Watcher: ecco il thriller socio-politico di Chloe Okuno
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Il linguaggio opera interamente nell’ambiguità: Jacques Lacan proseguiva il suo noto aforisma concludendo (forse con una punta di ironia) che la maggioranza delle volte non sappiamo nulla su quello che diciamo. Cosa che, guardando questo Watcher – inteso letterarlmente come osservatore, vedetta, probabilmente anche guardone – ci sentiamo di poter riutilizzare questa idea come messaggio di fondo, sia pure in estrema sintesi.

Certo va premesso che la regia di Chloe Okuno (presente anche nell’horror a episodi V/H/S 94) ha voluto creare un thriller teso e incalzante, introspettivo nei toni (tanto da risultare difficile da seguire, in certi passaggi) e dal significato smaccatamente socio-politico, dai risvolti femministi (come risulta chiaro nel finale), candidato a simboleggiare il malessere e il disadattamento di una donna, Julia, preda di una sorta di una presunta sindrome di Cassandra (è tormentata da una sorta di offuscata premonizione, per la quale viene sminuita da chiunque). Julia si è trasferita a Bucarest assieme al marito, Francis: un uomo del posto che si muove a proprio agio, con un lavoro ben retribuito che gli occupa gran parte della giornata. Viene evidenziata implicitamente la differenza di trattamento, del resto, tra una donna (che appare letteralmente fuori posto nella società) ed un uomo del tutto realizzato. A parte l’amicizia con una simpatica vicina di casa, la vita di Julia è abbastanza anonima e all’ombra del marito.

La protagonista (Maika Monroe, It follows) ha un passato oscuro, quantomeno ignoto: sappiamo che ha provato a fare l’attrice, ma ha abbandonato l’idea; sappiamo che ha smesso di fumare (nel film ricomincerà a farlo) il che la fa sembrare vittima di una nevrosi per cui trascorre le proprie giornate nel vuoto, a far vagare la mente e  fissare la finestra di fronte. Curiosando tra le attività dei vicini, nota la silhouette indefinita del watcher (Burn Gorman) del titolo da una specifica finestra: si tratta di un uomo dall’aria silenziosa e inquietante, che sembra non perderla mai di vista da quando si è trasferita lì. Essere guardata la disturba, e questo cozza volontariamente con un elemento che nel film vediamo come premessa: la coppa che ha una rapporto sul divano, davanti ad una grossa finestra spalancata e con delle tende che verranno messe solo successivamente. Quasi a voler far identificare il pubblico in veste di spettatore-guardone, farlo riflettere e tirare fuori delle conclusioni da questa precisa, localizzatissima premessa.

Il thriller segue la tradizione dell’innesco multiplo nella trama, e i momenti di paura non sono pochi: convincono, sono realistici, sono ben dosati anche in termini di colpi di scena e quel tocco di surrealismo nei jump scare. Lo splatter è risparmiatissimo (una sola, terribile sequenza, alla fine) e per il resto si seguono soprattutto i tormenti di Julia, che è ossessionata dal vicino e sul quale, pero’, non riesce a trovare prove di alcun reato. I sospetti del pubblico sull’identità del killer (e del watcher, ammesso che coincidano) diventano molteplici: potrebbe essere qualche vicino, poi da un lato è lecito pensare che sia la donna stessa a vedere nell’Altro un riflesso delle proprie ossessioni (classico “specchio” psicoanalitico del genere), dall’altro la figura positivista del marito farà sollevare più di un sopracciglio facendo sospettare, in più momenti, un suo coinvolgimento negli omicidi.

Sì, perchè vicino casa dei coniugi appena trasferiti ne è appena avvenuto uno, e sembrerebbe forse collegato con il watcher.

La regia di Chloe Okuno è nitida, ha le idee chiare, cita a grandi linee almeno due classici del genere (La finestra sul cortile e forse anche L’inquilino del terzo piano), per quanto si possa – o si debba, addirittura – citare anche Vetro, un recente lavoro dello stesso genere da cui si pescano tematiche e analogie a piene mani (anche lì c’è una donna giovane e isolata di mezzo, sebbene l’innesco finale funzioni meglio e la sostanza non cambi, a conti fatti). L’ottica della regia è comunque diversa da quella hitchockiana, che era implicitamente voyeuristica: inverte il ruolo osservante-osservato, evidenzia il disagio di quest’ultimo (sia più giocando su una possibile doppia inversione di ruoli, il che scatena le miriadi di potenziali interpretazioni psicologiche), del resto lavora quasi esclusivamente sul personaggio femminile e relega allo stesso un ampissimo spazio di introspezione, quasi una seduta prolungata dallo psicoanalista. Il focus è uno: Julia è sola, non ha spazio nella società ed ha pochissima voce in capitolo.

