TECNOCRAZIA_ (51 articoli)

La tecnocrazia si riferisce a un sistema di governo o di organizzazione sociale in cui il potere decisionale è affidato principalmente a esperti tecnici o specialisti nei rispettivi campi, piuttosto che a politici o rappresentanti eletti.

  • Matrix spiegato al popolo sovrano

    Matrix spiegato al popolo sovrano

    The Matrix è un film d’azione di fantascienza del 1999 scritto e diretto dalle sorelle Wachowski. È il primo capitolo della serie cinematografica di Matrix e vede protagonisti Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss, Hugo Weaving e Joe Pantoliano. Ambientato in un universo cyberpunk, il film presenta un futuro distopico in cui l’umanità vive inconsapevolmente intrappolata all’interno della Matrix, una realtà simulata creata da macchine intelligenti. Convinto che Neo, un hacker informatico, sia “l’Eletto” profetizzato per sconfiggere le macchine, Morpheus lo recluta in una ribellione contro i loro oppressori.

    La trilogia di Matrix (1999–2003), diretta dalle sorelle Wachowski, può essere analizzata in una chiave psicoanalitico-materialista combinando riferimenti alle teorie psicoanalitiche di Freud e Lacan e ai principi materialisti della filosofia contemporanea e delle neuroscienze. Questo approccio permette di interpretare la realtà simulata di Matrix come una metafora della costruzione dell’identità, dell’alienazione sociale e della dialettica tra mente e corpo.

    n una chiave psicoanalitico-materialista, Matrix è un’esplorazione dell’alienazione umana e delle condizioni che la rendono possibile. La trilogia riflette sul rapporto tra mente e realtà, sull’identità e sulla possibilità di emancipazione attraverso un atto radicale di consapevolezza e rottura con l’ordine simbolico dominante. Sia nella psicoanalisi che nel materialismo, l’uscita da Matrix rappresenta la lotta per una nuova soggettività, che riconosce e affronta la realtà materiale senza più nascondersi dietro illusioni.


    Metafora dell’inconscio e della realtà simulata

    In una prospettiva psicoanalitica, Matrix rappresenta la tensione tra il conscio e l’inconscio, con la simulazione digitale che funziona come un meccanismo di rimozione collettiva. La matrice agisce come il principio di piacere freudiano, mantenendo gli esseri umani in uno stato di apparente soddisfazione e sicurezza. Questo stato impedisce loro di affrontare la cruda realtà materiale della loro esistenza: sono sfruttati come fonti di energia dalle macchine, un’immagine che simboleggia l’alienazione capitalistica.

    La figura di Morpheus e la sua offerta della pillola rossa rispecchia il trauma del confronto con il Reale lacaniano: ciò che sta al di là del simbolico e dell’immaginario, ossia la verità brutale e non mediata del mondo. In termini neuroscientifici, il conflitto tra Matrix e la realtà esterna può essere visto come un’analogia del ruolo delle aree cerebrali responsabili della percezione (corteccia visiva, aree associative) nel generare una simulazione interna del mondo che è funzionale alla sopravvivenza, ma non necessariamente “reale”.


    Neo e l’identità come processo dialettico

    Neo rappresenta l’io che tenta di emanciparsi dalla rete simbolica che lo imprigiona. La sua progressiva consapevolezza di essere “l’Eletto” (una figura che potremmo connettere al Sé ideale lacaniano) avviene attraverso un processo di destrutturazione e ricostruzione identitaria. In termini psicoanalitici, Neo incarna il soggetto che rompe con l’Altro (la matrice come rappresentazione del grande Altro) per riconoscere la propria posizione nel sistema.

    Sul piano materialista, questa trasformazione può essere letta come il risveglio di un soggetto alienato che si rende conto delle condizioni materiali della propria esistenza. La trilogia, in questo senso, riflette il concetto marxiano di “falsa coscienza”: gli esseri umani, intrappolati in Matrix, accettano come naturale un sistema di sfruttamento che viene invece artificialmente prodotto.


    Simulazione e controllo: neuroscienze e biopolitica

    L’idea centrale della matrice come simulazione corrisponde alle teorie neuroscientifiche contemporanee che vedono la mente umana come una “macchina predittiva”. La nostra percezione del mondo è una costruzione del cervello basata su modelli interni e input sensoriali (Friston, 2010). Allo stesso modo, Matrix offre un mondo costruito che soddisfa le aspettative sensoriali degli esseri umani, mantenendoli sotto controllo.

    In una chiave biopolitica, questo sistema di controllo totale è paragonabile alle strutture descritte da Foucault e Deleuze, in cui il potere si esercita non solo attraverso la repressione diretta, ma tramite la modellazione del comportamento e dei desideri. Le macchine di Matrix rappresentano un potere che non solo domina i corpi, ma plasma le menti, orientando i soggetti verso una vita che li sfrutta mentre li illude di essere liberi.


    L’amore come interruzione del sistema

    L’amore tra Neo e Trinity può essere interpretato come un’eccezione alla logica del sistema. Per Lacan, l’amore è l’incontro con l’Altro in quanto soggetto e non oggetto di desiderio. Nella trilogia, questo legame sfida le regole della matrice e genera uno spazio di autenticità che sovverte il controllo totale delle macchine.

  • Nirvana di Gabriele Salvatores ci ha fatto zigoviaggiare

    Zigoviaggiare è il neologismo / supercazzola che riassumeva, nelle intenzioni di Nanni Moretti nel film Aprile, l’atteggiamento perplesso del pubblico di cultura classico-analogica alle prese con le trovate del cinema di fantascienza. Un genere, la fantascienza, che in Italia è stato quasi sempre corsaro. Più di altri, più del thriller e dell’horror di sicuro, e meno male che Salvatores ha pensato di dirigere Nirvana.

    Siamo nel bel mezzo degli anni Novanta.

