Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.
Una casa utilizzata come manicomio viene rimessa in vendita, 20 anni dopo, dall’unico erede rimasto; contemporaneamente un killer internato altrove riesce a scappare, e non sembra gradire la presenza di ospiti nella casa…
In breve. Proto-slasher molto interessante, oscuro e sinistro: archetipico di un certo modo di fare horror tra personaggi, scenari e situazioni tipicamente americane. Un cult molto valido e, nel suo genere, da riscoprire ancora oggi.
Girato con circa 295,000 dollari, è noto con svariati titoli (Death House, Night of the Dark Full Moon, Blutnacht – Das Haus des Todes); Silent night, bloody night, nonostante non sia mai stato doppiato in italiano, è uno di quegli horror seminali, che fanno della storia intricata e delle riprese in soggettiva del killer uno dei propri punti di forza. Se il tono è quello classico dell’apparente normalità di persone comuni, capaci di nascondere i peggiori e più macabri segreti, in questo il film di Gershuny non fa eccezione, anzi si pone in modo primordiale rispetto ai successivi film su questa falsariga. La sua originalità e la sua narrazione dal punto di vista di Diane (), figlia dello sceriffo della città, sono ciò che riescono a renderlo una piccola e poco conosciuta perla del genere. Se nella storia sono evidenti echi quasi argentiani (un passato oscuro da ricostruire, personaggi che non sono quello che sembrano e così via), ancora più clamorosa è la scelta della soggettiva sull’assassino e le sue inquietanti telefonate, che evocano molto da vicino quelle di Black Christmas di Bob Clark (che uscirà solo un anno dopo). Al tempo stesso, Silent night, bloody night non è semplicemente un horror di Natale (tale componente è quasi accidentale, in effetti, rispetto all’intreccio), nè un banale body counter di omicidi senza un vero filo logico, ma si basa su una storia ben ritmata, credibile, ben congegnata e – anzi – quasi insolitamente complessa per un film del genere.
Silent night, bloody night si vide nei drive-in americani per tutti gli anni ’70, per poi diventare di pubblico dominio (formalmente è uscito come Zora Investments Associates) ed essere riscoperto negli anni ’80, anche grazie allo show televisivo americano “Elvira’s Movie Macabre” che ne parlò in qualche puntata. Noto come horror natalizio, come dicevo anche prima il periodo in cui è ambientato è abbastanza relativo, anche se ovviamente contribuisce a costruire un gioco di richiami e suggestioni e, in definitiva, rendere più spaventoso il plot: del resto anche Profondo Rosso iniziava nei pressi di un albero di Natale, ma restano in pochi a ricordarlo per questo motivo.
La narrazione viene inizialmente affidata a Diane Adams, la figlia dello sceriffo che racconta la storia come un flashback, quindi dopo averla vissuta personalmente. La storia è legata alla vendita di una vecchia casa, appartenuta al misterioso Butler (morto ufficialmente per ustioni accidentali), di cui il nipote non sembra sapere nè aver voglia di parlare. Sarà proprio lei ad interessarsi attivamente alla vicenda, dopo che un nuovo omicidio è avvenuto nella stessa casa ad opera di un killer che sarà svelato solo nel finale. Un film seminale, influente per buona parte dell’horror successivo, e con un suo senso ed identità: da riscoprire ancora oggi, con l’unica pecca che non sia disponibile in italiano.
Il film in compenso è di pubblico dominio, ed è disponibile gratuitamente su Youtube.
Diabolik ed Eva Kant si ritrovano calati in una nuova avventura contro l’ispettore Ginko, in una veste inedita e dai risvolti imprevedibili.
Diabolik – Ginko all’attacco si richiama parecchio al suo predecessore, Diabolik, con l’unica sostanziale differenza di aver cambiato l’interprete protagonista (da Luca Marinelli si passa Giacomo Gianniotti). Il resto non è cambiato (gli interpreti principali, con l’aggiunta di un intrigante Alessio Lapice nella parte di Roller e la presenza pacata e raffinata di Monica Bellucci): l’impianto è quello tipico del fumetto delle Giussani, anni 60 sobri e casti quanto ricchissimi di colpi di scena: in questo caso, peraltro, si è scelto un soggetto ancora più accattivante del precedente, quanto forse leggermente prevedibile nelle note finali. Diabolik è ossessionati dai furti di gioielli e pietre preziose, e la sua mania fa il pari con quella di Ginko di volerlo catturare: entrambi, persi nella rispettiva ossessione, trascurano gli affetti personali, e sembra proprio questo l’autentico, duplice motore della storia.
