Drive: il film di Refn offre divertimento ed imprecisabili suggestioni psicologiche

Meccanico e stuntman di giorno, autista esperto di fughe di notte, un uomo si troverà invischiato in una storia di crimini e ritorsioni senza volerlo.

In breve. Uno dei film più accessibili e “pop” di Refn, dato che non sembra esattamente un lavoro dai tratti “autoriali”. Ma l’omaggio all’action movie anni 80 è esplicito, tanto basta e vale la pena buttare un occhio.

Driver si basa sull’omonimo romanzo di James Sallis, e si muove sui territori del revival anni 80 di quelli nudi e crudi: a cominciare dallo scenario del personaggio connivente con la criminalità locale, a finire alla “doppia vita” che poi caratterizza l’esistenza / essenza del protagonista. Personaggio che non viene mai chiamato per nome, come avviene per quelli di Madre!, per intenderci, e come avviene in genere quando si vuole caratterizzare un personaggio come emblema o simbolo di qualcosa. Come leggere questo film, del resto, è un lavoro da non affidare tassativamente al critico trombone di turno, perchè la semplicità della storia impone un patto registico di quelli facili: godersi la storia e, al limite, interrogarsi sul senso del finale.

Una prima chiave di lettura viene offerta dalle parole del regista, che in un’intervista parla delle favole dei fratelli Grimm come riferimento narrativo primario: un che di epico, di mitologico, di legato ad una narrazione fantastica che prevale su qualsiasi altro elemento. Ma nella psicoanalisi drive è – al netto di qualche confusione derivante dalle varie traduzioni dei testi originali – la trieb, la pulsione che spinge l’individuo (nell’interpretazione freudiana classica) ad agire in un senso che può essere di vita o di morte, e – per quanto non si tratti certamente di un film “pensante” – la sensazione che si possa interpretare Drive come incentrato sulle pulsioni ambivalenti del protagonista appare abbastanza fondata.

Ryan Gosling interpreta infatti un personaggio protagonista criptico, silenzioso, che agisce in nome di un Super Io non esplicitato, che parla solo lo stretto necessario e che possiede tratti quasi sinistri per il pubblico; per come viene presentato, è una specie di supereroe urbano (ad un certo punto, per esempio, indossa una maschera della SPFX Masks, il che lo rende simile per certi versi, peraltro, al personaggio di Michael Myers). Il suo “superpotere” è rappresentato dalle innate capacità di stuntman: abilità che lo rendono praticamente imbattibile quanto simile, per certi versi, al protagonista de Lo chiamavano Jeeg Robot, senza disdegnare una strizzata d’occhio a film di culto come Taxi Driver (ovviamente) ma anche Cobra, a cui il regista ha dichiarato apertamente di essere stato ispirato. Un personaggio che, a conti fatti (fonte IMDB) pronuncia meno di 1000 parole in tutto il film: e tutto il resto sono sguardi di ghiaccio, silenzi e forza sovrumana – di quella che potresti avere solo come Chuck Norris de noantri. E magari pure, ci viene da scrivere, un po’ di drive, di pulsione parallattica e ambivalente, da interpretare diversamente a seconda del taglio con cui decidiamo di guardarla, momento dopo momento.

Driver evoca un singolare mix di sensazioni: da un lato l’amore del regista per i toni spensierati alla John Hughes (artefice di varie commedie ed autore, peraltro, della sceneggiatura di Mamma ho perso l’aereo), dall’altro per le virate splatter ed estreme tipiche dei noir più cupi, anni 70 ed 80. Ed in effetti la forza del film risiede proprio in questo strano equilibrio: da un lato la dolcezza della narrazione di un amore dai tratti impossibili, dall’altro un’esplosione di violenza che si nasconde in modo infido, imprevedibile, quasi come diretta conseguenza della negazione del primo. Se Drive è pop, lo è molto meno che non ne sia ancora stato tratto un sequel: proprio per via di quel finale dai tratti dichiaratamente imperfetti, reali (per citare le parole del regista Non ci sarà mai un seguito di Drive, finisce in modo troppo imperfetto, ed è il motivo per cui funziona – “No, there will never be a second Drive movie. It ends too imperfectly. And that’s why it works.“). Se cercavate quel famoso aspetto favolistico, probabilmente, più simile alla tragica fine de La sirenetta sovietica che alla versione disneyiana di Biancaneve, è proprio quello che intendiamo in questa sede.

Imperfezione è la parola chiave giusta per descrivere Drive: film che non è neanche chiaro se si tratti di un lavoro “leggero” da TV (forse, ma anche no – per via dello splatter), se sia un film di genere (forse, dato che in certi passaggi sembra di vedere Rambo e di sentirne gli stessi, scarni dialoghi) o arthouse (meno che mai, perchè la storia è lineare che più non si può). Per certi versi Drive è esattamente ciò che sembra: un buon film con tanta azione, abbastsanza sulla falsariga di The guest, in cui si parte da una situazione di normalità che degenera passo dopo passo, quasi come sotto l’influsso di una nemesi esterna, insensata e maligna, come di una pulsione di morte prevalente su quella di vita.

E c’è un altro aspetto interessante in ballo: sono le motivazioni che muovono il protagonista a rimanere in buona parte oscure. Ecco perchè, insomma, ci è piaciuto pensare al termine drive in senso freudiano. Diversamente dalla media del genere in cui, per intenderci, l’eroe è mosso dal mero desiderio di vendetta, in questo caso il driver si trova suo malgrado coinvolto nella storia, e questo per via di una relazione che nasce male e finisce in modo imprecisabile. Pur essendo chiara (e malcelata) l’attrazione verso la vicina di casa, infatti, non si capisce perchè accetti di aiutare il marito in un’impresa rischiosissima, senza di fatto nemmeno guadagnarci nulla. Soprattutto, non è chiaro perchè non sembri volere nulla in cambio, e perchè non riesca a legarsi alla donna: tutto è ammantato da un mistero di quelli epocali, inframezzati da pochi dialoghi (lo script fu ridotto dal regista da 80 e passa a sole 60 paginette) ed in cui la cosa più importante, in fin dei conti, sembra proprio quella maledetta / benedetta Mustang.

Refn non sembrerebbe neanche un appassionato di motori, come si potrebbe pensare: sono i misteri della fede cinematografica.

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