Al netto di qualsiasi considerazione si possa esprimere, il cortometraggio Man on the chair (diretto da Jeong Dahee, regista e animatrice vincitrice di numerosi premi) trasmette una verità insondabile: il fatto che le menti di chi tende a rimuginare possono trasformare l’amore per la conoscenza in dolore esistenziale. Una dura, inaccettabile realtà con cui siamo costretti a fare i conti, per primi noi – chi rimugina sulle cose, sulla vita, sul destino, e spesso fatica a riconoscerlo verso se stesso o gli altri.
L’opera in questione è un cortometraggio di animazione del 2014, produzione francese-coreana con le musiche affidate a Ma Sang Woo. Con l’aiuto del suo sound minimalista, Dahee costruisce una storia ricca di dettagli che strizza l’occhio al surreale, costruendo mondi concentrici costellate di spirali inafferabili, dove le domande poste dal protagonista sono di natura ontologica, dall’apparenza irrisolvibile e che sembrano averne accompagnato nascita, crescita e declino.
Non sono pochi i cortometraggi che hanno snocciolato È la conoscenza – che nella cultura hacker significherebbe potere nello stato più puro – l’insidia più subdola, la conoscenza che nei racconti lovecraftiani porta alla follia; la stessa conoscenza che il populismo, in genere, tende a minimizzare come importanza, come a dire: se pensi troppo non vali niente.
Eppure pensare ci serve, e tutto sta nel decidere quanto ci serva. Sono domande insidiose, che ci facciamo da millenni senza trovare risposta: domande come siamo reali?, oppure da dove veniamo. Domande che continuiamo a farci nonostante nessuna delle molteplici risposte che sono state formalizzate abbiano potuto soddisfarci sul serio. Domande possono diventare un vero incubo, o risultare fin troppo spaventose. La vera domanda, forse, è perchè continuiamo a chiederci le stesse cose, dato che sappiamo trattarsi di quesiti insolubili e complessi.
In fondo è proprio questo il muro che Dahee prova ad abbattere, con un pregevole e sintetico cortometraggio che racconta la storia di un uomo che non riesce più ad alzarsi dalla sedia su cui è seduto. I toni sono surreali, metafisici, prendono subito il sopravvento nella narrazione, per poi evolvere nel più classico degli aforismi nietzschiani:
Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare un mostro. E quando guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te.
Se l’esito della vicenza appare pertanto inequivocabile quanto tragico, Dahee sembra volerne paradossalmente smorzare i toni, dopo l’apice del climax narrativo, buttandosi sul meta-cinema e suggerendo che, forse, il distacco predicato dall’atarassia greca rimane l’antidoto più potente per curare i mali dell’anima.
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