MIGLIORI FILM_ (32 articoli)

Le pellicole più originali, controverse o imprevedibili che siano state girate.

  • Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    La definizione dell’autorevole urban dictionary a riguardo della parola Pulp, difficile da tradurre in italiano, non lascia adito a dubbi: un film, un libro o una pubblicazione di altro tipo di argomento lurido e oscuro, come ad esempio un crimine. In molti casi gli argomenti di natura shockante sono affrontati come se fossero ordinari.

    Lìessenza di Pulp fiction è forse tutta qui, in quelle due frasi così incisive, a patto però che non diventi uno dei tanti film più discussi che visti, come tradizione cinefila imporrebbe subdolamente. Pulp fiction va visto, rivisto e assimilato per poterne apprezzare la bellezza antica, novantiana ed ovviamente pulp.

    Capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, e non per modo di dire: diventato oggetto di cult per la fluidità fuori norma, per gli omaggi cinematografici e la molteplicità di riferimenti (Rocky Horror Picture Show e I guerrieri della notte, tanto per citare i più noti). Un film costruito su riferimenti da veri cinefili, capace di stordire, appassionare, spaventare e divertire: certamente l’opera “di cassetta” forse meglio riuscita di ogni tempo da parte del regista. Un regista che all’epoca era saldamente ancorato sulla rielaborazione del cinema di genere anni 70, prima della svolta pop recente che lo avrebbe consacrato al famigerato “grande pubblico”.

    La storia è sostanzialmente divisa in tre parti, e il regista ha deciso di spezzattarla e rimontarla in modo anti-casuale, stravolgendo l’ordine cronologico e riuscendo comunque a chiudere il cerchio in modo anticonvenzionale.

    In fondo non ha alcuna importanza che il regista ritagli per sè una parte minima (neanche troppo rilevante per la trama), e non importa neanche troppo che ci sia un cast di tutto rispetto (John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Harvey Keitel il “risolvi-problemi” e Bruce Willis): il vero protagonista del film è il cinema amato dal regista, e declinato in decine di “salse” diverse, fatto di riferimenti – per la verità non sempre ovvi e spesso molto di nicchia.

    In ordine cronologico i fatti sono i seguenti: Vince (Travolta) si procura dell’eroina da uno spacciatore (Lance), e successivamente deve accompagnare la moglie cocainomane del suo capo (Mia, Uma Thurman) a trascorrere una serata in un caratteristico locale (Jack Rabbit Slim’s). La serata si conclude drammaticamente: la donna va in overdose per aver sniffato la dose appena procurata, e Vince la riporta al suo spacciatore al fine di praticarle in’iniezione di adrenalina al cuore. La donna si risveglia e concorda di non raccontare l’accaduto al marito.

    In questa fase viene fuori il “pulp” del film: dialoghi surreali, sarcastici, sul filo del rasoio ed estremizzati come da tradizione del cinema di genere. Il dialogo tra Mia e Vince, fatto di allusioni, imbarazzi ed nevrosi dei due personaggi è quasi l’archetipo dell’appuntamento tra due persone che sanno di non poter “spingersi oltre” pur essendo attratte l’uno/a dall’altra/o. Visivamente la scena più forte è quella della siringa al cuore, un capolavoro di tensione degno di Dario Argento, che Tarantino fece eseguire al contrario per rimontarla all’inverso.

    Successivamente Vince, assieme al suo collega Jules (S.L. Jackson), si reca in macchina da alcuni spacciatori, i quali possiedono una valigetta appartenente al loro capo (Wallace) dal contenuto misterioso (mai chiarito dal film). Nessuno sa cosa ci fosse nella valigetta: diamanti, soldi, quello che penso che sia (cit.), Sto cazzo™️… Che importa. Ha importanza solo che ne dibattiamo ancora oggi, forse. Dopo aver discusso (e dopo essere scampati miracolosamente all’aggressione da parte di un quarto spacciatore fino ad allora nascosto), i due uccidono senza pietà tutti i presenti nell’appartamento tranne uno, che porteranno con sè: poco dopo Vince gli sparerà a morte per errore all’interno della macchina. Jules si rivolge a Jimmie Dimmick (Tarantino) per avere un luogo dove fermarsi, e contatta mediante il loro capo il celebre sig. Wolf, il risolvi-problemi, il quale riuscirà a far ripulire l’auto senza lasciare traccia.

