Il massacro della Guyana è la exploitation messicana che racconta un fatto realmente accaduto

Il reverendo James Johnson, leader di una chiesa indipendente da lui stesso fondata, convince i propri fedeli a raggiungere la salvezza nello stato di Guyana, trasferendosi dagli USA all’America del Sud. La “terra promessa” da raggiungere è una nuova società isolata dal resto del mondo, idealisticamente impeccabile, libera dal male e dall’impurità: nella pratica, le cose andranno diversamente. Ispirato alla vera storia di Jonestown e del reverendo Jim Jones.

Il massacro della Guyana – un fatto passato alla storia come uno dei più terrificanti mai avvenuti in USA, che vide circa 900 adepti di un culto morire per ordine del suo leader, morto anch’esso – venne lanciato da una tagline quantomeno altisonante: il film che osa dire la verità dietro il più shockante crimine del secolo. Non fosse altro che la verità uscì fuori quasi subito, andrebbe quasi bene: ma come prevedibile le ipotesi di complotto fiorirono negli anni successivi, ad esempio in URSS (secondo gli autori F. Alinin, B.G. Antonov e A.N. Itskov il piano sarebbe stata pianificato in funzione anti-comunista dalla CIA); ma se ne parlò anche come potenziale inside job negli USA stessi, come applicazione pratica del progetto MK Ultra (possibilità che pero’ non spiegherebbe le morti per arma da fuoco, probabilmente persone in tentata fuga). Certo è che le semplificazioni tassative non aiutano, perchè c’è tanto da scrivere sulla cronaca, non troppo su questo film (a essere sinceri) e tanto sulla psicologia di massa che si studiò dopo quei fatti.

La setta in questione portava avanti un ideale di ambiguo egalitarismo che si rivelò conformistico e soffocante, analizzato approfonditamente da Richard Wiseman nel libro Paranormale (ci torneremo a breve). Nel film, dal ritmo oggettivamente lento e narrativamente poco accattivante, trova espressione in un reverendo che si esprime e possiede movenze da dittatore (quando nella realtà il reverendo Jim Jones doveva avere un tono pacato, quanto inquietante e condizionante). Sì, perchè questa storia è ben documentata grazie ad un anonimo presente che registrò l’ultimo discorso del reverendo, in cui invita i fedeli al suicidio per non finire vittima degli Stati Uniti.

Sulla carta, il reverendo si ispirava ad ideali egualitari e socialisti, che poi vennero declinati in punizioni per chi non era d’accordo, per un forte culto della personalità e per varie tecniche di manipolazione. Un mix di convinzioni differenti e inconciliabili tra loro, alla fine, che lascia spiazzati e incerti sul giudizio ancora adesso, e che ispira come unica invariante una pietà indiscutibile per le oltre 900 vittime, raccontate via Il massacro della Guyana mediante il linguaggio dell’horror imprevedibile e expolitativo in voga in quegli anni. Il commento del critico Roger Ebert fu impietoso, a riguardo: secondo lui questo film non porta alcun contributo alla Guyana, sfrutta la sofferenza umana a scopo di profitto. È uno spettacolo strano (it’s a geek show): la Universal e i suoi distributori dovrebbero vergognarsi. Il problema che ravvisa il (solitamente molto severo) critico americano è, a ben vedere, almeno in parte condivisibile: si trattò infatti di un film non autorizzato (nè ufficiale) su una delle vicende più tragiche mai vissute dall’umanità di recente.

Nel 1984, i Manowar evocano questa storia nel loro brano Guyana (Cult of the damned) dell’album Sign of the hammer.

Resta pur vero che Guyana: Crime of the Century ha cambiato i nomi ai protagonisti (per preservare gli innocenti, a suo stesso dire nei titoli di testa), ma ha fatto uscire l’opera (1979) neanche un anno dopo i fatti (1978). Forse non il massimo del tatto, effettivamente, per una strage che fu talmente numerosa da essere superata soltanto da quella dell’11 settembre 2001, per quanto a volte l’urgenza di raccontare una storia drammatica possa prevalere su qualsiasi sentimento di riserbo. Alla prova dei fatti, questa controversa produzione Messico/USA è considerata pura exploitation dai più, ma questo soprattutto perchè da’ la vaga idea di essere stata girata sbrigativamente, da ogni punto di vista.

Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo , peraltro, è uno dei mantra del leader protagonista (frase attribuita a Winston Churchill come al filosofo George Santayana), ma l’aspetto settarista e manipolatore sembra quasi, paradossalmente, messo in ombra dalle scene exploitative, da vari nudi impietosi che dovrebbero rappresentare le punizioni corporali per chi osava criticare il Tempio o lamentarsi delle condizioni. Alla setta è contrapposta ovviamente l’autorità USA, incluso il funzionario (anch’egli dal nome modificato) che fu realmente inviato sul posto e poi venne ucciso; la contrapposizione lascia poco al pubblico, e resta tendenzialmente poco impressa.