Una storia che rinnova – di nuovo – il mito creato su carta, amatissimo dai sui lettori e che mai tanta fortuna aveva sullo schemo (impossibile non citare il Danger – Diabolik di Mario Bava: ma erano, chiaramente, ben altri tempi). E poi arrivano i Manetti Bros, alla luce di una consolidata esperienza nel genere (da Paura 3D al meno noto L’arrivo di Wang, lidi sui quali ci auguriamo che tornino, prima o poi) ci consegnano una nuova versione del mito di Diabolik, con la sua eleganza e scaltrezza, per una saga che è solo al secondo capitolo e che potrebbe ancora continuare. Un film che è un racconto del consacra la bellezza, a cominciare da quella dei protagonisti, ma anche quella di una regia accorta e mai banale, unita alla scelta del sedicesimo albo (che da’ il nome al film).
Diabolik è ancora una volta il Male che seduce, attrae e soggioga tutti coloro che incontra, nonostante la sua spietatezza nei confronti degli avversari, perennemente diviso tra la consacrazione dell’amore romantico (di cui questo film è pervaso, forse anche più del capitolo precedente) e la narrazione di una singolare storia di vendetta: quella di Eva nei suoi confronti, tradita nel momento del bisogno, artefice del destino della storia. Una vicenda che, in questo episodio dall’andamento fluido e gradevole, vedrà Diabolik orfano di ciò che lo ha reso potente: il suo nascondiglio è stato violato dalla polizia, sulle prime, spiazzando lo spettatore fin da subito, mentre la sua fidata fabbrica di maschere (qui usate meno del capitolo precedente) è stata anch’essa monitorata dalle autoità. La vera domanda sarà capire come farà questa volta a salvarsi, per quanto gran parte del suo pubblico già conoscerà la risposta (se per pubblico intendiamo i suoi lettori), e si saprà perdere (anche se non ha letto l’albo nello specifico) nelle meraviglie dell’intreccio, dei colpi di scena e della passionalità dei personaggi (incluso Ginko, in una veste qui inedita rispetto al capitolo precedente, ed al classicissimo ed algido personaggio della duchessa interpretata da Monica Bellucci).
Henry Spencer è un tipografo che vive in una periferia industriale squallida e povera: invitato a cena dai suoceri scoprirà che la fidanzata ha appena partorito un mutante…
In breve. Forse la più cupa espressione della complessa poetica di David Lynch: un passo obbligato per la conoscenza del cinema weird da parte di fan e coraggiosi pionieri, tutti gli altri spettatori possono (devono?) fare a meno.
Eraserhead, fin dal delirante e lungo incipit con la testa reclinata di Jack Nance proiettata nello spazio, delinea l’esordio del regista statunitense in un indimenticabile bianco e nero e ne traccia, seppur in modo sconnesso, tematiche, preferenze e attenzione per le tematiche oscure. “Un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi“, un film che diventa quasi impossibile da raccontare, se non partendo dal fatto che – quantomeno nel cinema caratterizzato da elementi sci-fi o di terrore – è stato enormemente tributato nel seguito: basti pensare anche solo a due titoli, ovvero Tetsuo e Begotten, e chi li conosce capirà l’importanza di una pellicola datata 1977 di questo tipo. Gli elementi comuni con questi due non sono pochi: anzitutto la caratterizzazione fuori dalle righe dei personaggi, ma anche le ambientazioni decadenti e le tematiche, per quanto estremizzate, sostanzialmente da horror “puro” (la dimensione dell’incubo valorizzata all’ennesima potenza). Se nel lavoro di Tsukamoto il focus è pero’ incentrato sulla contaminazione uomo-macchina, mentre in quello di Merhige si narra di una sorta di mito biblico in chiave macabra, in questa circostanza si parte da una situazione apparentemente banale, di tutti i giorni. È il suo sviluppo, lentamente mediato tra incubo e realtà, a risultare del tutto disorientante per lo spettatore (ed è per questo motivo, di fatto, che ho preferito mettere in chiaro all’inizio della recensione che non è un film per tutti, anzi si tratta del più celebre rappresentante dei