“Enemy” è un film del 2013 diretto da Denis Villeneuve e basato sul romanzo “The Double” di José Saramago. Il film è noto per la sua trama complessa e ricca di simbolismi, che ha portato a numerose interpretazioni e discussioni tra gli spettatori.
La trama segue la vita di Adam Bell, un insegnante di storia noioso e insoddisfatto, interpretato da Jake Gyllenhaal. Un giorno, guardando un film, Adam nota un attore che assomiglia in modo sorprendente a lui. Adam inizia quindi a indagare sulla vita dell’attore, Anthony Claire, che è anche interpretato da Jake Gyllenhaal.
Man mano che la trama si sviluppa, emergono parallelismi e simboli che suggeriscono che Adam e Anthony potrebbero essere la stessa persona, o almeno rappresentazioni simboliche di parti della stessa personalità. Entrambi i personaggi condividono una relazione complicata con le donne nella loro vita, che a loro volta sembrano avere connessioni e parallelismi.
Il film è caratterizzato da una forte atmosfera onirica e surreale, con una fotografia cupa e una colonna sonora inquietante che contribuiscono a creare un senso di tensione e mistero. La narrazione ambigua e aperta a interpretazioni multiple ha portato a numerose teorie e discussioni tra gli spettatori sul significato e sulle implicazioni della trama.
In definitiva, “Enemy” è un film che sfida lo spettatore a riflettere sul concetto di identità, doppio e la natura oscura della psiche umana. La sua natura enigmatica e simbolica lo rende un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per chi è disposto ad affrontare il suo mistero.
August underground’s Mordum è il secondo capitolo della serie di August underground e secondo alcuni è considerato il più inquietante della saga. Sì, perchè esiste una saga horror USA (distribuita dalla Toetag Pictures) di nome August underground che magnifica le gesta di un killer (interpretato dal regista Fred Vogel) di nome Peter, ponendo le basi ideali dal punto di vista narrativo per film successivi (altrettanto controversi) come The last horror movie, S&Man e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Si presenta come un filmato amatoriale a tutti gli effetti, girato dai (finti) serial killer Peter Mountain, la fidanzata Crusty e il fratello Maggot. Sono i presupposti della famiglia perversa su cui si basa anche Non aprite quella porta, in effetti, e parte di quel mood sporco quanto amatoriale viene a ritrovarsi in questa sede. La prima sequenza è già emblematica: Peter si imbatte in Crusty che lo tradisce con Maggot, e scoppia una lite feroce. In seguito inizierà un delirio di omicidi e sadiche torture che non potrà che concludersi con una nichilistica conclusione.
La visione composta è volutamente compromessa da una telecamera traballante (si tratta di un finto snuff a tutti gli effetti, e anche uno dei più famosi e citati), dal fatto che il protagonista urla ossessivamente la parola fuck, ma è ancora più interessante notare come, visto oggi, un film del genere possa evocare un reality show di oggi particolarmente infimo e pieno di protagonisti isterici e/o urlanti, tanto da conferire al film (mai considerato esattamente nell’olimpo dei capolavori del genere, ovviamente) quantomeno dei tratti sociologicamente coerenti o più grotteschi di quando il film uscì.
Contestualizzando, era uno di quei film rivolti ad un certo pubblico “adulto e vaccinato”, che aveva visto almeno Cannibal Holocaust, e che cercava singolari strane emozioni da un horror, con lo spirito con cui (mi viene da scrivere) si fanno le ricerche più strane ogni notte su Pornhub. Un horror che si sforzava ad essere massimamente realistico, mostrando, senza filtro e senza evitare alcun dettaglio, protagonisti fuori di testa. Di più: August Underground Modrumera uno di quei film a cui devi credere per forza, nonostante sapessi del finto snuff, questo per dare un senso alla visione, e che rappresenta forse una delle esperienze più spaventose mai ingenerate da un film (almeno per l’epoca, siamo nel 2003).
Tra killer omofobi, atti autolesionisti e feticistiche perversioni sessuali di ogni genere, August Underground Modrum è un unicum che forse, oggi, non dovrebbe più vedere nessuno (non si avverte realmente la necessità di farlo, a ben vedere), e che dovrebbe rimanere lì, nascosto, nella collezione segreta dei filmati non raccontabili che in molti custodiscono su dischi rigidi criptati con su scritto (magari) “Backup vari”.
Carla è alla ricerca di un appartamento a Londra da condividere con lo studente di cui è innamorata, Matteo.
