Hacker o supereroi: quando Superman III raccontava le nostre paure tecnologiche
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Quasi ogni articolo che leggiamo sull’argomento dell’arte generativa (algoritmi che scrivono testi, creano video, elaborano immagini originali e via dicendo) contiene un sospetto di fondo: che si sia globalmente esagerando. Sì, che si stia esagendo con tutta questa tecnologia. L’intelligenza artificiale di oggi, del resto, ha superato ampiamente quelli che sembravano i limiti sulla carta dettati un tempo: risponde a comandi vocali, non necessita quasi più di linguaggi di programmazione per funzionare. Non è più una tecnologia confinata agli uffici e usufruita da pochi nerd addetti ai lavori, bensì è stata trasformata in un mondo di speculazione popolato da imprenditori senza scrupoli (spesso, paradossalmente, poco avvezzi alla tecnologia in sè).

Cosa succederà se un’intelligenza artificiale sarà in grado di scrivere integralmente dei testi di qualsiasi genere? Quando leggeremo il primo libro scritto da un’intelligenza artificiale? Cosa ne sarà del diritto d’autore nel momento in cui, per fare un altro esempio, l’arte generativa riprodurrà a campione frammenti di altre opere video e immagini senza chiedere il permesso? È molto difficile non farsi prendere dalla paura anche vaga, nel leggere queste storie, che un’intelligenza artificiale possa totalmente sostituire l’uomo, proprio come nelle profezie di Nick Land, delineando scenari apocalittici in cui, come in Terminator 2, il mondo finirà con una guerra tra automi da combattimento.

Nel 1983 Richard Lester dirige un film iconico degli anni Ottanta, antesignano della moda dei cinecomics ed interpretato, oltre che dal solito Christopher Reeve nel ruolo del protagonista, dal comico e stand up comedian Richard Pryor. Il regista era reduce dall’esperienza del precedente episodio della saga, da quando la produzione aveva licenziato Richard Donner in corso d’opera, lasciando circa un quinto di Superman II sotto la sua esclusiva direzione. La saga dei tre Richard (Lester, l’attuale regista, Pryor l’attore, Donner considerato il “vero” regista) si esplica giusto in questo terzo episodio, il quale racconta della lotta di Superman contro un cattivo duplice: da un lato, una psicosi indotta nella sua stessa personalità da un effetto collaterale della kryptonite, dall’altro un supercomputer pronto a dominare il mondo.

Un episodio, questo Superman III, che nasce un po’ sotto una cattiva stella – non ai livelli di “film dannato” come Io, Caligola di Tinto Brass, s’intende – ma sicuramente tra i più controversi e simbolici dei film d’annata: per intenderci, Reeve arrivò a minacciare di non partecipare al film, per protesta contro il licenziamento del vecchio regista. Al tempo stesso, la trama (concepita da Jerry Siegel, Joel Shuster, David e Leslie Newman) appare imbevuta di tecnofobìa, al punto di far diventare un super-computer il vero super-cattivo della storia. Un computer in grado non solo di uccidere e soggiogare esseri umani, per intenderci, ma anche di farli trasformare in robot. Non siamo nella tradizione cyberpunk in cui la tecnologia diventa dipendenza, ovviamente, ma siamo in qualche modo all’estremo opposto: l’umanità lotta contro il computer, letteralmente, per non farsi soggiogare – e perchè in fondo quel mondo non riesce proprio a capirlo.

Le nuove tecnologie sono buone o cattive?

Se è vero che la cultura pop ha sempre fornito assist più o meno involontari alla cultura del sospetto e a varie forme di complottismo (basti pensare a Matrix), da un punto di vista formale quelle idee sembrano figlie di un cherry picking accurato, della scelta di certi dettagli senza considerarne altri, un po’ come gli autori di certi horror, quando assumono come elementi spaventosi i forconi e i coltelli da cucina per l’uso improprio che se ne può fare, considerando soltanto quello e riducendo l’idea a quello, per esigenze ovviamente narrative. Il che, alla lunga, spinge anche su altri frangenti autori e sceneggiatori tecnofobici a isolare le idee spaventose della tecnologia a svantaggio di tutto il resto, senza considerare, ad esempio, che un’intelligenza artificiale moderna rientra più nel supporto alle decisioni che nelle decisioni vere e proprie – ovvero, detta in maniera diretta, serve sempre un uomo per commettere degli atti, buoni o cattivi che siano. La mia idea attuale in merito, detta in maniera semplificata, è che prendersela con questi progressi tecnologici (in ambito grafico, nello specifico) rischia di essere paradossale quanto accusare Photoshop di aver creato fotomontaggi offensivi, o ancora accusare i Daft Punk di aver rubato il lavoro ai tecnici della musica analogica.