film weird). Al di là poi dei riferimenti, e del rischio che in queste circostanze lo stesso “non capire il film” possa risultare ingenuamente appagante (con il regista che finisce per mettere simbolicamente “sotto i piedi” il pubblico che lo osanna), Eraserhead è catalogabile come la Pellicola B-izarra per eccellenza. Non è poco, se si considerano le decine di tentativi di realizzare lavori di questo tipo in seguito, che troppo spesso sfoceranno in un linguaggio troppo autoreferenziale e “traumatico” per chiunque (con piccole eccezioni in positivo come Seguendo il sangue di Alberto Antonini). L’elemento sconnesso, irrazionale, carico di simbolismi poco ovvi o, nella peggiore delle ipotesi, un po’ vuotamente art-house– si consolida in questa sede, e non tutti gli spettatori avranno voglia e mezzi per saperlo leggere: tanto che si presentano richiami stilistici all’arte surrealista. Come se non bastasse, si ha spesso la sensazione che “Eraserhead” sia stato girato al rallentatore, imponendo lunghe pause, silenzi assurdi, pianti infantili nella notte e rallentamenti nella trama che conferiscono al tutto un ritmo che, a dirla tutta, a volte vacilla. Il film, immerso in una insostenibile scarsità di dialoghi ed intervallato da lunghissimi momenti “morti”, racconta la storia del mite tipografo Henry Spencer (il “capellone” che vediamo all’inizio). L’uomo vive in una desolata area industriale e, in uno scenario da teatro dell’assurdo (il pollo che stanno mangiando a tavola inizierà a sanguinare), i genitori della fidanzata gli annunceranno la nascita di un figlio.
Ad esprimere il messaggio principale della pellicola vi è il fatto centrale dell’opera stessa, ovvero che il nuovo arrivato è un mostruoso mutante e questo, senza eccedere in voli pindarici ed associazioni di idee troppo azzardate, sembra voler esprimere l’ansia insostenibile di Lynch per la paternità. Un concetto piuttosto profondo che in definitiva, se veicolato in questi termini, rischia di rimanere confinato in un mondo da “addetti ai lavori”: del resto ci vorranno diversi anni perchè Lynch riesca ad esprimere al massimo grado la propria arte con Strade perdute, e per l’età del film e considerando la carriera del regista ci può anche stare. Il titolo “la mente che cancella”, per la cronaca, fa riferimento all’allucinazione di Henry che sprofonda in un letto, incontra una bizzarra cantante, vediamo la sua testa staccarsi dal suo corpo – su un pavimento a quadretti – ed un bambino che la porta in una fabbrica: qui sarà presto trasformata in una gomma per cancellare, e questo è quanto. La declinazione successiva dell’intreccio, con la scoperta che il piccolo mutante è malato, delinea uno stacco e trasmette la sensazione di aver vissuto solo un incubo che si risolve, tuttavia, in quello che sembra il reale omicidio del figlio del protagonista (da tempo malato). Se nel frattempo non avete perso i sensi per la lettura di alcuni dettagli di questa recensione, sappiate che – come ogni pellicola lynchiana – esistono molti altri dettagli e richiami ad “altro” di cui la pellicola è cosparsa, e solo una visione integrale potrà soddisfare una vostra eventuale curiosità: nel frattempo mi preme aggiungere che non si tratta certamente del miglior Lynch mai visto sullo schermo per quanto, ovviamente, per l’età ed i mezzi i gioco (sempre curati e mai poveristici) “Eraserhead” meriti senza esitazione una visione. I “coraggiosi” del cinema sono stati avvisati…
Una donna si risveglia all’interno di un cubo iper-tecnologico cosparso di trappole: dall’esterno due “addetti ai lavori” stanno monitorando la situazione…
In due parole. Concettualmente vorrebbe riprendere (ed estendere) il capolavoro low-budget di Vincenzo Natali: ma il tentativo è riuscito in parte, ed il film è salvato dal baratro dell’anonimato da qualche effetto splatter sopra le righe. Coinvolge fino ad un certo punto, non dice granchè narrativamente e non c’è traccia, soprattutto, dell’atmosfera asfittica e tenebrosa del capitolo originale.