    Internet sta per diventare un mezzo di diffusione di massa, ma ancora non lo è diventato.

    Gran parte delle persone non capisce cosa stia succedendo in quell’ambito.

    I virus sono più popolari in forma biologica che in quella digitale, e forse è meglio così.

    Abituato a scorpacciate di cinema d’autore de na vorta, il pubblico da cineforum non apprezza particolarmente la fantascienza, a meno che non si tratti di microfestival dedicati al tema. La considera astratta, incomprensibile, a volte scandalosa (da ricordare le reazioni violente a Crash di David Cronenberg, ad esempio: in UK il ministro Virginia Bottomley ne chiese la censura, Irene Bignardi parlò di “baracconata disonesta”, il comune di Napoli si attivò per vietarne la diffusione senza neanche averlo visto). Il personaggio di Moretti che cantilena ossessivamente i dialoghi futuristici del film ha probabilmente espresso – meglio di chiunque altro – la diffidenza dello spettatore nei confronti di certo cinema di sci-fi. Cinema non banale, simbolico, a volte sofferente di overload di significati, spesso e volentieri relegato alla nicchia dell’essai.

    Del resto Strange days è una fantascienza cyberpunk, esattamente come quella di Nirvana – e azzardiamo pure a scrivere che il primo sembra quasi peggio del secondo. Una diffidenza che, per quello che vale, ha radici lontane, fa fatica a scomparire ancora oggi, ed è lungi dall’essere puro pregiudizio a priori: ci piacciono i mattoni d’epoca, Star Trek e Star Wars (spesso li confondiamo), amiamo ovviamente Dune, ci sono orde di fan di Nolan e la cosa essenziale della fantascienza “bella” è che ci sia la spettacolarizzazione delle ambientazioni.

    Resta altresì sottinteso che un film non è valido / degno di nota se non si registrano i soliti nerd che hanno qualcosa da eccepire sulla credibilità di ciò che guardano. La forza di gravità è rispettata? Come ha fatto l’astronauta a stare senza casco? Ma le astronavi fanno davvero rumore nello spazio? Come se il cinema perdesse brutalmente il requisito di sospensione dell’incredulità giusto per uno dei generi che ne dovrebbero, in teoria, farne da capisaldo.

    Hai mai jackato? Hai mai zigoviaggiato? No, mai. Ah, un cervello vergine… ti faremo cominciare bene!  Sei proprio sicuro che vuoi essere collegato? Sì, lo voglio (Aprile, Nanni Moretti)

    Nirvana di Gabriele Salvatores è una fantascienza che (al contrario di Strange Days, osiamo scrivere) avrebbe fatto divertire Nanni Moretti (come personaggio, s’intende), e che non avrebbe sfigurato come film di riferimento al posto del succitato. Non fosse altro che è uscito un anno prima (1997). Un unicum del genere che registrò incassi record al cinema: 15 miliardi di lire, secondo le stike di Wikipedia, cinque milioni di spettatori nonchè l’undicesimo incasso assoluto della stagione cinematografica 1996-97, se si pensa che all’epoca dominavano futuri cult quali INDEPENDENCE DAY, Il paziente inglese e Il ciclone. Un film che si trova ad essere qualcosa di molto diverso dal solito riassemblamento “per intenditori” sulla falsariga di Hardware – Metallo letale. Quella di Salvatores in Nirvana è una fantascienza solida, sostanzialmente per tutti, priva di fronzoli, con un uso accurato degli effetti speciali (e giusto qualche pecca interpretativo-narrativa).

    Nirvana ha subito critiche per lo più immotivate negli anni, e per quanto non sia un film perfetto (la parte centrale sembra troppo diluita e poco incisiva), resta uno dei principali e più fondanti film italiani degli anni Novanta: dicevamo essere un unicum del genere, tanto più che è stato distribuito in un panorama dove il genere viene bistrattato e sono ben pochi a vantare primati del genere. A differenza di generi come l’horror, del resto, per i quali abbiamo avuto sempre autentici maestri (Argento, Bava, Avati, Fulci), la fantascienza italiana è stata relegata ad una dimensione più che altro di nicchia, da cine-fanta-festival, puramente imitativa, con quel moto d’orgoglio che solo un b movie può darti (ad esempio L’arrivo di Wang), avvezza storicamente all’imitazione del canone famoso (Alien 2 di Ciro Ippolito), frammista di quel benedetto, infallibile horror che (gira e volta) viene sempre sfruttato pur di fare cassa.

    E dire che nel 1976 era uscito un piccolo capolavoro quale L’invenzione di Morel, in grado di inventare una nuova fantascienza italiana senza che ciò tuttavia abbia contribuito all’affermazione del genere (per chi non lo ricorda, l’invenzione in questione era una macchina in grado di registrare la realtà in forma olografica e proiettarla in loop nello spazio tridimensionale: l’illusione supremsa era che l’uomo potesse controllare, ripetere e rivevere le situazioni). Nirvana parla invece di un programmatore di videogame depresso per via di una donna che lo ha lasciato, e che sembra aver trasferito il mood esistenzialista anche al protagonista del videogioco a cui sta lavorando. Che un bel giorno bussa allo schermo e, meraviglia delle meraviglie, chiede cortesemente di essere cancellato dalla banca dati: non ne può più di vivere la routine di quel gioco.

    Nel nostro cinema si fatica, a quanto sembra, ad accettare la fantascienza come genere dotato di spessore – o addirittura dignità: in questo va riconosciuto lo spirito precursore e innovativo di Salvatores nel girare questo film, facendosi peraltro aiutare da volti noti del cinema comico italiano, da Paolo Rossi “Joker” (!) a Bebo Storti. Opera di spessore e profetica, per quello che vale sottolinearlo: pura fantascienza concettuale con ambientazione alla Blade Runner e vari spunti tratti dai romanzi di William Gibson (un autore complesso e multisfaccettato, archetipo della fantascienza accelerazionista), senza contare che Nirvana anticipa qualcosa addirittura da Matrix (che a sua volta, nel gioco a ritroso delle ispirazioni, traeva spunto da Razzi amari: il fumetto cult di Disegni e Caviglia).