La regia di Renè Cardona Jr. (messicano classe 1939, scomparso nel 2003 e artefice di film di svariati generi, tra cui uno spinoff de Lo squalo dal titolo ¡Tintorera!, ovviamente amato da Tarantino) è relativamente convincente, coinvolgendo attori come Stuart Whitman, Gene Barry e Joseph Cotten. In particolare il personaggio del protagonista è molto somigliante a quello realmente esistito a cui fa riferimento. Resta, quello sì, il dilemma etico sul trattare una tragedia del genere quando era avvenuta da poco, chiaramente, non trattandosi di fiction anche eventuali letture in chiave metaforico-sociale, a nostro avviso, vanno abbastanza a farsi friggere. Nulla che non sia mai stato fatto, in effetti, in altri ambiti: in tempi recenti Songbird di Adam Mason passerà alla storia, se non altro, per aver creato una fiction sul Covid in piena pandemia. La scelta dei tempi è fondamentale, a volte, e viene in mente la celebre dichiarazione di Charlie Chaplin, che affermò che mai avrebbe ironizzato su Hitler ne Il grande dittatore se avesse saputo ciò che stava succedendo nei campi di concentramento.

Per il resto, non si dica (perchè è un’assunzione di comodo) che l’horror manca di sensibilità perchè questo, in generale, non è quasi mai vero – e decine di altri registi del settore lo hanno dimostrato. Resta la considerazione di fondo in questo caso sull’opportunità, sul tatto, sulla gentilezza, che Renè Cardona declina in modo forse sbrigativo cambiando nomi e luoghi, e lasciando intatta la narrazione, forse banalizzando un po’ la questione, e realizzando un film con pochi mezzi e non troppa sostanza. Almeno ci fosse stata un po’ più sostanza, avremmo cambiato idea sul giudizio: la storia risulta un po’ piatta, alla fine, e molto poco accattivante, soprattutto nella parte centrale dell’opera (e al netto di un finale ovviamente straziante quanto impressionante). Ed è uscito un po’ troppo a ridosso dei fatti, verrebbe quasi da pensare per sfruttare l’hype del momento.

Certo, i fatti restano e non si possono cambiare, e comunque la si possa pensare in merito non sarà certo un film a mitigare o peggiorare la situazione. Senza contare che l’anno dopo, nel 1980, uscì un ennesimo lavoro di fiction a raccontare la medesima storia, questa volta con la regia di William A. Graham, e probabilmente nel 2022 ne uscirà un altro, a quanto pare con Leonardo Di Caprio nei panni del reverendo Jim Jones. Se non altro, andrebbe riconosciuto a Renè Cardona Jr. il merito di essere stato un precursore.

Tra le scene più impressionanti, assistiamo a varie punizioni corporali e psicologiche per chi trasgredisce le regole della comunità: una coppia scoperta a fare sesso umiliata in pubblico (ma il sesso, per la verità, non era proibito nella comunità: anzi, le relazioni extraconiugali erano incentivate, forse per favorire un clima più manipolabile). Alcuni ragazzini sorpresi a rubare cibo che vengono torturati, malmenati, ricoperti di serpenti vivi e sottoposti a scariche elettriche ai genitali. Per il resto, poco altro da citare: il film si regge sul doppio piano narrativo tra la comunità e le sue regole interne, ferree quanto spesso violate, e l’immagine di un gruppo di potenziali eroi USA che, alla prova dei fatti, non arriverà in tempo per salvare nessuno.

La ricostruzione dei fatti. Il profilo psicologico della comunità

Secondo la ricostruzione di Richard Wiseman nel suo libro Paranormale, Jim Jones – peraltro simile al predicatore immaginario Cuervo Jones creato da John Carpenter in Fuga da Los Angeles – crea il proprio Tempio del Popolo in completa autonomia, a soli 25 anni di età, nel 1955, finanziandola con mezzi propri. Profondamente carismatico e sostenitore dell’uguaglianza e dell’integrazione razziale, iniziò a millantare di una minaccia di attacco nucleare, sostenendo poveri e bisognosi sotto la propria ala protettiva. Sotto il pressing della stampa che voleva saperne di più su di lui, sulle modalità del Tempio e sulla sua schiera di fedeli, Jones si trasferisce da San Francisco in Guyana. Fonda così una comune, indipendente, autonoma e localizzata a Jonestown, luogo che prende il nome in modo autocelebrativo da quello del reverendo stesso. Da quello che si seppe all’epoca, del resto, fu ben lontana dall’ideale utopico di comune dei primi hippie: si lavorava duramente, sia adulti che minorenni, imperversavano malattie  e si viveva un sostanziale malessere, tenuto a bada con la manipolazione mentale e (se necessario) armi e punizioni corporali.