Da un punto di vista prettamente narrativo Cube Zero (nonostante le vaghe suggestioni del titolo, ed un inizio promettente) conferma una regoletta molto semplice, ovvero che i prequel riescono ad essere più inutili dei sequel, visto che – come accade in questo caso – rimpinzano un pubblico già sazio cercando di fornire spiegazioni ai limiti della forzatura. Dietro il cubo, in pratica, vi è il solito complotto dei militari, che avrebbero costruito una struttura cubica per intrappolarvi le persone e spiarle mediante avanzatissime telecamere (erano più “simpatici” quando fabbricavano zombi in laboratorio, verrebbe da dire). Un qualcosa di cui – e qui vengono i problemi – si fatica a comprendere lo scopo nonostante le spiegazioni in corso, e che fa quasi rimpiangere le violenze gratuite (tanto per capirci) dei più infimi tortureporn (il livello di graphic violence di Cube Zero è elevato, ma quantomeno in quei controversi horror c’è uno psicopatico dichiarato come fautore dei crimini).
Se la sceneggiatura di questa pellicola del 2004 è piuttosto caotica e rimpinzata di dettagli inutili (quando non confusionari: a che serve aver”firmato il consenso” da potenziale prigioniero, se tanto ti cancellano la memoria?), si potrebbe dire qualcosa di meglio sulle interpretazioni, per quanto i personaggi sembrino un mero riciclo di quelli visti nel primo episodio. Credo quindi, nonostante qualche suggestione gore e qualche dettaglio tutto sommato non malaccio, che in questo capitolo il Cube devastante e nichilista del 1997 sia diventato un concentrato di aria fritta, strutturalmente più inutile e controproducente dell’abusivismo edilizio nel deserto. E anche ragionando nell’ottica utilitarista dei cattivi, del resto, non si vede la ragione per cui si dovrebbe tenere intrappolata gente all’interno di una struttura complicatissima, per testarne chissà quali capacità o reazioni, a maggior ragione del fatto che nessuno – o quasi – sembra essere riuscito ad uscirne vivo. Tanto valeva farli fuori direttamente, oppure confinarli nel solito ospedale come avveniva in film decisamente più riusciti (e molto meno pretenziosi) quali The experiment, Asylum Blackout o Il corridoio della paura. Tanto valeva, in alternativa, spingere sugli aspetti poco noti e misteriosi del Cube, piuttosto che ammettere – come fa uno dei personaggi – che quella struttura sia stata costruita coi “soldi dei contribuenti” (sic).
Vedere l’impiegato nerd ribellarsi e calcolare mentalmente i percorsi del cubo (con tanto di animazione tridimensionale) è un innesto più da film per adolescenti che altro, e non sembra tanto cònsono allo spirito originario, cinico e simbolista della pellicola originale, della quale qui restano solo vaghi, e zoppicanti, accenni. Guardare poi i militari incappucciati che narcotizzano altre povere vittime, in quest’ottica, rischia di produrre lo stesso effetto sul povero spettatore, che più o meno dalla metà del film in poi si accorge di qualche aspetto visuale e narrativo un po’ troppo “commerciale”, e questo fa crollare quasi tutto l’impianto, troppo proteso – in altri termini – a strizzare l’occhio al grande pubblico cercando di valorizzare più la pancia che la testa (macchinazioni governative, soldati controllati mediante chip, impiegatucci che obbediscono agli ordini come bravi cagnolini ed una strategia di boicottaggio ai limiti del ridicolo).
In definitiva un film che potrebbe deludere anche il fan “cubistico” più incallito, e che rientra probabilmente nei gusti di un settore di pubblico piuttosto ristretto: quelli che guardano tutto a prescindere, che sono intimamente masochisti o che magari scrivono spesso recensioni di film.
La definizione dell’autorevole urban dictionary a riguardo della parola Pulp, difficile da tradurre in italiano, non lascia adito a dubbi: un film, un libro o una pubblicazione di altro tipo di argomento lurido e oscuro, come ad esempio un crimine. In molti casi gli argomenti di natura shockante sono affrontati come se fossero ordinari.