    In questa fase del film la violenza visiva (ed estetizzata) raggiunge il proprio apice, e si esaspera particolarmente l’uso del torpiloquio e del non politically-correct. Rimane nella storia la scena dell’omicidio in macchina ed il versetto biblico –  inventato – recitato a memoria da Jules.

    Poco dopo i due gangster vanno a fare colazione in un vicino fast-food, nel quale Zucchino e Coniglietta (coppia nevrotica di rapinatori alla Bonnie e Clyde) organizzano sul momento una rapina nel locale, facendosi consegnare tutti i soldi dai presenti. Il rapinatore (Tim Roth) incontra Jules, il quale dopo averlo affrontato a muso duro lo disarma. Alla fine decide di lasciarlo in vita, poichè l’essere sopravvissuto all’aggressione di poco prima lo ha fatto entrare in una fase mistica, che gli impedirà di proseguire a fare il gangster. Alla fine dona il contenuto del proprio portafoglio – quello con su scritto “Bad MotherFucker” – al rapinatore, che riesce ad fuggire con la compagna.

    Condotto quasi sulla falsariga del celebre “Un giorno di ordinaria follia” (durante la scena della finta-rapina al fast food dell’impiegato), questa fase del film caratterizza in modo eccellente altri due personaggi, e mostra l’ inatteso spessore dei personaggi di Vince e Jules.

    L’ex pugile Butch (Willis) tratta con Wallace di disputare un incontro truccato a pagamento: i suoi piani pero’ prevedono di incassare subito la somma pattuita, puntando poi su se stesso presso vari bookmaker e vincendo l’incontro, venendo meno ai patti. Nel frattempo riesce a rientrare nel motel dove lo attende la fidanzata: il giorno dopo si rende conto di aver dimenticato l’orologio appartenuto a suo padre e a suo nonno, e ritorna nel proprio appartamento a recuperarlo. Lì, pur trovando Vince ad attenderlo, riesce fortuitamente ad avere la meglio su di lui uccidendolo con l’arma che il gangster aveva lasciato sul tavolo proprio mentre usciva dal bagno.

    Mentre Butch è in fuga con la macchina, fermo ad un semaforo incontra casualmente Wallace in persona, e decide di andargli addosso con la macchina ferendolo (e ferendosi) gravemente. Da qui nasce un inseguimento a piedi che culmina all’interno di un negozio, gestito dal sadico Maynard che tramortisce i due e li porta nello scantinato per stuprarli. Mentre l’amico del proprietario, il poliziotto Zed, sta esercitando violenza sessuale sull’immobilizzato Wallace, Butch riesce a liberarsi e fa fuori lo “storpio” (lo schiavetto della coppia in tenuta sadomaso). Convinto inizialmente a darsela a gambe ritorna invece sui suoi passi, scegliendo accuratamente un’arma adatta a liberare Wallace (un martello, una mazza da baseball, una motosega ed infine una katana). Trafigge così Maynard, mentre lascia la vendetta per Wallace, che si preannuncia particolarmente lenta e dolorosa, estinguendo per riconoscenza verso l’ex antagonista il suo debito precedente. Butch ritorna al motel a bordo di un chopper e fugge da Los Angeles con la fidanzata.

    La parte conclusiva di “Pulp fiction” merita un posto d’onore all’interno della storia del cinema, non tanto per le citazioni sparse – tra cui evidentemente “Poliziotto sadico“, e quasi certamente qualche exploitation di nicchia di argomento sadomaso – quanto per il ritmo e lo svolgersi dell’intreccio. Probabilmente la parte migliore del film, recitata con grande spirito da Bruce Willis, e ricca di personaggi aggiuntivi e di micro-storie annesse (lo schiavetto, la tassista, la fidanzata del pugile).

    Alcuni dettagli del film potrebbero globalmente spiazzare il pubblico, che potrebbe non comprendere certi riferimenti o infastidirsi per l’autoreferenzialità del regista, senza contare la miriade di dettagli – che non riporto per brevità – che arricchiscono un film di quasi tre ore (!). In realtà sono proprio questi ultimi a costituirne la base della grandezza che si è tramandata fino ad oggi, offrendoci un’opera che riesce a non far sbadigliare neanche per un attimo.

    Un film che dice molto più di quanto possa raccontare una recensione, e che dipinge lo stile del primo Tarantino assieme a Le iene e Jackie Brown.

  • Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Film diviso in quattro episodi a se stanti, ognuno diretto da un diverso regista: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.

    In breve. Un classico che rientra nella consolidata tradizione dei film a più registi e a episodi, dalla confermata attitudine socio-politico-satirica.

    4 cortometraggi incentrati su quattro argomenti diversi: sessualità, separazione, fame e consumismo.  A ben vedere, due coppie di opposti che finiscono per creare un immediato gioco di contrasti, tra la gioia apparente del sesso alla frustrazione per la conquista fino al dramma della gelosia e della separazione. E naturalmente le psicosi moderne, da quelle indotte dal consumismo a quelle di natura sociale. Se ci mettiamo la società del boom economico allora nascente (il film è del 1963), il contesto diventa fondamentale per inquadrare l’importanza del lavoro, esattamente così come viene presentato.

    Lavoro che, per inciso, nasce da un’idea dei produttori Angelo Rizzoli, Alfredo Bini e Alberto Barsanti che decidono di chiamare il progetto Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei quattro registi coinvolti, dando ad ognuno massima libertà espressiva. In questi casi i risultati tendono ad essere altalenanti, proprio perchè manca un filo conduttore, cosa che in questo caso non succede anche perchè è relativamente agevole identificarne almeno uno (quello nichilistico, su tutti). Quattro storie contemporanee, moderne per l’epoca in cui uscirono, incentrate su una tematica sociale o politica precisa, e caratterizzate da un artista ormai rassegnato – e nichilisticamente sconfitto – dal conformismo imperante.

    Illibatezza (Rossellini)

    L’episodio di Rossellini è forse il più immediato dei quattro pur mostrando, per la verità, una tematica impegnativa: il celebre complesso di Edipo proposto da Sigmund Freud, qui concretizzato nella storia di un americano alcolizzato, che durante un viaggio di lavoro si invaghisce di una hostess italiana, iniziando a seguirla ovunque e comportandosi grottescamente come un bambino che reclama la figura materna. Sarà l’intervento di uno psichiatra a lenire le pene della ragazza, grazie alla brillante proposta di passare da un personaggio di mora dall’aria affidabile a femme fatale bionda, riconquistando il fidanzato geloso (un calabrese stereotipato che tende, tuttavia, a parlare in siciliano) e respingendo così definitivamente le asfissianti avance dell’americano. Un micro-episodio d’epoca su un boomer ante litteram, che inizia a stalkerare (diremmo oggi) la bella e giovane hostess Anna Maria, arrivando a raggiungerla nella sua stanza d’hotel di soppiatto, ed inscenando patetiche sceneggiate pur non farsi cacciare. L’effetto grottesco è garantito, soprattutto per la determinazione insospettabile della donna.

    È evidente la tematica dei tempi che stanno cambiando, delle persone radicate nella tradizione che avranno maggiori imbarazzi ad accettare il cambiamento di valori del prossima a venire Sessantotto, di una esplosiva emancipazione femminile e dell’avvento, nella società italiana, delle più classiche teorie psichiatriche e psicologiche, destinate – di lì a breve – a pervadere qualsiasi ambito.

    Il nuovo Mondo (Godard)

    Il corto di Godard è probabilmente il più filosofico e basato su sottintesi, e non è proprio immediato comprenderne il senso: lo stile narrativo si ispira alla più classica Nuovelle vague (la nuova onda del cinema francese, quella nata nel 1957), ma probabilmente c’è qualcosa anche da L’amante di Harold Pinter, una piece teatrale dell’assurdo uscita appena un anno prima (1962), nota quest’ultima per l’incipit che è passato allo storia: un marito chiede amorevolmente alla moglie “Viene il tuo amante, oggi?“, la moglie annuisce, la coppia discute l’evento come se fosse una cosa qualunque.

    Nulla di troppo diverso, in effetti, da ciò che succede tra il protagonista (di cui non sappiamo il nome) e Alexandra, una giovane donna innamorata e ricambiata dall’uomo. Viene poi mostrata la prima pagina di un quotidiano, che annuncia vari esperimenti atomici a 120.000 metri sotto la città: non erano trascorsi nemmeno venti anni dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, per cui l’evento dovrebbe fare scalpore, provocare preoccupazione. Il problema è che sembra passare indifferente alla popolazione, nessuno ne parla: questo per quanto l’evento sembri aver innescato (mediante modalità non esplicitate) una mutazione profonda, non nei corpi ma nel comportamento umano.