Certo, qualcosa potrà sempre andare storto, l’attenzione dell’etica deve rimanere vivida (e ci stava tutta, ad esempio, la levata di scudi contro la diffusione di tecnologie davvero terrorizzanti quali deepnude) ma ci viene da pensare che, tutto sommato, se siamo sopravvissuti ad una falena incastrata nei meccanismi del calcolatore di Grace Hopper e, per citare un altro esempio, ad un Millenium Bug (profetizzato come la fine dei tempi, all’epoca, e poi notoriamente ridimensionato nelle conseguenze), riteniamo che si possa andare avanti anche stavolta. Anche alla luce di quanto suggerito dalle correnti accelerazioniste più progressiste, secondo cui l’unica via di uscita è attraverso le cose, non ponendosi contro di esse.

Il motivo principale di interesse verso Superman III è determinato, in questa sede, dai presupposti da cui parte: vediamo ad un certo punto la figura di un esperto di informatica, un hacker nel senso di War Games, che decide scaltramente di dirottare i mezzi centesimi di tutti gli stipendi della multinazionale informatica per cui lavora sul proprio conto, accumulando un capitale. Sarà l’inizio della fine: diventerà ricattabile dal suo capo, e sarà obbligato prima a manipolare un satellite per il controllo climatico, poi a costruirgli un supercomputer.

Non male come scatto di carriera, per un addetto al data entry che guadagnava (come raccontato nel film) meno di 150 dollari al mese…

Superman e gli hacker

La sequenza merita di essere riesumata, anche per via dell’ambiente alienante e sterilizzato in cui si presume che gli informatici lavorino, e la profezia involontaria dell’uso delle cuffie in ufficio (usata per lavoro nelle intenzioni ed oggi, al limite, usata dai dipendenti per ascoltare iTunes o Spotify). In questa sequenza si vedono chiaramente vari elementi topici del film, tra la sua caratterizzazione ed il presupposto critico da cui il film vorrebbe partire.

Superman a Pisa

Del resto Superman III è diventato il film di culto per vari motivi – tra cui, ad esempio, la celebre sequenza in cui l’eroe protagonista, vittima di uno sdoppiamento di personalità che lo ha fatto diventare cattivo (la tecnologia può farci diventare cattivi?), raddrizza per dispetto la torre di Pisa, il tutto mentre nell’audio originale vediamo un presunto pisano (dotato di maglietta con su scritto Pisa e, naturalmente, baffi neri come i veri italiani ne I Griffin) il quale si diletta a cantare una canzone napoletana (sic: si tratta di Comme facette mammata del 1906, di  Gambardella/Capaldo, resa popolare da Renzo Arbore).

La sequenza rende l’idea del tono a tratti slapstick del film, in cui un Superman cattivo si diverte a fare i dispetti all’umanità.

La trama di Superman III è, per altri versi, insolitamente complessa: il personaggio di August “Gus” Gorman, ad esempio, sfrutta una tecnica di raggiro nota tra i crimini informatici come “salami shaving“, ovvero tante piccole azioni sottogamba, sul modello divide et impera, che gli consentono di accumulare lentamente un capitale.

È anche l’interpretazione di Richard Pryor ad essere sopra le righe, a conti fatti: il suo personaggio, Gorman, vive una situazione complicata dal punto di vista economico, ma riesce a diventare un talento nell’informatica dopo essersi iscritto ad un corso specialistico per disoccupati. Deluso da quanto sia poco remunerativo lavorare in modo onesto (guadagna solo 143.80½ dollari per fare quello che oggi chiameremmo inserimento dati, ovvero data entry), si accorge di un bug nel sistema informatico che calcola l’ammontare degli stipendi e, da autentico hacker, dirotta tutti i resti (approssimati per difetti) sul proprio conto corrente, arrivando ad una cifra enorme nel successivo accredito (85,789.90 dollari, secondo la sceneggiatura).

Il capo di Gorman, CEO dell’azienda, Webster, gli ordinerà ad un certo punto di manipolare un satellite creando artificialmente un tornado in Colombia, a titolo di ripicca per non essere riuscito a chiudere gli affari come desiderato (anche qui vale la pena di osservare come la possibilità sia sopravvissuta al tempo nel corso degli anni, tant’è che molti si chiedono ostinatamente se e quanto si possa controllare il clima).

