Tokyo: uno spacciatore viene tratto in inganno da un amico e finisce ucciso in una retata. L’anima fuoriesce dal corpo e ripercorre la propria vita dall’inizio…
In breve. Un Noè meno intellegibile della media incentra l’intreccio sull’assunzione di droghe e sullo spirito psichedelico-sensoriale legato all’uso di droghe allucinogene. Noè nobilita il POV e lo rende art house, proponendo un film astratto e dai dialoghi frammentati. Se il risultato è suggestivo, rischia di perdersi in lungaggini e diluirsi nell’effetto finale.
Accolto con una standing ovation di 15 minuti a Cannes, Enter the void è uno dei film più complessi del regista argentino, e sicuramente non è tra i suoi lavori più accessibili. Abile a sollevare interrogativi che i più, probabilmente, non riusciranno a cogliere, si basa sulla sequenza del viaggio psichedelico visto in 2001 Odissea nello spazio, quello in cui l’astronauta si perde nello spazio, vive delle allucinazioni per poi, probabilmente, rinascere.
Noè non ama fornire risposte esplicite a riguardo, come da tradizione, ma suggerisce l’esistenza di esperienza extra-corporee ed una nuova vita dopo la morte. Al netto della bellezza delle immagini, indiscutibile, resta qualche interrogativo sul formato e sulla durata, probabilmente eccessiva anche rispetto a quello che c’è in ballo. A differenza di film come Climax, ad esempio, Enter the void si muove su un piano difficilmente percettibile, che narrativamente funziona fino ad un certo punto (fosse stato un video-clip, ad esempio, il problema non si sarebbe posto): tenta di dare un senso ad una storia letteralmente “fuori” da un personaggio, per due motivi diversi (in vita perchè sotto l’effetto di droghe, dopo la morte come anima fluttuante).
Rimane un punto di contatto tra le due narrazioni legato all’uso di stupefacenti, per quanto in Climax la storia fosse molto più cinica e, a mio avviso, concreta ed efficace di quanto non rilevato qui. Oscar vive quindi un gigantesco flashback di tutta la propria vita, assistendo inerme agli episodi che gli hanno cambiato l’esistenza: i traumi infantili, il tradimento dell’amico ed il destino riservato allo stesso ed alla sorella con cui convive. Animato probabilmente dallo stesso mood di Requiem for a dream, i personaggi sembrano destinati ad una vita di dolore e sofferenza, con il solo spiraglio (a differenza del film di Aronofsky in cui, semplicemente, muoiono tutti) della possibilità di rinascita , peraltro riservata ad un pusher come tanti, non ad un eroe o ad un personaggio nobile o memorabile per altre ragioni. L’ottica è interessante, ma non sembra reggere pienamente alla prova delle immagini, soprattutto per la sua altissima non linearità e per i dialoghi rari, sussurrati, appena comprensibili, appena suggeriti. Dialoghi che furono improvvisati dal cast, e ai quali Noè non sembrò probabilmente dare troppa rilevanza.
Enter the void è ovviamente uno splendido film, ed è affascinante perdersi tra le sue molteplici suggestioni per chi avesse voglia di farlo: ma resta la considerazione di quanto ciò non riesca, volutamente, ad essere alla portata del grande pubblico, risultando art house astratta allo stesso livello, probabilmente, di film come Begotten. Senza pero’ proporre una vera e propria morale materialista, come quella ambientalista voluta da Merhige, e questa è una differenza fondamentale. Lo psychedelic melodrama (come definito da Noè stesso) qui presentato si richiama, oltre che agli effetti di droghe sperimentate direttamente dal regista (a quanto pare), ai concetti di redenzione e reincarnazione. Nel girare, pero’, il regista indugia troppo sui ricordi e sulle riprese da capogiro, offrendo forse eccessivi momenti di discontinuità e astrazione, mediante una raffinata quanto insistita rappresentazione dell’anima di Oscar (che poi è anche l’occhio del pubblico), mentre assistente impotente alla sua infanzia, ad atti sessuali, di degrado e di morte che chiudono, solo alla lunga, un gigantesco cerchio.
La tecnica di ripresa si ispira a due capisaldi del genere: da un lato la sequenza iniziale di Strange Days, dall’altro il video Smack my bitch up dei The Prodigy diretto da Jonas Åkerlund. Senza dubbio pregevole la tecnica sfruttata per mostrare il POV (Point Of View) di Oscar, come se fosse realmente nei suoi occhi, ma alla lunga la tecnica – sfruttata male dalla maggioranza dei mockumentary, in effetti, e trasformata qui da camera amatoriale traballante ed irritante ad effetto artistico a tutti gli effetti – finisce per diventare logorante per lo spettatore, rischiando di sviarlo (per non dire peggio). Noè concepisce la psichedelia per rispondere alla domanda che logora l’uomo da più di due millenni, ovvero se ci sia vita dopo la morte, e trova delle risposte che diventano entusiasmanti solo per chi riesca a vedere tutto il film fino alla fine.
E per una pellicola di oltre due ore, nella versione uncut, probabilmente è troppo complicato metterla su questo piano.
Ingegnere per passione, consulente per necessità; ho creato Lipercubo.it. – Mastodon