    È il protagonista ad rendersene conto: da’ appuntamento ad Alexandra che, presumibilmente per la prima volta, non si presenta. Informatosi presso un vicino, va a trovarla in piscina, e la vede baciare e abbracciare una persona (che poi svelerà di non conoscere affatto). Alexandra diventa così scostante, illogica, sembra smarrirsi in un vaneggiamento perenne senza capo nè coda, da’ risposte contraddittorie ed afferma più volte al compagno “io ti ex-amo“, pur accettando di rimanere a dormire da lui quella sera.

    Convintosi di un collegamento indiretto con l’esperimento nucleare (e dell’annessa disumanizzazione), l’uomo scrivere le proprie memorie, nella speranza che qualcuno dei posteri possa capirne il senso. Il film termina dopo aver mostrato la penna del protagonista prendere appunti, non prima di aver mostrato a più riprese vari parigini che attraversano la scena ingerendo delle pillole.

    Le musiche sono i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (n. 7, 9, 10, 14 e 15), e l’apocalisse è servita.

    La ricotta (Pasolini)

    Una troupe sta girando, diretta da un regista dai modi caustici (interpretato da Orson Welles), una riedizione della Passione di Cristo in chiave artistico-concettuale. Ci troviamo nella campagna romana, ed emerge da subito la figura di Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono nella scena della crocifissione. Pasolini rappresenta questo personaggio in modo simile allo Zanni portato sulle scene (e reso celebre) da Dario Fo: legato alla terra, dalle movenze grottesche, dedito ai travestimenti per avere doppia razione di cibo e, naturalmente, perennemente affamato. Dopo che il cane di una vanitosa attrice gli ha sottratto il cibo da lui gelosamente nascosto e accumulato, decide di venderlo all’insaputa della donna ad un giornalista di passaggio. C’è tempo per uno splendido siparietto tra il mediocre giornalista e il colto regista, con il primo che cerca di intervistarlo mediante domande banalotte ed il secondo che afferma la propria natura marxista, legge una poesia tratta da Mamma Roma (libro proprio di Pasolini, che l’uomo ovviamente non capisce), lo sminuisce e lo insulta con eleganza. E si arriva poi al clou della storia: Stracci viene scoperto nella grotta in cui sta accumulando il cibo, viene deriso dalla troupe ed invitato a mangiare pantagruelicamente. Col risultato che avrà un malore proprio mentre impersona il ladrone e si trova sulla croce, impossibilitato a pronunciare la battuta finale mentre il regista ne constata gelidamente la morte.

    È difficile discutere ogni singolo aspetto di questo piccolo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, intellettuale a tutto tondo che subì un vero e proprio boicottaggio, per questo corto, e si arrivò ad una condanna censoria per vilipendio alla religione. Si ebbe poi un’amnistia, ma nel frattempo il regista aveva già fatto delle modifiche definitive all’audio e alle scena. Aveva, ad esempio, dovuto cambiare la frase finale da “crepare… è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” a un più innocuo (e forse non meno significativo, in un certo senso) “non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo“, e certe sequenze considerate inopportune vennero tagliate (la versione su Amazon Video del film sembra essere, in teoria, quella senza tagli).

    La ragione della censura, del resto, sembra oggi difficilmente riconducibile a vilipendio, anche perchè se si fosse applicato questo criterio uniformemente, più della metà degli horror successivi non sarebbero mai circolati in Italia. Il problema de La ricotta è probabilmente nella sua valenza politica diretta e senza filtri, nel suo saper usare la Satira portando il sacro a livello del profano (la maschera tragicomica di Stracci, lo spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena), nelle pose plastiche degli attori sotto la croce per cui sbagliano a mandare la musica e, come se non bastasse, scoppiano tutti a ridere durante le riprese, nella sua brutale constatazione inerenti divisioni sociali sempre più nette, nel dialogo (mai abbastanza citato) tra i due attori che interpretano i ladroni, in cui quello che afferma di essere tentato di bestemmiare viene frenato dall’altro, che poi lo biasima per essere un “morto di fame” che resta, nonostante tutto, dalla parte dei padroni.

    La questione è complessa da affrontare, e ci limiteremo a scrivere che c’è una questione di irrisolti politici da sempre, a riguardo, oltre a molteplici imbarazzi e lacune che sono culminate, purtroppo, con la morte prematura del regista (nel 1975) e miriadi di teorie, ipotesi più o meno credibili e presunti complotti su come siano andate realmente le cose.