In breve. Un micro-saggio di erotismo del Maestro italiano, semplice nella sua struttura quando significativo all’interno della produzione brassiana. Nonostante alcune situazioni possano sembrare forzate (e questo non aiuta la componente suggestiva), il film è simbolico di un modo di intendere l’eros tuttora attuale.
Film emblematico della più recente ondata brassiana di erotismo, quella che aveva deciso di attualizzarsi ed abbandonare le ricostruzioni storiche. La figura di Carla, interpretata dalla bellezza statuaria, sublime e abbagliante di Yuliya Mayarchuk (una Musa quasi simbolica – senza slip, con le calze colorate e l’ombrello – di questa fase del cinema di Brass) è la tipica donna che alterna ruolo di dominatrice e dominata, persa tra i meandri di un erotismo che la cerca, senza mai soddisfarla seriamente. Come è sua consuetudine, i toni del film giocano sull’ironia e su un’idea del sesso gioiosa quanto poco preventivabile, e questo a cominciare dal titolo, in bilico tra il tradimento e la trasgressione.
La figura del protagonista maschile, poi, è apparentemente il tipico tonto medio (che si può apprezzare egualmente nei film di Russ Meyer come Supervixens) in cui paure, educazione e perbenismo gli impediscono di godersi edonisticamente il sesso – cosa che il film sembra invitare il pubblico a fare fin dall’inizio, senza pensieri nè remore.
Questo è anche un po’ il senso della pellicola, al netto delle numerose scene erotiche (a volte ben costruite e suggestive, altre vagamente forzate o irrealistiche): se all’inizio Matteo impazzisce di gelosia nell’immaginare la propria donna guardata da altri, in una relazione lesbica, di gruppo o etero che sia (e rapito da questa ossessione nemmeno si accorge che Carla vorrebbe fare del sesso telefonico con lui), successivamente sblocca la situazione in modo radicale. Lo fa nell’unico modo realistico: chiedendo alla propria donna di mentirgli, di non raccontargli mai una verità che demolirebbe l’immagine idealizzata di cui è geloso.
Un piccolo dramma-commedia a tinte fortemente erotiche, forse non il migliore della lunga serie del regista (questo soprattutto per via di interpretazioni non sempre all’altezza della situazione), ma che oggi può essere riscoperto perchè, nella sua leggerezza, di un minimo interesse cinefilo. La versione inglese del film (quella italiana si trova facilmente in rete) è leggermente differente a livello di montaggio, presenta i credits iniziali con il titolo inglese “Cheeky” (in inglese sfacciata/o) e manca del primo minuto iniziale di riprese. Anche la musica di apertura, nell’edizione anglofona, è leggermente differente.
Quando si parla di horror natalizi, il nome Un Natale rosso sangue (Black Christmas, 1974) non è un semplice titolo alternativo: è la pietra miliare di un genere. Diretto da Bob Clark, già autore della commedia natalizia A Christmas Story, questo film sembra provenire da un inconscio collettivo dove le luci colorate si spengono e sotto la neve si nasconde una minaccia senza nome.
A differenza di molti slasher che sarebbero arrivati dopo, Un Natale rosso sangue non mostra subito l’assassino né fornisce motivazioni tradizionali. Le protagoniste sono un gruppo di studentesse in una casa di confraternita che, durante le vacanze invernali, iniziano a ricevere telefonate inquietanti e minacciose da un interlocutore sconosciuto — la cui voce distorta, mutevole e apparentemente senza un senso chiaro, diventa una presenza ossessiva nel film.
Questa strategia narrativa — il terrore costruito prima nella mente dello spettatore che nella carne delle vittime — è uno degli aspetti più disturbanti e originali dell’opera. Il killer non è una figura mascherata ultra-violenta, né dotata di motivazioni psicotiche spiegate a posteriori: resta un fantasma telefonico, una presenza che suggerisce follia senza mai chiarirla, spingendo lo spettatore a interiorizzare l’orrore piuttosto che semplicemente guardarlo.
💡 Curiosità da IMDb:
Il film è noto in italiano come Un Natale rosso sangue, titolo che sottolinea il contrasto tra la stagionalità festiva e il tono profondamente sinistro della pellicola.
Nel finale, durante i titoli di coda, si sente un telefono che squilla incessantemente, un dettaglio inquietante inserito appositamente per lasciare lo spettatore con un senso di angoscia persistente.
Un Natale rosso sangue è considerato da molti critici e appassionati uno dei primi esempi di slasher moderni e una fonte di ispirazione per film successivi del genere, incluso Halloween e altri classici del terrore stagionale.
