Thirst: ecco i vampiri secondo Rod Hardy

Kate è una discendente diretta della contessa Elizabeth Bathory, la donna serial killer che si nutriva di sangue di giovani donne: una delle figure più oscure mai tramandate dalla storia. La protagonista entra in contatto con una sorta di setta (la fratellanza Hyma), a cui un gruppo di medici vorrebbero che la donna si unisse.

Il film – del 1979, inedito in Italia – si apre su una sequenza da horror classico: una donna, della quale vediamo un iniziale primo piano delle palpebre, si risveglia all’interno di una bara, terrorizzata quanto evidentemente vampirizzata. Non capiamo se si tratti di un’allucinazione, di un sogno o della realtà: il focus si sposta sulla vita ordinaria di Kate, che viene immediatamente rapita da un gruppo di ignoti, in uno sprazzo di genere home invasion piuttosto ante litteram. Medici e psichiatri sono convinti che Kate sia una discendente di Elizabeth Bathory. Si tratta, abbastanza ovviamente, di una setta che è convinta di ottenere la vita eterna bevendo sangue umano, proprio come si dice avesse fatto la contessa Bathory. Al tempo stesso, il mito del vampiro è riletto in chiave molto originale: il vampirismo è visto non tanto come mitologia romatico-gotica bensì come alienazione, sfruttamento e condizionamento dell’uomo sull’uomo, quasi una sorta di malattia clinico-psichiatrica controllabile dai cervelloni di turno.

Lo script di John Pinkney, nella sua sostanziale semplicità narrativa, è tutto qui, ed è tutt’altro che banale: si sposta senza troppi preamboli sulla “nuova vita” della protagonista, che sembra non accettare la propria discendenza, mentre viene trattata dalla comunità come una sorta di essere divino. Al tempo stesso, è interessante osservare come Sete di sangue in qualche modo inverta, in una sorta di anticlimax, un twist che, in altri scenari, sarebbe stato riservato al finale: e ne fa un ottimo horror, soprattutto per come comincia e per come finisce (un ulteriore twist che probabilmente è quasi prevedibile).

La parte intermedia della storia sembra un po’ meno pregevole, soprattutto nel momento in cui avviene una transazione alla dimensione sognata (che è parte del viaggio conoscitivo di Kate), che culmina splendida nella sequenza di una doccia di sangue. La pellicola è l’emblema dell’ossessione per il sangue, e rimane su toni estremamente claustrofobici, barcamenandosi in una Kate in cui albergano mille anime ed un clima che oscilla tra il realistico ed il surreale, senza dare troppi riferimenti al pubblico (e forse tirandola leggermente per le lunghe).

Un’atmosfera oppressiva e manipolatrice in cui, per certi versi, la setta evoca sempre più una sorta di famiglia perversa dall’aria puritana, dalla quale Kate vorrebbe (forse) faticosamente emanciparsi. Insomma, un horror classico e piuttosto compatto, per quanto modernizzato nello scenario oltre che incentrato quasi esclusivamente sul viaggio conoscitivo di Kate, incuriosita quanto terrorizzata dall’atmosfera stessa e dalla riscoperta di se stessa.

Sete di sangue (da non confondersi con Rabid – Sete di sangue di Cronenberg, e con almeno un altro paio di titoli identici quando diversi nella sostanza) è anche un insolito esempio di ozploitation, ovvero film di exploitation a base horror e di origine australiana, impreziosito da un’accurata fotografia e da una regia piuttosto solida (nonostante Rod Hardy fosse un regista esordiente all’epoca, avendo appena venti anni). Proprio con il titolo di Cronenberg appena citato, peraltro, Sete di sangue (più semplicemente Thirst, nell’originale) condivide l’atmosfera da “orrore clinico”, quello fatto di siringhe a tradimento e fiumi di sangue, tanto che i componenti della setta (dai medici agli ospiti) sembrano tutti, in qualche modo, dai sensi alterati o alienati. L’atmosfera della comunità è sostanzialmente un grande fratello, una sorta di residence dall’aria pacifica in cui a turno sono tutti sottoposti a prelievi forzosi di sangue, che toglie vitalità alle persone e ne condiziona le rispettive volontà – quasi a voler costruire una società perfetta di vampiri immortali, che usino i propri sottomessi come bestiame e riserva di sangue.

C’è anche un cast di tutto rispetto a supporto: troviamo David Hemmings, che arrivò a sostenere che si trattasse del miglior film che avesse mai girato negli ultimi cinque anni da allora, al netto del fatto che lo considerasse un film commerciale (e, si spera, senza considerare nel computo Profondo rosso, che uscì appena quattro anni prima). Troviamo anche Henry Silva, altro partecipe entusiasta della pellicola e qui relegato – invece del consueto poliziotto brutale del poliziottesco italiano – relegato all’insolito ruolo di colto mad doctor.

La regia convince fin dall’inizio, soprattutto per la sua nitidezza fotografica e per il saper conferire il giusto ritmo nelle scene di tensione, oscillando tra orrore realistico e qualche traccia di surrealismo da sogno. Questo fa impressione, del resto, anche perchè la maggiorparte della carriera di Hardy è incentrata soprattutto su prodotti televisivi. Fa anche sensazione, oggi, che Silva ed Hammings abbiano avuto un ruolo quasi marginale nella storia, che tributa parecchio i sottogeneri sovrannaturale, gotico e vampirismo in ordine sparso, e senza mai dare la sensazione di “macedonia” tipica di prodotti del genere. C’è una scena altamente spettacolare con uno stuntman che precipita da un un elicottero, per poi rimanere fulminato sui cavi dell’alta tensione: il tutto nonostante il Dipartimento per l’aviazione civile, a quanto pare, avesse proibito la cosa.

Le suggestive musiche del film sono di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen, ed autore delle colonne sonore di Mad Max – Interceptor, Laguna blu e molti altri. Stando alle informazioni reperite, questo film è tuttora inedito in Italia, essendo passato soltanto al Fantafestival del 1981 dove, quasi certamente, non venne per nulla considerato. In DVD sembra essere (al momento in cui scrivo) reperibile solo in inglese e tedesco, senza alcun tipo di sottotitolo. Non proprio una passeggiata da cinefili in erba, ma se si conosce un minimo la lingua vale la pena riscoprirlo. (fonte)

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