    Forse – ipotizzo – non ci sono (ad oggi) autori nazionali di fantascienza che abbiano avuto un successo da prima serata al TG, al netto dei soliti noti (vengono in mente, in primis, Dino Buzzati e Valerio Evangelisti, ma dovremmo citarne molti altri): già in Italia si legge poco, e probabilmente questo non aiuta la diffusione di generi come questo. Tanto più che un film cyberpunk oggi non potrebbe più essere girato come questo, perchè sono cambiate molte cose e anche Terminator inizia a sembrare datato. Nirvana di Gabriele Salvatores si colloca in questa dimensione fantascientifica senza paura e senza tentennamenti, oltre che nel bel mezzo degli anni Novanta, quando (anche in Italia) aveva senso divagare sulla realtà virtuale, sugli abusi tecnologici, sulle storie di hacker e sui “possibilismi” tipo Matrix (della serie viviamo in un mondo reale o in una simulazione?).

    Nirvana per il resto va gustato, apprezzato in ogni fotogramma, cogliendo i numerosi Easter Eggs presenti (Silvio Orlando in un ruolo davvero irresistibile, ad esempio). Fa probabilmente strano vedere Claudio Bisio nelle vesti di un personaggio gibsoniano (un tassista che ricorda molto da vicino quello di Hardware), ma vogliamo pensare che si tratti di semplice snobismo pensarla così e che, a conti fatti, non ci siano troppe differenze tra questa ed altri tipi di fantascienza mondiale. Di più: l’incursione hacker che vediamo nel finale avviene mediante un virus informatico, ma è di natura meditativa, quasi ascetica (il colpo di genio della trama, in effetti): come se violare un sistema digitale richiedesse una concentrazione superiore alla norma. Raggiungere il Nirvana, per l’appunto.

    E non mancano le perle di cui il film è cosparso: i cameo vari nei personaggi più fantasiosi e grotteschi, l’aspetto sentimentale ben dosato e mai abusato, la trovata della backdoor nascosta nell’armadio del videogame, che un personaggio vorrebbe sfruttare come via di fuga – il tema è stato già trattato in Mediterraneo in forma “analogica” – mentre un altro arriva a rifiutare l’idea, mostrando che alla questione della senzienza degli avatar andrebbe affiancata l’idea che essi non fanno che imitare i nostri comportamenti (o quelli di chi li ha programmati). Non si può nemmeno dire che gli effetti speciali siano di basso livello o che si tratti di un bmovie, perchè l’uso delle tecnologie è adeguato all’epoca e sostanzialmente coerente. Si potrebbe al limite avere qualcosa da eccepire sulle interpretazioni, soprattutto quella di Lambert che in alcune sequenze sembra poco amalgamato alla storia. La ragione del suo sembrare “estraneo” sta probabilmente nel fatto che recitò in inglese e fu l’unico a farlo, per poi essere doppiato in seguito.

    A Salvatores del resto bastano quindici minuti dall’inizio del film per mettere le cose in chiaro: Christopher Lambert / Jimi è un programmatore di videogiochi che vive in una casa superaccessoriata (smart home, diremmo oggi), mentre Diego Abantuono / Solo è il protagonista del suo gioco più recente. Come in eXistenZ di David Cronenberg (che sarebbe uscito due anni dopo), il videogame è indistinguibile dalla realtà. È tanto realistico da sembrare il mondo in cui viviamo, con il rischio di rendere blanda la distinzione tra i due – oltre che scatenare crisi esistenzialiste nei personaggi del gioco stesso (come se l’avatar di un gioco di calcio sentisse realmente dolore in seguito ad un fallo durante una partita). Jimi sta cercando una donna della quale possiede solo un’immagine/video digitale, mentre Solo desidera semplicemente essere cancellato dal gioco, al fine di evadere da una routine che trova insopportabile.

    Ovviamente il titolo Nirvana fa riferimento – oltre alla band di Kurt Cobain – al noto concetto religioso e filosofico, utilizzato da religioni come il buddismo e l’induismo, per descrivere la pace mentale, corporea e dell’anima che si può raggiungere una volta che tutti i desideri (da sempre fonte di sofferenza) sono scomparsi. Forse quello che desidera Solo (ma anche Jimi), sempre più soli e disorientati all’interno di un videogioco/realtà di cui non hanno mai scelto di far parte.

    Come nelle migliori opere di William Gibson, c’è la figura di un hacker che prova a violare un sistema informatico per trarne vantaggi, o magari scongiurare il peggio per l’umanità. Non sembra un azzardo pensare che Nirvana, scritto da Salvatores assieme a Pino Cacucci e Gloria Corica, sia stato ispirato dalla Trilogia dello Sprawl, a cominciare dall’ambientazione cyberpunk a finire ai dettagli tipicamente gibsoniani (uso di tecnologie frammisto a quello di droghe, hacker contrapposti ai programmatori delle multinazionali, riferimenti continui al mondo giapponese, ambientazione periferica e degradata e così via). Niente male, insomma, se si considera la rarità della circostanza (il cinema cyberpunk è un sottogenere delle fantascienza, in voga quasi esclusivamente negli anni Novanta), e che sia un film italiano lascia il segno. Un cinema evocativo, profetico, accattivante, coinvolgente, e che è stato pure accusato di semplicismo nella trama – un assurdo, se si pensa che il limite più grosso di questo tipo di film risiede proprio nell’eccessiva stratificazione della narrazione (è un limite tipicamente gibsoniano, peraltro).