📽️ Stile e impatto
A differenza di molti horror che puntano su effetti sanguinosi o su un villain iconico, Clark opta per suspense psicologica, uso intelligente dello spazio claustrofobico (la casa delle studentesse) e una tensione costante che non si risolve mai davvero. Anche senza spiegazioni complete sul killer, lo spettatore percepisce una minaccia reale e non mediata, come se l’orrore potesse insinuarsi in ogni stanza o dietro ogni porta chiusa.
In Italia, il film ha trovato nel tempo una reputazione di cult di nicchia tra gli appassionati di horror anni ’70 e ’80 — non facile da reperire o vedere in TV all’epoca, ma negli anni riaffiorato grazie alle edizioni home video e alle ristampe in DVD/Blu-ray. Questo lento riscatto ha fatto sì che Un Natale rosso sangue venisse rivalutato non solo come pezzo di intrattenimento spaventoso, ma come testimonianza di come il Natale possa essere rappresentato come spazio di vulnerabilità e paura, ben prima che il termine “slasher” diventasse un’etichetta di mercato.
Nel novembre del 1984, Silent Night, Deadly Night non fu solo un horror slasher: fu un vero e proprio caso mediatico. Il film uscì nelle sale con una premessa che a molti genitori americani risultò inaccettabile e oltraggiosa: Babbo Natale, simbolo di innocenza e bontà, come assassino con l’ascia? Questo singolare rovesciamento dell’emblema natalizio scatenò proteste rumorose e veementi. Gruppi di genitori, guidati da associazioni come Citizens Against Movie Madness, scesero in piazza davanti ai cinema per chiedere il ritiro del film e accusarono produttori e distributori di aver oltrepassato ogni limite di decenza.
Un classico cult che divide: alcuni lo trovarono grottesco e offensive, altri lo celebrarono come uno dei modi più spaventosi di raccontare l’orrore natalizio, attraverso una curiosa chiave sociologica. La reazione non si limitò ai cartelli fuori dai cinema: campagne pubblicitarie con immagini del “Babbo assassino” furono tolte da TV e billboard dopo che molte famiglie si lamentarono perché gli spot venivano mandati in onda durante programmi familiari nel tardo pomeriggio, terrorizzando i bambini con la figura del vecchio vestito di rosso che brandisce un’ascia.
Se pensavi che il Natale fosse fatto di luci, regali e abbracci calorosi davanti al camino, Silent Night, Deadly Night ti scaraventerà nella sua antitesi più spaventosa: una notte di sangue, trauma e follia in cui Babbo Natale non porta dolci.
Il film del 1984, diretto da Charles E. Sellier Jr., è un slasher che ha fatto la storia (e non per il motivo giusto): qui Babbo Natale diventa l’incarnazione di ogni paura natalizia mai avuta da un bambino. Billy Chapman, traumatizzato dall’aver visto i suoi genitori uccisi da un uomo travestito da Santa Claus, cresce in un orfanotrofio doloroso e repressivo. Quando, da adulto, si ritrova a indossare la stessa giacca rossa… il sangue scorre.
E poi ci sarebbe il reboot del 2025, firmato da Mike P. Nelson: un ritorno al mito del killer vestito di rosso che non si limita a riproporre gore e carneficina, ma prova a scavare nella psicologia di Billy, mescolando nostalgia anni ’80, tormento interiore e persino una love-story disturbata. Nulla di paragonabile a questa gemma settantiana che si annovera tra i migliori slasher di sempre.
Silent Night, Deadly Night non è solo sangue e body count; è una lacerazione del mito natalizio. Il costante contrasto tra magia delle feste e violenza brutale crea un senso di inconforto che ti resta addosso come una canzone di Natale stonata. Il killer in costume bianco e rosso non è una parodia, ma la personificazione di un trauma infantile mal curato e di un mondo che fallisce chi soffre.
In Silent Night, Deadly Night il Babbo Natale assassino non è semplicemente una provocazione iconografica, ma la cristallizzazione di un trauma infantile non elaborato, una ferita psichica che il tempo non guarisce ma solidifica. Billy non “impazzisce”: si struttura. La sua violenza non nasce dal nulla, ma da un’esperienza originaria che la psicoanalisi freudiana definirebbe come evento traumatico primario, non simbolizzato, quindi destinato a ripetersi sotto forma di coazione a ripetere.