Il supercomputer che vuole controllare l’uomo (e farci diventare robot)

Dopo le consuete schermaglie con Superman in cui diventa chiaro, peraltro, che il supereroe sta combattendo – come da copione in questi casi, naturalmente – contro una multinazionale malvagia e senza scrupoli (con l’aggravante della tecnologia come arma impropria), si arriva allo zenith narrativo: Gorman si offre davvero di costruire un supercomputer (un computer che oggi chiameremmo senziente) in grado di controllare le navi che trasportano il petrolio, causando una potenziale crisi energetica (ricorda qualcosa?) e ricattando in un delirio di onnipotenza il mondo intero.

Sarà proprio il supercomputer il protagonista dello scontro finale, in una sequenza che – vista oggi – appare emblematica della nostra presunta resistenza alle nuove tecnologie. È come se quel Superman d’epoca, intento a dirottare i pericolosi raggi laser della macchina (dotata anche della singolare capacità di fagocitare esseri umani e farli diventare robot), fosse diventato l’emblema dei tecno-scettici. Tecno-scettici o luddisti che dir si voglia, tanto paradossalmente imbevuti di cultura pop da immedesimarsi in quell’atto eroico, come se la tecnologia fosse malvagia a prescindere e sia necessario resistervi ad ogni costo.

Che quel Superman sia diventato l’equivalente di tutti noi, del resto, è consolidato da un ulteriore aspetto: nel terzo episodio della saga, infatti, l’eroe subisce uno sdoppiamento di personalità, la kriptonite non lo uccide come avrebbe voluto il cattivo della storia – bensì lo fa diventare malvagio (ed è il Superman malvagio a raddrizzare la torre di Pisa, in effetti).

Gran parte del film è incentrata su questa lotta interiore, tra un Clark Kent  / Io buono e vittima di bullismo ed un Superman / Es malvagio e dispettoso come un demone, lotta da cui si può uscire, secondo il Super Io della sceneggiatura, non certo uccidendo la parte malvagia bensì riassorbendola (una finezza narrativa non da poco, in chiave psico-analitica). Il tema del fagocitamento, del resto, è uno degli assi portanti della storia, e denota un’ombra tecnofobica all’interno della trama: i computer sono considerati dai pià, per l’epoca, arnesi demoniaci. Ma allora siamo sicuri che dopo tutti questi anni la percezione delle nuove tecnologie sia cambiata in meglio? Siamo ancora sicuri di saper distinguere tra cultura pop e realtà? Di cosa siamo davvero sicuri, a ben vedere, nella realtà che ci circonda?

Siamo sicuri – ancora – che se Superman III fosse presentato in un qualche modo alternativo (ad esempio usando l’intelligenza artificiale che oggi risaputamente fa quasi tutto) a titolo di documentario o mockumentary “contro il sistema” non verrebbe creduto da nessuno? È un’idea sul filo del paradosso, ovviamente, ma dovrebbe rendere l’idea. Operazione Luna, ad esempio, nacque proprio pressappoco sotto questa stella, e non fatichiamo a credere che, al netto di qualche momento naive e qualche effetto speciale un po’ trash, almeno qualche gruppo di esseri umani potrebbe diventare paranoico dopo averlo rivisto (se non altro, il finale del film è abbastanza rassicurante, e qui si va di spoiler puro: Superman sconfigge la macchina usando una banale fiala di acido, innescando una esplosione finale archetipica del genere e, in teoria, il godimento assoluto del povero spettatore d’epoca).

Superman III per Atari

Superman III non ebbe, a quanto pare, il successo degli altri episodi, e fu segnato (vale la pena ricordare) da una ulteriore singolarità tecnologica in negativo: ci fu un accordo con la Atari per produrre il videogioco del film, ma non se ne seppe mai nulla, e mai uscì. È proprio su questa nostalgia del “non sarebbe mai successo” che vorrei chiudere questo articolo, in effetti: ad oggi, del gioco di Superman III abbiamo solo piccole immagini (fonte) che riporto anche qui. Il gioco non uscì mai (e mai uscirà su un Atari 5200, evidentemente), un po’ come il CCRU (il collettivo da cui nacque l’accelerazionismo, esattamente a metà degli anni novanta), parafrasando una sua celebre massima: Superman III per Atari 5200 non esiste, non è mai esistito e mai esisterà.

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