Il carisma di Jones, comunque, non resse alla prova del tempo: dopo alcune accuse da parte di membri del Tempio che lamentavano maltrattamenti e manipolazione mentale, e soprattutto dopo la morte del diplomatico USA Leo Ryan (andato sul posto per verificare la situazione), che venne ucciso da alcuni membri del Tempio, Jones si trova alle strette. Così ordina ai propri fedeli di bere del succo di frutta al cianuro, e lo assume egli stesso: molti obbediscono, altri vengono uccisi sul posto. Una storia macabra che racconta, secondo Wiseman, quattro punti essenziali alla base della psicologia generale che il reverendo aveva instaurato in quella micro-società isolata da tutto. Questi punti sono:

  1. Il “piede oltre la soglia“: un esperimento sociale dell’Università di Stanford dimostrò, fin dagli anni 70, che una richiesta oggettivamente eccessiva viene accettata con maggiore probabilità se preceduta da richieste più modeste precedenti. Il meccanismo di difesa psicologica classico, in questi casi, sarebbe stato quello del mettere dei limiti e protestare per le richieste sempre più impegnative. A quanto pare, Jones utilizzò questa strategia per chiedere il pagamento di piccole somme da devolvere per il Tempio, per poi aumentare la richiesta col tempo, sfruttando un pressing psicologico crescente e senza dare tempo e modo ai fedeli di opporsi, anzi emarginando chi lo faceva.
  2. La psicologia del conformismo: come dimostrato da numerosi esperimenti riportati ad esempio in Irrazionalità di Stuart Sutherland, una maggioranza che esprime in blocco un parere (anche se errato) può condizionare i singoli. Per fortuna, sembra che basti anche un singolo dissenso per abbattere drasticamente la percentuale di adesione al conformismo, ma non fu questo il caso di Jones: il quale separò le famiglie naturali, umiliò pubblicamente il dissenso dei singoli, incoraggiò le relazioni extraconiugali per indebolire i rapporti costruiti sulla fiducia. Durante il cosiddetto death tape (oggi di pubblico dominio, un tempo di proprietà della CIA) che riporta gli ultimi istanti prima del suicidio collettivo, gli adepti non sembrano mostrare alcun dubbio sulla decisione intrapresa dal loro leader, e anzi considerano compiuta la propria missione.
  3. Il controllo, l’illusionismo e la devozione – Jones praticava, tra l’altro, una sorta di monitoraggio interno dei fedeli (spiandone la corrispondenza, ad esempio) oltre a eseguire veri e propri prodigi illusionistici (replicati da vari santoni e guru negli anni, peraltro), tra cui far finta di estrarre “malattie” dal corpo dei malati (carne di pollo rancida) o guarire gli storpi (suoi complici, che fingevano di zoppicare per una causa più grande). Ciò creò un clima di devozione in cui chiunque non credeva veniva messo al bando, e nessuna critica era tollerata.
  4. L’autogiustificazione – Un ultimo esperimento psicologico condotto da un ricercatore dell’università di Stanford racconta di un gruppo di volontari diviso casualmente in due gruppi: uno invitato a leggere ad alta voce frasi sessualmente esplicite o volgari, l’altro descrizioni sessuali più blande. La promessa era quella, una volta superata la prova, di partecipare ad una discussione di gruppo sulla psicologia sessuale, per quanto il quid dell’esperimento fosse in realtà la convinzione. In media, la tendenza più favorevole a continuare fu rilevata in chi aveva letto le oscenità, non negli altri – come l’intuito suggerirebbe. Il motivo è che la scelta di continuare, arrivati a quel punto, le avrebbe aiutate a giustificare quello che avevano appena fatto (trasgredire apertamente un tabù). È risaputo dei vari rituali di iniziazione all’interno dei gruppi sociali: le prove da superare per le matricole di alcuni college, ad esempio, o in ambito militare oppure, implicitamente, da parte di alcuni professionisti spinti a lavorare giorno e notte prima di poter esercitare la professione a pieno titolo. Questo può portare ad un atteggiamento di estrema devozione, che viene detta tecnicamente autogiustificazione, e che potrebbe essersi innescato in quel contesto: dopo aver superato prove umilianti, sarebbe potuto sembrare coerente completare il quadro spingendo ancora oltre.

Nella strage di Jonestown morirono in tutto, a quanto risulta, 918 persone, tra cui il reverendo, un politico e quattro accompagnatori dello stesso. Un terzo dei defunti era minorenne, e si potrebbe rilevare un altro aspetto curioso: all’epoca si parlò di suicidio di massa, senza mezzi termini. Oggi, forse condizionati dall’era della post verità, si tende a parlare di omicidio-suicidio di massa o, al limite, massacro. Del resto alle guardie armate con fucili e balestre era stato ordinato di sparare a tutti coloro che fuggivano dal padiglione di Jonestown, mentre Jones faceva pressioni spingerli al suicidio – per cui tecnicamente la distinzione, per quanto sembri di fino, ha un senso. Una storia spaventosa che potrebbe avere qualcosa da insegnare, se non altro, ancora oggi.

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