Freud scrive che ciò che non viene ricordato ritorna come azione. Billy non ricorda: agisce. E agisce indossando proprio il simbolo che ha generato l’orrore. Il costume di Babbo Natale diventa così un oggetto transizionale rovesciato: non serve a lenire l’angoscia, ma a darle una forma, a renderla comunicabile attraverso il sangue.
Dal punto di vista lacaniano, il trauma di Billy avviene nel momento in cui il Simbolico (la Legge, il linguaggio, l’ordine adulto) fallisce. Babbo Natale dovrebbe incarnare il Padre buono, colui che giudica ma protegge; qui invece si manifesta come Padre assassino, spezzando ogni possibilità di fiducia nel mondo. Il risultato è un soggetto che non riesce a entrare pienamente nel patto sociale: Billy resta intrappolato nel Reale, in ciò che è troppo violento per essere detto.
Ma il vero orrore non è solo il trauma iniziale. È ciò che viene dopo. L’orfanotrofio, le figure educative, la morale repressiva: tutto concorre a trasformare il dolore in colpa. Non c’è ascolto, non c’è elaborazione, solo disciplina e punizione. Qui il film si avvicina a una critica quasi foucaultiana delle istituzioni: il sistema non cura, normalizza. Non accompagna il soggetto nella comprensione del trauma, ma lo addestra a reprimerlo.
Secondo Foucault, la società moderna non elimina la follia: la isola, la sorveglia, la addomestica finché non esplode. Billy è il prodotto di questa violenza silenziosa: un individuo a cui viene insegnato cosa è “giusto” e “sbagliato”, ma mai perché soffre. Quando uccide, non lo fa solo per vendetta personale, ma come atto morale distorto: punisce i “cattivi”, replica la logica ricevuta.
In questo senso, il mondo di Silent Night, Deadly Night fallisce due volte:
Non protegge l’infanzia
Non sa cosa fare con il dolore adulto
Indossare il costume di Babbo Natale a questo punto non è una scelta casuale: è l’ultimo stadio della dissociazione. Secondo la psicoanalisi del trauma, quando l’Io non riesce a integrare l’esperienza traumatica, può identificarsi con l’aggressore (Anna Freud). Billy diventa ciò che lo ha distrutto, perché solo così può smettere di sentirsi impotente. La maschera è rassicurante perché elimina il conflitto: non c’è più Billy, non c’è più bambino, non c’è più dolore. C’è solo una funzione. Uccidere diventa linguaggio. Il sangue diventa narrazione. Ed è qui che il film diventa profondamente nichilista: non c’è redenzione, non c’è catarsi, non c’è guarigione. Solo la messa in scena di un fallimento collettivo, in cui il mostro non nasce, ma viene lasciato crescere in una società che farebbe quasi finta di non vederlo.
L’orrore di Silent Night, Deadly Night non è il killer vestito di rosso. L’orrore è un mondo che guarda un bambino spezzarsi e risponde con regole invece che con cura. Babbo Natale, nonostante le apparenze, non è il mostro. È lo specchio deformato di una società che promette protezione, ma consegna solitudine. E quando il trauma non trova parola, quando il dolore non trova ascolto, l’unica voce rimasta è la violenza.
Questa innovativa regia del 1984 racconta una spirale di follia semplice ma efficace; quella del 2025 amplia il campo visivo, con sequenze più elaborate, azione intensa e riferimenti psicologici più profondi. Tuttavia, entrambi i film condividono quella sensazione di natalità corrotta, in cui il suono dei campanellini si trasforma in un grido di terrore. Perché Silent Night, Deadly Night è il dolore che si veste di rosso, l’innocenza che si spezza sotto il peso di un trauma indelebile. È quel momento in cui l’iconografia più rassicurante diventa la maschera del tuo incubo più profondo. Quando Billy chiede “Sei stato cattivo o buono?”, non è un gioco: è un giudizio spietato, la sentenza di chi non ha più nulla da perdere.
Il film fu distribuito in Italia principalmente in home video, non nelle sale come negli USA. Quando venne pubblicato in videocassetta nel dicembre 1988, il titolo italiano usato fu “Silent Night, Deadly Night – Un Natale rosso sangue”. Successivamente, in edizioni VHS e DVD degli anni ’90 fu adottato anche il più semplice “Natale di sangue” come titolo di copertina e di catalogo.
Natale di sanguenon va confuso con Black Christmas, un altro horror natalizio degli anni ’70 diretto da Bob Clark, che nella distribuzione italiana venne a volte sottotitolato Un Natale rosso sangue. Anche se i titoli italiani si somigliano, sono due film distinti e non collegati nella trama o nella saga.
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