    Le tematiche di Nirvana sono molto attuali oggi: si parla di ricordi impiantati all’interno di banche dati, persone che vivono ricordi di altri (tema anche questo archetipico), di intelligenze artificiali potenzialmente aggressive, di vite che si ripetono come in un videogame, del quale uno dei personaggi assume consapevolezza della propria esistenza. E c’è l’ambientazione italiana, con tantissimi attori caratteristi (da Bebo Storti a Paolo Rossi), in un ruolo abbastanza insolito e gradevole rispetto alla media. Il viaggio conclusivo di Jimi nel mondo virtuale per manomettere il sistema è epocale soprattutto perchè la regia ha reso in modo perfetto il senso della sua battaglia tecnologica (che è prima di tutto mentale, poi fisica). Non c’era tutto quello che offrono le tecnologie oggi, ma molte cose sono state effettivamente ben previste (il metaverso, la realtà aumentata, le intelligenze artificiali manipolative, l’uso di internet come una droga che è un leitmotiv gibsoniano puro).

    E per fortuna a nessuno è venuto in mente di far dire ai personaggi termini avanguardistici come jackato e zigoviaggiato (per i soliti pignoli è bene ricordare che il termine originale di Strange Days era filoviaggiato). Perchè il pregio principale di questo sottovalutato (e ingiustamente maltrattato) film di Salvatores sta proprio nel suo mantenersi in equilibrio tra narrazione e azione, tra misticismo e simbolismo, senza mai eccedere nell’uno o nell’altro. E per una fantascienza cyberpunk è sicuramente qualcosa di essenziale.

    Con buona pace di chi, ancora oggi, non riesce proprio a stare dentro questo tipo di film, e che potrebbe ripartire da qui per riconciliarsi con quelle tematiche e (se possibile) riflettere sulle nuove tecnologie.

    Cast

    • Christopher Lambert nel ruolo di Jimi Dini
    • Sergio Rubini nel ruolo di Joystick
    • Diego Abatantuono nel ruolo di Solo
    • Stefania Rocca nel ruolo di Naima
    • Emmanuelle Seigner nel ruolo di Lisa
    • Amanda Sandrelli nel ruolo di Maria
    • Claudio Bisio nel ruolo di Red Rover
    • Gigio Alberti nel ruolo di Dr. Ratzenberger
    • Antonio Catania nel ruolo di Venditore di Paranoia
    • Ugo Conti nel ruolo di Turista Siciliano
    • Leonardo Gajo nel ruolo di Gaz-Gaz
    • Silvio Orlando nel ruolo di Receptionist Indiano
    • Paolo Rossi nel ruolo di Joker
    • Baskaran Pillai nel ruolo di Il Guru
    • Bebo Storti nel ruolo di Uomo in meditazione
    • Alessandro Cremona nel ruolo di Poliziotto
  • I love you Baby Reindeer, sent by my iPhone

    Quando una serie tv diventa in brevissimo tempo un cult è perché sa toccare le giuste corde con perizia. Perché è perfettamente figlia del suo tempo. Un tempo sgrammaticato e iperconnesso. Proprio come Martha Scott, la stalker del comico Donny Dunn, che diventa per lei Baby Reindeer, Piccola Renna.

    Sappiamo già che ciò che si narra è ispirato a fatti realmente accaduti e che la stalker reale, guarda un po’, sta pensando di citare in giudizio l’autore/attore Richard Gadd, perché con la sua opera sarebbe lui a vestire ora i panni dello stalker.

    Non voglio tediare nessuno con un’inutile sinossi a rischio spoiler, vorrei invece offrire qualche considerazione che mi proviene dalla mia professione, che è quella di psicologa.

    Raccontando la sua storia nuda e cruda, senza lesinare i retroscena e le sottostorie ancor più nude e più crude, Richard Gadd fa ciò che ogni buon psicologo del 2020 esorta caldamente a fare per trovar salvezza. E cioè “Essere vulnerabile”. E infatti la salvezza la trova eccome, sia come essere umano, sia come professionista dello spettacolo, a cominciare dai palchi di stand up comedy per finire in bellezza con una tra le più gettonate serie targate Netflix.

    Essere vulnerabile, leggi anche “mostrarsi in tutta la propria vulnerabilità”, lo salva e lo riscatta dalle dipendenze: quella da sostanze e quelle affettive. Si smarca così da un losco figuro abusante (e non vi dico altro) e si smarcherà pian piano dalla morsa venefica, eppure anche morbosamente godibile talvolta, della sua stalker. Insomma, se non ho più paura dei miei segreti, se sono disposto a parlare con chiarezza delle mie scelte più discutibili, se riesco a confessare ai miei genitori chi sono davvero, sono libero. Libero dalle minacce, libero dai sensi di colpa, libero dai rimorsi. Libero da chi mi tiene in pugno e vorrebbe inguaiarmi. Forse anche libero da me stesso. Questa è una delle più grandi lezioni che ci offre Baby Reindeer.

    Ma Richard Gadd va oltre. Si mostra così vulnerabile da cercare nei suoi stessi atteggiamenti e comportamenti quei fattori che hanno reso possibile l’aggancio della vittima al suo stalker. No, non si tratta di victim blaming, c’è differenza. Scaricare la colpa sulla vittima è operazione bieca e manipolatoria: non è la stessa cosa di analizzare cosa nel nostro fare (o nel nostro non fare)  contribuisce a innescare e mantenere una relazione malsana. E lui questa analisi la fa e ce la porge senza sconti. Si mette in discussione fino in fondo. Anche qui una lezione per niente banale.

    E per niente banale è la centralità della tecnologia in tutta questa storia. Si parte dalle email per passare agli sms e ai lunghissimi e innumerevoli vocali che Martha manderà quotidianamente al suo Baby Reindeer, che passerà quasi tutto il suo tempo ad ascoltarli e a catalogarli, anche – ma non solo!- per trovare qualcosa di utile per incriminarla. Baby Reindeer è una visione coinvolgente, ben scritta e recitata assai credibilmente, che ci mette in guardia da come può cambiare la vita in una sera soltanto, offrendo un tè alla persona sbagliata.