Una questione ben strutturata per il genere, in grado di creare presupposti incalzanti e si offre, in modo abbastanza spontaneo, ad una lettura di questo tipo (thriller psicologico non a caso, insomma). Ulteriori momenti di monologo dei personaggi farebbero pensare a vere e proprie sedute dallo psicologo, in cui mediante un impetuoso flusso di coscienza viene fuori la personalità degli stessi, fino ad allora ignora (la scena in metropolitana tra il watcher e la protagonista che si confessano a vicenda è abbastanza emblematica, in tal senso).

Lo sguardo di Julia quasi perennemente perso nel vuoto, diventando a volte difficile da decifrare, è sempre più smarrito, alla ricerca di un Altro che non si sa bene che ruolo debba avere, il sembrerebbe confermare che si tratti di una “paziente” affetta da nevrosi, aspetto che viene innescato da una trovata della sceneggiatura (della regista e di Zack Ford) non da poco:  Julia è americana e sta imparando il rumeno, ma non sempre coglie tutte le parole dei discorsi che sente, il che la mette ancora più a disagio mentre si rapporta con vicini e colleghi del marito (il disagio è in qualche modo trasferito sul pubblico: il film non presenta, probabilmente come scelta registica, i sottotitoli nelle parti recitate in rumeno).

Non è solo, ovviamente, lei a non capire: è il mondo attorno a se a non curarsi di lei, ed è questo dettaglio che trasforma Watcher in un film di denuncia femminista. Basta considerare questo semplice scambio di battute per capacitarsene, dove da un lato è presente una donna che afferma di sentirsi in pericolo e l’uomo, per tutta risposta, suggerisce come la colpa possa essere la sua.

Julia: Mi sta fissando

Francis: Forse, oppure…

Julia: Oppure cosa?

Francis: Forse sta fissando la donna che lo sta fissando.

È anche possibile che la regista non sia esattamente una fan della psicoanalisi, o comunque delle vie di mezzo o delle chiavi di lettura “a specchio”, anche perchè vedendo il film per intero sembra che non abbia comunque voluto sottolineare la doppiezza dei personaggi quanto il ruolo della donna, puro, in una storia dai tratti archetipici. In ottica lacaniana, se proprio si vuole, il piano del reale sarà limitato all’ordine del godimento (l’unica sequenza iniziale di un rapporto intimo tra i due personaggi; una sessualità impetuosa che poi andrà smarrita nel seguito), poi iniziano le premonizioni e la paura (destinate a risolversi solo nel finale). Il rapporto immaginario riguarda il suo modo di rapportarsi, teso quanto ambivalente, con il watcher (colui che la spia e che in una sequenza arriva ad imitare nel comportamento). Il piano simbolico, infinie, potrebbe riguardare il suo voler emergere nella società che l’ha emarginata in quanto donna: cosa che nel finale, a suo modo, farà (quasi come una novella Monica Vitti/Assunta che finalmente realizza il proprio sogno). Tale interpretazione – che non dettagliamo per non fare spoiler – regge pienamente fino a quel finale, in cui appare evidente che la trama è tutt’altro che introspettiva, e che il personaggio di Julia rappresenta brutalmente tutte le donne vittime di esclusione dai ranghi, oggetto di scherno o mansplaning oppure, ancora, di limitazione esteriorizzata delle loro funzioni.

Un film che sarebbe perfettamente riuscito, in definitiva, se non fosse per quel finale non proprio efficace, soprattutto perchè troppo telefonato o prevedibile, in cui si disvela una realtà in parte banalotta (quantomeno a confronto di altri thriller molto meno prevedibili) il che rischia di inficiare in parte la serietà del messaggio (nobilissimo, se servisse ribadirlo, non è questo il punto) di cui Watcher vorrebbe farsi alfiere. Se qualcosa non quadra forse è solo lì, e basta rivedere proprio un film Vetro (che di queste tematiche è portatore anch’esso) per accorgersi che tutto sommato siamo al cospetto di un film che è più simile a Buio, che ai classici citati. Film in cui non conta tanto il genere ed il suo omaggio quanto, a conti fatti, il messaggio che si vuole mandare. Scelte rispettabile che va affermata chiaramente, a mio parere, anche e soprattutto per onorare il senso dell’opera.

Da non confondersi con il quasi omonimo (e similare nella tramaf, per certi versi) The Watcher.

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