    Il pollo ruspante (Gregoretti)

    Da un lato, un sociologo ospita un convegno assieme a vari “pezzi grossi” della società (ingegneri, dirigenti, presidenti, politici), usando un laringofono per parlare – il che gli conferisce un’inquietante voce robotica. Racconta delle ultime scoperte in ambito psicologico e sociologico sull’induzione all’acquisto da parte dei consumatori. Dall’altro, vediamo un padre che firma più di venti cambiali pur di avere una TV di ultima generazione: i suoi figli sanno le pubblicità a memoria e la moglie è perennemente frustrata. I due coniugi inseguono affannosamente il Consumo: valutano di comprare un terreno che già sanno di non potersi permettere, vogliono già cambiare la televisione dopo averne comprata un’altra di recente, acquistano miriadi di prodotti inutili in autogrill, si conformano ai modi dei fast food millantando di conoscere (da cui il titolo) la differenza tra polli di allevamento e polli ruspanti. Finalmente si distaccano da quel modello malsano di finto benessere, in una doccia fredda di consapevolezza, e pensano di poter vivere diversamente. Ma è troppo tardi: Togni si distrae alla guida ripensando ai terreni perduti e muore, presumibilmente con tutta la famiglia, in un frontale.

    Si tratta dell’episodio forse più politico e sovversivo in assoluto, con un Ugo Tognazzi sempre in splendida forma, per un cortometraggio sulla perfetta falsariga di quelli visti ne I mostri oppure in Signore, signori, buonanotte.

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • The house of the devil: possessioni demoniache in salsa anni ’70

    In una notte di eclissi lunare del 1983, Samantha Hughes inizia a lavorare come babysitter per un misterioso individuo…

    In breve. Horror moderno in stile ottantiano, che non può fare a meno di richiamare infiniti epigoni del genere satanico in voga negli anni ’70 (L’esorcista, Chi sei?), lo stesso ciclicamente riveduto (e corretto) dal cinema hollywoodiano. West fa un buon lavoro (forse vagamente autoreferenziale), e riesce a svilupparlo in modo originale.

    Girato in soli 18 giorni, The house of the devil si basa su fatti realmente accaduti, senza mai citarli esplicitamente ed introducendo lo spettatore fin da subito in un clima prettamente anni 80: ce ne accorgiamo dalle prime note della colonna sonora (che evoca quasi un horror fulciano), dal tipo di inquadrature, dal modo di apparire degli attori così come dal walkman di Samantha, la protagonista di una storia semplice e – a suo modo – efficace. Studentessa da poco in affitto, si propone come babysitter rispondendo ad un annuncio trovato in strada: il contatto con l’interlocutore si rivela anomalo fin dall’inizio, ma l’apparenza da brav’uomo ed i modi garbati convincono la ragazza ad accettare il lavoro, peraltro per una cifra quadruplicata rispetto al normale. La situazione – troppo bella per essere vera, come le fa notare l’amica – degenera paurosamente verso conseguenze disastrose: girovagando per la casa, Samantha (ansiosa, squattrinata e sostanzialmente ingenua) si troverà coinvolta nei rituali di una insospettabile (?) setta satanica.

    Se la prima parte del film serve solo a creare i presupposti (vive di atmosfere tese e mai esplicitate, in altri termini, se non per un singolo colpo di scena – feroce quanto piuttosto “telefonato”), è solo nella seconda parte di The house of the devil (gli ultimi 20 minuti, che è dove si concentra il clou) che si scatena la componente prettamente horror. Componente che si scatena con una singola, eloquentissima inquadratura che svela d’un colpo la verità sulla storia, iniziando con una serie di flash ed una fila di individui incappucciati, pronti ad iniziare un rituale di sangue. Lo splatter e la tensione sono ben realizzati e la regia è solida, fino ad un finale (che finisce per ricordare quello, sulfureo, di The Omen) su cui il gusto personale credo finisca per farla da padrone. La ragazza dai lunghi capelli, in veste bianca e ricoperta di sangue, del resto, sembra una citazione (forse involontaria) dei fasti argentiani di Suspiria.