  • Unfriended: tra horror, webcam e social network

    Una videochat collettiva tra amici del college degenera, non appena un misterioso account si aggiunge alla conversazione, minacciando e seminando il panico.

    In breve. Per certi versi è uno dei migliori mockumentary sovrannaturali mai girati: narrazione pura, per quanto sia una sofferenza vederla relegata ad una minuscola chat, in molti passaggi, che viene puramente affidata ai social ed interamente ambientata dentro un computer (Youtube, Mac OS, Facebook, Skype come mezzi di comunicazione – e di condizionamento – del prossimo). Si lascia guardare fino alla fine, nonostante una parte visiva vagamente soffocante.

    Unfriended è l’horror ambientato dentro il computer, ovvero il Macbook Air della protagonista, Blaire: tutto inizia con la visione di un video snuff (il suicidio di una ragazza), una videochiamata al fidanzato su Skype, chiacchiere tra amici e così via. Quello che vediamo avviene sempre attraverso lo schermo della ragazza, e viene inesorabilmente filtrato dal computer. Nella videochat compare un utente che sembra un bot, immediatamente sbattuto fuori dai protagonisti, che pero’ rientra continuamente e sembra avere un atteggiamento inquietante. Dopo lo scetticismo iniziale, infatti, il villain non solo li minaccia, ma mostra di conoscere i loro segreti più imbarazzanti: video girati di nascosto, foto intime e via dicendo (se fosse una sorta di allegoria dei vari casi di revenge porn, sarebbe perfetta).

    L’idea di relegare l’intera dimensione narrativa alla chat di Skype può sembrare bizzarra, anche perchè si tratta di un film legato ai dialoghi, pochissimo all’azione (per quello che si vede, chi si muove troppo dall’inquadratura della propria webcam non avrà vita facile, nè lunga) e tanto alla parola (intesa come chat). Il punto non è tanto il come, ma il cosa: e per quanto questa presa di posizione possa sembrare fraccomoda per giustificare anche i più nefasti z-movie, è fondamentale per recepire ciò che questo mockumentary prova a trasmetterci. I cambi di scena, il montaggio, le sequenze e gli ammicamenti tra personaggi sono interamente affidati al multitasking: questo aspetto è interessante quanto originale, e va accettato a prescindere – altrimenti non si riuscirà ad arrivare alla fine senza maledire chi ce l’ha consigliato.

    Unfriended sostanzialmente funziona e tiene in tensione lo spettatore, nonostante finisca per essere paradossale (per non dire ricorsivo) che il pubblico guardi un film ambientato in un computer -usando a sua volta un computer: questo non aiuta a cogliere certe sfumature. Infatti è importante sapere che molti dettagli indispensabili per capire la storia sono affidati a minuscole chat – neanche tradotte in italiano, almeno nella versione che ho visto. Per cui, come si suol dire su La settimana enigmistica, aguzzate la vista – e in bocca al lupo, in un certo senso.

    Nonostante questo dettaglio che rende forse un po’ scomoda la visione, Unfriended resta un buon film – per quanto non sia un vero e proprio capolavoro del genere, è superiore alla media del sottogenere (che in molti casi sono riconducibili ad una sequenza senza logica di jump scares). Alla fine dei titoli di coda, per dire, nonostante le velleità forzose da film snuff e la buona caratterizzazione “spiritica” della storia, una scritta ci avvisa che tutti i personaggi citati non sono reali: insomma, abbiamo solo visto un film. Un po’ didascalico, secondo me – come a dire: ehi, abbiamo scherzato. Trovo questa cosa non proprio esaltante, e credo che questo faccia sospettare che sono passati i tempi in cui Wes Craven, con i suoi feroci saggi cinematografici homo homini lupus, era in grado di spaventarti fin dalla prima scena, anticipandoti che avresti visto “una storia vera” (che poi non era tale) e soprattutto facendotelo credere per decenni. Del resto qui, oggi, siamo su Facebook – e siamo più superficiali, sexy, presunti interessanti, meno interessati a queste storiacce e più ricchi di pregi di quanto vorremmo credere. Mi viene in mente anche un film più recente (sempre con la pretesa di essere una storia vera) quale Antrum, il quale cerca addirittura di convincere il pubblico che guardarlo possa materialmente nuocergli. Il tutto a testimonianza di come certo horror moderno debba, per forza di cose, prendersi sul serio, anche a costo di risultare greve o stucchevole. Per questo motivo, in definitiva, tantissimi parleranno per anni del film di Amito e Laicini, mentre probabilmente Unfriended, anche per questo suo auto-disinnescarsi, finirà per essere meno evocato e citato.

    Quello che non bisognerebbe fare, peraltro, è sopravvalutare lavori del genere (cosa che una certa critica nerdy tende a fare), quanto relegarli ad una più corretta dimensione sperimentale, quella di un horror che prova legittimamente ad aggiornarsi secondo le nuove tecnologie, con il rischio (consapevole, credo) di far venire il mal di mare allo spettatore. Per chi è abituato alle coreografie di Cronenberg e alle trovate di Mario Bava questo lavoro potrà sembrare fuori dal mondo, ma cambiano i tempi: se prima il mockumentary era The Blair Witch Project, oggi è probabilmente coerente (per non dire giusto) che il cinema dia spazio all’era social, e ne mostri le degenerazioni in questi termini. Se la mettiamo su questo piano, a questo punto, bisognerebbe per coerenza rivalutare (tanto per dire) Il cartaio di Dario Argento, che a certe soluzioni, come quella di mostrare gli omicidi in diretta webcam, era arrivato già nel 2004; opera pero’ – quest’ultima – ritenuta quasi unanimamente debole, proprio per via delle dinamiche argentiane più vivide sacrificate, in un certo senso, dai pochissimi (per l’epoca) pixel di una webcam.