Lìessenza di Pulp fiction è forse tutta qui, in quelle due frasi così incisive, a patto però che non diventi uno dei tanti film più discussi che visti, come tradizione cinefila imporrebbe subdolamente. Pulp fiction va visto, rivisto e assimilato per poterne apprezzare la bellezza antica, novantiana ed ovviamente pulp.
Capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, e non per modo di dire: diventato oggetto di cult per la fluidità fuori norma, per gli omaggi cinematografici e la molteplicità di riferimenti (Rocky Horror Picture Show e I guerrieri della notte, tanto per citare i più noti). Un film costruito su riferimenti da veri cinefili, capace di stordire, appassionare, spaventare e divertire: certamente l’opera “di cassetta” forse meglio riuscita di ogni tempo da parte del regista. Un regista che all’epoca era saldamente ancorato sulla rielaborazione del cinema di genere anni 70, prima della svolta pop recente che lo avrebbe consacrato al famigerato “grande pubblico”.
La storia è sostanzialmente divisa in tre parti, e il regista ha deciso di spezzattarla e rimontarla in modo anti-casuale, stravolgendo l’ordine cronologico e riuscendo comunque a chiudere il cerchio in modo anticonvenzionale.
In fondo non ha alcuna importanza che il regista ritagli per sè una parte minima (neanche troppo rilevante per la trama), e non importa neanche troppo che ci sia un cast di tutto rispetto (John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Harvey Keitel il “risolvi-problemi” e Bruce Willis): il vero protagonista del film è il cinema amato dal regista, e declinato in decine di “salse” diverse, fatto di riferimenti – per la verità non sempre ovvi e spesso molto di nicchia.
In ordine cronologico i fatti sono i seguenti: Vince (Travolta) si procura dell’eroina da uno spacciatore (Lance), e successivamente deve accompagnare la moglie cocainomane del suo capo (Mia, Uma Thurman) a trascorrere una serata in un caratteristico locale (Jack Rabbit Slim’s). La serata si conclude drammaticamente: la donna va in overdose per aver sniffato la dose appena procurata, e Vince la riporta al suo spacciatore al fine di praticarle in’iniezione di adrenalina al cuore. La donna si risveglia e concorda di non raccontare l’accaduto al marito.
In questa fase viene fuori il “pulp” del film: dialoghi surreali, sarcastici, sul filo del rasoio ed estremizzati come da tradizione del cinema di genere. Il dialogo tra Mia e Vince, fatto di allusioni, imbarazzi ed nevrosi dei due personaggi è quasi l’archetipo dell’appuntamento tra due persone che sanno di non poter “spingersi oltre” pur essendo attratte l’uno/a dall’altra/o. Visivamente la scena più forte è quella della siringa al cuore, un capolavoro di tensione degno di Dario Argento, che Tarantino fece eseguire al contrario per rimontarla all’inverso.
Successivamente Vince, assieme al suo collega Jules (S.L. Jackson), si reca in macchina da alcuni spacciatori, i quali possiedono una valigetta appartenente al loro capo (Wallace) dal contenuto misterioso (mai chiarito dal film). Nessuno sa cosa ci fosse nella valigetta: diamanti, soldi, quello che penso che sia (cit.), Sto cazzo™️… Che importa. Ha importanza solo che ne dibattiamo ancora oggi, forse. Dopo aver discusso (e dopo essere scampati miracolosamente all’aggressione da parte di un quarto spacciatore fino ad allora nascosto), i due uccidono senza pietà tutti i presenti nell’appartamento tranne uno, che porteranno con sè: poco dopo Vince gli sparerà a morte per errore all’interno della macchina. Jules si rivolge a Jimmie Dimmick (Tarantino) per avere un luogo dove fermarsi, e contatta mediante il loro capo il celebre sig. Wolf, il risolvi-problemi, il quale riuscirà a far ripulire l’auto senza lasciare traccia.
In questa fase del film la violenza visiva (ed estetizzata) raggiunge il proprio apice, e si esaspera particolarmente l’uso del torpiloquio e del non politically-correct.Rimane nella storia la scena dell’omicidio in macchina ed il versetto biblico – inventato – recitato a memoria da Jules.
