molotov). Alla fine, immancabile esplosione finale “holywoodiana”, con i due protagonisti che si allontanano come se nulla fosse. Le premesse per un gran film ci sono tutte, e vengono di fatto soddisfatte quasi interamente. Sfruttando la solida sceneggiatura di Quentin Tarantino (una delle più vecchie che abbia mai scritto, ispirata chiaramente ai due masterpiece Distretto 13 e La notte del morti viventi), Rodriguez parallelamente mostra il meglio del proprio repertorio, preparando il terreno alla sua consacrazione finale – che avverrà, se servisse specificarlo, con Machete.
Situazioni già viste, da un lato, che richiamano un mondo ben delineato durante gli anni 70/80: i road movie alla Cani arrabbiati, la sexploitation di Russ Meyer, l’horror all’italiana di Fulci, Argento e Lamberto Bava. Tutto farebbe pensare, di fatto, ad un ennesimo capolavoro del genere, di fatto, se non fosse che esistono due generi di problemi in un film di questo tipo. Prima di tutto la loro natura piuttosto di nicchia, che strizza l’occhio allo spettatore più hacker della pellicola lasciando un po’ in bambola tutti gli altri: e se non si colgono i riferimenti, sarà facile assistere all’alzata di più di un sopracciglio. D’altro canto quello stesso pubblico che, spesso non per propria colpa, conosce meno il cinema del genere, sarà portato, inevitabilmente, a banalizzare il lavoro in toto, specie nel momento in cui “Dal tramonto all’alba” si ispira in modo pesante alle sequenze di “Demoni”: anche qui, infatti, troviamo un gruppo di persone che deve lottare, in uno spazio chiuso, contro dei mostri comparsi dal nulla. L’irrazionalità del lavoro originale di Bava, del resto, così come quella di molti altri horror del periodo, non è certo un elemento capace di rendere popolare un film moderno, specie per un pubblico abituato a visionare causalità, razionalità ed intrighi ben congegnati in (quasi) ogni pellicola.
L’horror pero’, in fondo, è uno dei pochi generi a possedere gli strumenti visuali e semantici per potersi prendere “licenze” di ogni tipo, e quindi lo fa, ancora una volta, senza troppi scrupoli: per questa ragione non vi meravigliate troppo se ad esempio, ad un certo punto, uno dei vampiri diventerà “dal nulla” una sorta di cane-zombi gigantesco (peraltro è facile che sia un piccolo tributo a “La cosa” di Carpenter). C’è da dire, comunque, che i film a cui si ispira “Dal tramonto all’alba” si prendevano spesso il “permesso” per mettere nell’intreccio roba più splatter possibile, anche a costo di sacrificare la credibilità della storia: e qui – in fondo – va benissimo così. Per dirla in modo più banalotto, c’è da immaginare che Rodriguez e Tarantino si siano divertiti un sacco a ripetere certe scene decine di volte, a citare i propri film preferiti del passato, a convincere la Hayek che la danza con un serpente non era un’idea così male e via dicendo. Soprattutto, contava riproporre il tutto nel modo più divertente possibile: l’essenza di cinema di “intrattenimento” si coglie, del resto, dalle svariate venature di ironia ed humour nero dei protagonisti. Il fan dell’orrore più preparato non potrà non godersi i mostri dagli orridi dentacci “a la Lamberto Bava”, creature per la loro natura ambigue: vampiri, a quanto risulta, anche se Sex Machine – Savini, l’effettista storico di Romero – li definisce “simpaticamente” zombi-vampiri.
Perfetta, in questo contesto, anche la costruzione dei vari personaggi, a cominciare dal prete che ha perso la fede fino alla sensualissima Salma Hayek – Santanico Pandemonium – ricordata per un siparietto fetish – con lo stesso Tarantino – da standing ovation. Insomma “Dal tramonto all’alba” è questo: presentazione di un mondo in cui tutto può avvenire, ed in cui lo spettatore è messo al centro dell’attenzione, rifiutando intenzionalmente di inserire qualsiasi altro riferimento di natura impegnativa o profonda. Singolare, comunque, come la natura da b-movie di certe sequenze – soprattutto nella parte horror della storia – trovi qui una “giustificazione” dovuta alla presenza del celebre regista: questo significa forse che, in altri casi (orrore anni 80 italiano, tanto per fare nomi) non dovremmo farci abbagliare dall’altisonanza dei nomi in ballo, e lo scrivo con tutto il rispetto possibile per Tarantino e Rodriguez. Peccato, in altri termini, che questa stessa formula – sfruttata da forse un centinaio di film del passato – sia stata osannata solo nel 1996 e demolita quasi sistematicamente durante gli anni ottanta. I tempi cambiano, il pubblico anche, ma la cosa essenziale che trapela da questa pellicola è la sua energia, la stessa che – per fortuna – non si è ancora persa del tutto al giorno d’oggi.
Ingegnere per passione, consulente per necessità; ho creato Lipercubo.it. – Mastodon