    In Unfriended non sarebbe dispiaciuta un’alternanza frenetica (alla Rob Zombi, per capirci) tra scene dal vivo – magari in presa diretta – e videochat, ma rispetto comunque la coraggiosa scelta del regista, e devo riconoscere che gli spunti positivi non mancano: Unfriended offre, tra uno spavento e l’altro, una riflessione seria sul cyberbullismo, su come vivere il sesso online, sui rapporti “virtuali” e sul modo facilone di intendere internet da parte di molti giovani di tutto il mondo. Nonostante il taglio giovanilistico, gli ammiccamenti iniziali al cyber-sex ed alle goliardate alla Porky’s, la struttura narrativa è molto solida, visto che la situazione assurdamente claustrofobica tra i protagonisti offre l’occasione per metterne alla prova piccole ipocrisie, segreti e reali rapporti interpersonali. Forse Argento, all’epoca, non aveva abbastanza tecnologia per esprimersi (non ho trovato dati precisi in merito, ma con una webcam difficilmente si poteva andare oltre i 640×480 px), e sicuramente l’intuizione è stata giusta anche lì ed andrebbe, quantomeno, riconosciuto apertamente anche dalla critica.

    Unfriended (come l’originalissimo Cam, il sostanzialmente simile Smiley e mi viene in mente anche la bella trilogia di V/H/S) va relegato con massimo rispetto possibile all’indie horror a basso costo, riservato ad una nicchia che riusciremo ad apprezzare e capire completamente tra molti anni (forse), un po’ come è successo con la riscoperta dei b-movie anni ’70 ed ’80 da parte di Tarantino e Rodriguez.

    Sarà interessante scoprire, nel frattempo, come un lavoro del genere possa essere preso a modello per sviluppare qualcosa di nuovo che, ad oggi, è impossibile da immaginare: un Tron ambientato nel dark web? Un War Games attualizzato con smartphone? Un Brazil in cui le persone saranno schiavizzate da una tecnologie cloud? Anche solo per queste suggestioni, Unfriended meriterebbe di essere visto almeno una volta nella vita.

  • Hardware – Metallo Letale è la visione ansiogena del nostro millennio

    Regia: Richard Stanley

    Sceneggiatura: Steve MacManus, Kevin O’Neill, Richard Stanley

    Cast: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch

    Anno: 1990

    La terrà tremerà, e le masse avranno fame; ogni genere di dolore vi attende. Nessuna carne sarà  risparmiata.

    Personaggi di Hardware

    Come previsto la legge sul controllo delle nascite è stata approvata, ed entrerà in vigore dal primo dell’anno. 

    Moses è il protagonista, piuttosto atipico, di questa storia: per quanto non abbia nulla di apparentemente diverso dal protagonista maschile che vediamo in media dentro quasi ogni film, mostra alcuni lati oscuri della propria personalità. Inevitabile: il mondo è corrotto, cambiato, irreversibilmente inquinato, cinico, insopportabile, e non si poteva non includere un qualche contagio emotivo. Possiede una mano meccanica, una protesi che gli è stata impiantata a causa di un incidente e che riesce a muovere autonomamente.

    Lo spirito più cyberpunk del film è probabilmente espresso (al netto delle sequenze di combattimento uomo -macchina, che sono comunque numerose, molto scure come tonalità e quasi sempre cruente)  dalla scena della doccia con Jill, in cui viene esibito chiaramente il dettaglio della protesi dell’arto destro, innestato per sempre nel suo organismo. Shades è la controparte di Moses, abbastanza sulla falsariga di un personaggio puramente gibsoniano (ha una dipendenza da allucinogeni) e ne rappresenta una sorta di co-protagonista.

    Jill è un’artista creativa e indipendente, che lavora su particolari sculture meccaniche guidata da un’idea singolare: usare ferraglia trovata in giro per il mondo e farle assumere forme organiche, più vicine possibili a quelle degli esseri viventi. Che la meccanica fatta di ferraglia riciclata possa costituire una forma umana, o quantomeno biologica, è il sogno più profondo dell’era in cui è ambientato il film, ammesso ovviamente che i confini tra i due non siano nel frattempo diventati labili. Il personaggio esprime per tutto il film creatività e sensualità in eguale misura, facendone sfoggio in diverse occasioni. È un personaggio significativo anche perchè, in un momento specifico del film, afferma di non volere figli, ergendosi come anti-eroina indipendente e suscitando il fastidio di Moses.

    Lincoln è il vicino di casa di Jill, cinico e maschilista,  ossessionato dalla donna al punto di aver installato un telescopio a infrarossi in casa per spiarla: vede tutto, è un panottico umano in piena regola e si spingerà ad andare più volte a casa sua. Per quanto possa sembrare un personaggio secondario è, in effetti, uno dei più carichi di significato del film, in quanto rappresenta lo spettatore, il suo guardare per definizione, che sarà punito da un Super Io meccanizzato e implacabile nel modo più atroce. È il simbolo di ciò che i social network, per certi versi, sono diventati per noi oggi: pura ossessione voyeur regolamentata dalla tecnocrazia.

    Il misterioso Nomade è, ancora una volta, un personaggio simbolico: si nutre della situazione contingente, vaga nel deserto a caccia di frammenti di androidi da rivendere sul mercato e guadagnarci. Rappresenta probabilmente l’istanza più ambientale del film, se vogliamo, in quanto è causa della storia, la apre e la chiude agendo da autentico mastro burattinaio. Viene interpretato dal cantante dei Fields of the Nephilim, Carl McCoy .