Poco dopo i due gangster vanno a fare colazione in un vicino fast-food, nel quale Zucchino e Coniglietta (coppia nevrotica di rapinatori alla Bonnie e Clyde) organizzano sul momento una rapina nel locale, facendosi consegnare tutti i soldi dai presenti. Il rapinatore (Tim Roth) incontra Jules, il quale dopo averlo affrontato a muso duro lo disarma. Alla fine decide di lasciarlo in vita, poichè l’essere sopravvissuto all’aggressione di poco prima lo ha fatto entrare in una fase mistica, che gli impedirà di proseguire a fare il gangster. Alla fine dona il contenuto del proprio portafoglio – quello con su scritto “Bad MotherFucker” – al rapinatore, che riesce ad fuggire con la compagna.
Condotto quasi sulla falsariga del celebre “Un giorno di ordinaria follia” (durante la scena della finta-rapina al fast food dell’impiegato), questa fase del film caratterizza in modo eccellente altri due personaggi, e mostra l’ inatteso spessore dei personaggi di Vince e Jules.
L’ex pugile Butch (Willis) tratta con Wallace di disputare un incontro truccato a pagamento: i suoi piani pero’ prevedono di incassare subito la somma pattuita, puntando poi su se stesso presso vari bookmaker e vincendo l’incontro, venendo meno ai patti. Nel frattempo riesce a rientrare nel motel dove lo attende la fidanzata: il giorno dopo si rende conto di aver dimenticato l’orologio appartenuto a suo padre e a suo nonno, e ritorna nel proprio appartamento a recuperarlo. Lì, pur trovando Vince ad attenderlo, riesce fortuitamente ad avere la meglio su di lui uccidendolo con l’arma che il gangster aveva lasciato sul tavolo proprio mentre usciva dal bagno.
Mentre Butch è in fuga con la macchina, fermo ad un semaforo incontra casualmente Wallace in persona, e decide di andargli addosso con la macchina ferendolo (e ferendosi) gravemente. Da qui nasce un inseguimento a piedi che culmina all’interno di un negozio, gestito dal sadico Maynard che tramortisce i due e li porta nello scantinato per stuprarli. Mentre l’amico del proprietario, il poliziotto Zed, sta esercitando violenza sessuale sull’immobilizzato Wallace, Butch riesce a liberarsi e fa fuori lo “storpio” (lo schiavetto della coppia in tenuta sadomaso). Convinto inizialmente a darsela a gambe ritorna invece sui suoi passi, scegliendo accuratamente un’arma adatta a liberare Wallace (un martello, una mazza da baseball, una motosega ed infine una katana). Trafigge così Maynard, mentre lascia la vendetta per Wallace, che si preannuncia particolarmente lenta e dolorosa, estinguendo per riconoscenza verso l’ex antagonista il suo debito precedente. Butch ritorna al motel a bordo di un chopper e fugge da Los Angeles con la fidanzata.
La parte conclusiva di “Pulp fiction” merita un posto d’onore all’interno della storia del cinema, non tanto per le citazioni sparse – tra cui evidentemente “Poliziotto sadico“, e quasi certamente qualche exploitation di nicchia di argomento sadomaso – quanto per il ritmo e lo svolgersi dell’intreccio. Probabilmente la parte migliore del film, recitata con grande spirito da Bruce Willis, e ricca di personaggi aggiuntivi e di micro-storie annesse (lo schiavetto, la tassista, la fidanzata del pugile).
Alcuni dettagli del film potrebbero globalmente spiazzare il pubblico, che potrebbe non comprendere certi riferimenti o infastidirsi per l’autoreferenzialità del regista, senza contare la miriade di dettagli – che non riporto per brevità – che arricchiscono un film di quasi tre ore (!). In realtà sono proprio questi ultimi a costituirne la base della grandezza che si è tramandata fino ad oggi, offrendoci un’opera che riesce a non far sbadigliare neanche per un attimo.
Un film che dice molto più di quanto possa raccontare una recensione, e che dipinge lo stile del primo Tarantino assieme a Le iene e Jackie Brown.
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