    Mark 13: forma bio-meccanica auto-indipendente dotata di intelligenza artificiale

    Trama

    È Natale a New York, ed è ora di ricongiungersi con amici e parenti: l’unico dettaglio è che ci troviamo in un prossimo futuro, l’America è diventata un gigantesco deserto e la civiltà è quasi regressa allo stato primordiale. In un mondo contaminato dalle scorie nucleari, dal disastro climatico e da una politica sempre più cinica e indifferente, si muovono vari personaggi: un misterioso nomade a caccia di pezzi di robot da rivendere al mercato nero, un viaggiatore dotato di una protesi meccanica (una mano fatta di metallo), una scultrice che crea lavori su commissione sfruttando ferraglia di seconda mano, un proto-hacker che scopre che alcuni dei pezzi di androide che possiede sono, in realtà, armi militari avanzate. Stiamo parlando di Hardware di Richard Stanley, fantascienza d’epoca datata 1990: una fantascienza che deve parecchio all’horror, e che dall’horror prende ispirazione per le ambientazioni, il mood ed il ritmo generale (Stanley è fan dichiarato di Dario Argento, e racconta di essersi ispirato ai suoi film della prima era, oltre che a Deliria di Michele Soavi). Non mancano le suggestioni legate agli innesti metallici nei corpi umani, cosa che può avvenire in senso sia benevolo che malevolo: tali suggestioni sembrano pesantamente condizionate da alcune sequenze di Tetsuo, uscito nelle sale qualche mese prima di Hardware.

    Hardware che non è, peraltro, uno dei film di fantascienza più noti al mondo, ma rientra a pieno titolo (e nel miglior senso possibile) nel panorama dei b-movie: le tematiche che tratta sono ancora attualissime, vivide, per quanto si possa parlare di una singolare retro-fantascienza, che deve parecchio al thriller/horror a livello di forma. I temi che tocca sono tipici della sci-fi più di concetto, le allegorie sono numerose ma non si tratta neanche della fantascienza filosofico-saggistica alla Cronenberg, per intenderci. Il tema del film è quello della rinascita, vista in modo originale attraverso gli “occhi”, la “percezione sensoriale” digitalizzata di un androide costruito segretamente come arma militare, che viene inavvertitamente riassemblato per poi rinascere, auto-alimentarsi, rigenerarsi e auto-ripararsi. È l’epitomo della tecnologia che non muore mai, è la macchina che non sente dolore, esegue freddamente il proprio compito, con esito inevitabilmente positivo: sia che si tratti di salvare una vita umana con la chirurgia robotizzata che, al contrario, di uccidere gelidamente un essere umano. È la macchina che – quando finalmente si spegne – induce il nostro sollievo, per quanto non possa aver razionalmente provato dolore nel morire.

    Il cuore della trama ruota attorno all’androide, inizialmente scambiato per un semplice addetto alla manutenzione, che si rivela essere il feroce MARK 13 da combattimento. Un androide che si trova in casa della vittima e che si “sveglia” dal torpore per ricominciare ad uccidere: incredibile come quella che era soltanto una suggestione d’epoca possa tramutarsi, oggi, quasi in una minaccia concreta. Nei tempi di Alexa e dei robot avanzati della Boston Dynamics, questo ed altro. Il riferimento al Vangelo di Marco è il tocco di tecno-misticismo del film, il quale assume un significato profetico e, ancora una volta, allegorico: “La terra tremerà e le masse avranno fame; questi dolori vi aspettano, e nessuna carne sarà risparmiata.” è un chiaro riferimento all’intreccio, alla più classica delle profezie autoavveranti: il mondo è allo sbando, ma questo solo perchè siamo stati noi a volerlo.

    Hardware è una gemma avvenieristica novantiana, un unicum assoluto al netto di un doppiaggio italiano forse un po’ grossolano, ma che resta di culto anche perchè il regista non esita a esporre le proprie riflessioni, soprattutto nella parte conclusiva del film, dove MARK 13 diventa una metafora del potere oppressivo, del potere che manipola l’opinione pubblica e sacralizza l’idea di utilizzare gli automi per il controllo delle masse. L’idea alla base del film, peraltro, presuppone un’invasione di androidi finanziati dal governo su larga scala per ridurre la presenza umana e porre un limite alla sovrappopolazione mondiale, all’epoca una delle più grandi preoccupazioni che l’intreccio ha contaminato, neanche a dirlo, con le paure appena vissute da Guerra Fredda. Estremizzando, si potrebbe immaginare un mondo a venire interamente presenziato dalle macchine, in cui l’uomo possiede un ruolo sempre più marginale e che realizza la filosofia accelerazionista formulata in particolare da Nick Land, nella sua accezione più apocalittica. Come al solito, la fantascienza di ieri è diventata neanche troppo difficilmente l’eventuale ipotesi di complotto di domani.

    MARK 13 è, dal canto suo, un androide quasi più feroce di Terminator, subdolo e imprevedibile, un insetto letale che ti ritrovi in casa e non riesci a mandare via, e sei ancora più terrorizzato dall’idea di ucciderlo a tua volta. Hardware esprime l’eterna lotta uomo-macchina con spirito pioneristico e coraggioso, e facendo ricorso a scene quasi sempre nella semi oscurità, scelta che ha reso cult l’opera e, per dirla tutta, abbastanza insopportabile per alcuni spettatori. Una lotta che, come sappiamo, continua implicitamente fino ad oggi, e che abbiamo probabilmente interiorizzato da allora.

    La TV del futuro

    In Hardware – Metallo letale troviamo un mondo contaminato dalle radiazioni, per cui le trasmissioni del futuro si sono adeguate all’andazzo: telegiornali che annunciano la morte di centinaia di persone come se nulla fosse, si vedono pubblicità kitsch di carne non radioattiva e predicatori religiosi che si augurano pubblicamente di poter schiacciare tutti gli hippie e i beatnik. Ancora una volta, profezia del passato che si auto-avvera nel presente, nella realtà in cui viviamo, col virtuale del film che è diventato in gran parte realtà. La rielaborazione mediatica fatta da Stanley vede tra gli altri Iggy Pop che interpreta un grottesco speaker radiofonico che ironizza cinicamente sulla sorte sciagurata del genere umano.

    Da un punto di vista tecnologico, questa fantascienza di inizio anni Novanta presenta varie primizie tecnologie: si lavora ancora con i circuiti in voga fino agli anni Ottanta, ma si prevedevano sia le videochiamate che la vera e propria domotica, ovvero elettrodomestici programmabili dall’uomo. Per certi versi MARK 13 assume quasi la valenza di un elettrodomestico “impazzito” perchè ritenuto innocentemente tale. L’interpretazione della sua crudeltà innata, a mio parere, non va intesa in senso letterale, semplicistico ed esternalizzante: non è la macchina che si ribella all’uomo, bensì è l’uomo ad averne sottovalutato la portata.

    Le macchine non hanno alcuna fantasia, eseguono schemi fissi.

    Il telescopio

    Hardware potrebbe tranquillamente definirsi un film retro-futurista: questo per via del curioso connubio tra tecnologie elettro-meccaniche e scenari futuribili, i quali oggi appaiono più minacciosi che mai. Questo perchè la rovina del mondo è stata determinata dalla siccità che ha reso mezzo mondo un deserto, dal cambiamento climatico che ha costretto i tassisti della città a dotarsi di barche, da una guerra nucleare che ha contaminato radioattivamente la terra: sono le preoccupazioni che viviamo ogni giorni, inesorabili, a cui assistiamo spesso inermi, deprivati dell’idea di una qualsiasi reazione.

    Il voyeurismo di Hardware

    La società di Hardware non è solo degradata, oscura e post-apocalittica: è anche una società in cui guardare è un piacere feticistico che sostituisce, in molti casi, il contatto fisico interpersonale. Le radiazioni rendono i contatti tra estranei poco consigliabili (lo vediamo quando Jill accoglie sss inizialmente con diffidenza, sottoponendolo a scansione), per cui guardare con un telescopio come fa il personaggio di sss evoca due aspetti: quello legato al voyeurismo e al cybersesso, naturalmente, ma anche ad una forma di stalking della vittima, che qui viene “profetizzato” nel momento in cui il vicino guardone bussa al videocitofono di Jill mostrando solo un occhio, dopo essersi eccitato a spiarla nell’intimità.

    Sono aspetti, peraltro, destinato ad auto-avverarsi ancora nel nostro presente: le webcam che subiscono attacchi informatici e diventano strumenti per spiarci nell’intimità, il sesso a distanza offerto dalle sex worker nel periodo della pandemia, la minimizzazione mediatica della complessità delle problematiche politiche, sociali e ambientali in nome della divina audience (che oggi rivive sulla pelle di ognuno, rendendoci narcisisti sui social network).

    Interpretazione e spiegazione del film

    Non sembra casuale, a questo punto, che il Super Io robotico (figurativamente rappresentato dall’androide MARK 13 programmato per sterminare il genere umano, iniettandolo un veleno che uccide all’istante) faccia giustizia sull’Es perverso e corrotto del voyeur, mentre l’Io di Jill assiste inerme alla macabra esecuzione. È la rivalsa simbolica della tecnocrazia sul genere umano, ormai sregolata ad ogni latitudine (da quella politica a quella sociale e sessuale), e si erge a spaventoso monito sulle nostre esistenze fino ad oggi. Possiamo – e dovremmo – accettare il progresso tecnologico, perchè opporsi significa ignorare gli aspetti positivi e più progressisti, concedendoci tragicamente in pasto alla macchina.

    Al tempo stesso, poi, non possiamo ignorare le profezie macabre di Stanley, costruendo un mondo nuovo in cui l’umano abbia il proprio posto nel mondo senza mai cedere agli istinti egoistici di dominio sull’altro, alle pulsioni guerrafondaie di ogni ordine e grado nonchè, naturalmente, alla distruzione programmatica dell’ambiente in nome del capitalismo.

    Cos’è il robot Mark 13

    Mark 13 è un’arma robotica progettata per la guerra, che si trova accidentalmente attivata e riattivata in un mondo desolato e decadente. È un monito potente a fare attenzione alla tecnocrazia, che squillava con vigore già all’epoca.

    Il Mark 13 è un’entità robotica aggressiva e apparentemente inarrestabile, creato con lo scopo di uccidere l’uomo per ridurne la capacità di riproduzione, anche grazie ad una specifica legge per il controllo delle nascite. Il robot incarna la paura dell’eccesso tecnologico e delle conseguenze negative della creazione di armi avanzate che possono sfuggire al controllo umano.

    C’è anche l’idea paranoica – che oggi è diventata ipotesi di complotto, ancora una volta – che il governo abbia deciso di risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale ricorrendo ad una serie di robot killer, i quali possano dare fine al genere umano e rimpiazzarlo con macchine (come nella visione apocalittica espressa dal primo Nick Land, per intenderci).  L’unica salvezza, ovviamente, è non perdere la propria umanità. Nel tentativo di accelerare l’evoluzione sociale attraverso una catastrofe pianificata, il governo concepisce il Mark 13 come un’arma di distruzione di massa in grado di annientare le masse sovraffollate.

    Questo robot letale viene attivato in modo deliberato e guidato verso le zone più densamente popolate del pianeta, dove svolge un ruolo chiave nell’implementazione del genocidio, e il sospetto viene alimentato da uno dei personaggi mediante un versetto biblico (Marco, 13:20; nessuna carne sarà risparmiata, citazione che possiamo leggere all’inizio del film).

    Musicisti presenti nel film

    Tra gli ospiti speciali del film ci sono alcuni musicisti:

    1. Iggy Pop: il disc jockey radiofonico nel film.
    2. Lemmy Kilmister: il tassista che sfoggia “Ace of spades” nell’autoradio.
    3. Carl McCoy: Il frontman della band goth Fields of the Nephilim appare nel film nella veste del Nomade post-apocalittico.

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