    Se i presupposti per parlare di buon film ci sono tutti, non si può fare a meno di osservare come si tratti di un film del 2009, ricostruito nelle atmosfere ed ambientazioni con precisione chirurgica da Ti West, che sfoggia così un’ottima prova. Nonostante l’appartenenza agli anni ’80 possa sembrare forzosa (o addirittura un difetto) da parte di qualcuno del pubblico, ciò sembra avere un suo perchè. Del resto, il 1983 non è semplicemente un orpello da sfoggiare senza motivo, ma fa parte integrante della storia, la contestualizza; questo a mio avviso rende questo film – approcciato in modo quasi “documentaristico” all’epoca – una vera piccola perla dell’horror più o meno recente. Ambientandolo al giorno d’oggi, tra cellulari e connessioni ad internet, difficilmente avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Del resto, a dirla tutta, non si può fare a meno di osservare che quei presupposti iniziali – in cui succede poco, in effetti – sono forse tirati troppo per le lunghe.

    Come accennato all’inizio, infatti, il film si basa su fatti reali, o meglio su quanto dichiarato dalla didascalia iniziale: “Durante gli anni ’80, piu’ del 70% degli adulti americani credeva nell’esistenza di culti satanici illegali; un ulteriore 30% individuò negli insabbiamenti da parte del governo l’insufficienza di prove in merito“. Come a dire: anche se non è vero, e se non ci sono mai state prove (i processi da panico del satanismo si conclusero tutti con assoluzioni), la paura rimane irrazionalmente legata alle menti di certuni. Nelle intenzioni di Ti West (che ha interamente scritto, diretto e montato questo film) propongono una riflessione seria ed uno uno spaccato d’epoca: certo romanzato, raccontato come horror, ma pur sempre legato alla cronaca. Poco conta, comunque, che Samantha abbia realmente vissuto o meno l’esperienza raccontata, perchè lo spirito continua da Non aprite quella porta.

    Girato volutamente in 16mm (formato must degli anni 80) al fine di conferire maggiore realismo all’ambientazione, sembra voler compostamente emulare i thriller / horror dell’epoca, tanto che venne anche commercializzato come combo VHS/DVD (non in Italia, a quanto pare). I frequenti primi piani alternati, quasi sempre senza zoom, sui volti dei personaggi, non fanno che richiamare questa sensazione vintage, che non risulta mai realmente fastidiosa – tanto che il film potrebbe essere stato realizzato tranquillamente all’epoca. Per il resto, de gustibus.

  • Non puoi non aver visto “Jeepers Creepers”

    Due fratelli in viaggio su una strada semi-deserta incontrano uno strano individuo che traffica un paio di sacchi all’interno di uno scarico: la curiosità, in questi casi, è una pessima idea…

    In breve. Horror lineare e ben costruito che possiede, oltre ad una serie di pregi, quello della brevità. Uno dei ultimi vagiti di cinema del terrore basato puramente sui modelli anni ottanta, che bilancia alla perfezione “commercialità” e spirito underground: da non perdere.

    Da tempo sono dell’idea che realizzare bene un horror imponga una profonda conoscenza di molte altre pellicole: in alternativa, per quanto non sia l’unico aspetto da tenere in considerazione, il rischio di degenerare nel ridicolo involontario è serissimo. Appare subito evidente che Salva – regista di questo primo episodio del demone creeper – conosca bene il cinema, e lo si nota quando omaggia due cult come Duel e The hitcher (Jeepers Creepers inizia, mutatis mutandis, allo stesso modo della pellicola di Harmon). Citare i film preferiti è solitamente gradevole per il pubblico del cinema di genere, tanto da diventare un espediente di cui, negli ultimi, molte persone sono diventate pienamente consapevoli grazie alle parole di Tarantino. Roba da film anni 80/90, espedienti citazionisti a cui poteva ricorrere Tobe Hooper all’apice del proprio splendore ma che, già nel 2001, sembravano appartenere ad un cinema horror “fuori moda”. Con un pubblico sempre più difficile da intrattenere e spaventare, infatti, oltre che sempre più viziato dai consueti giochetti narrativi capaci di fare sbadigliare invece che sussultare, ci voleva un discreto coraggio che qui, a mio parere, non è mancato.

    Jeepers Creepers si fonda su una storia semplice quanto solida (anche se non originalissima), non corre il rischio di cadere nel ridicolo auto-compiacimento perchè, a ben vedere, preme subito il pedale dell’acceleratore, evita il superfluo ed ci introduce alla storia di due fratelli che, come si vedrà, avranno a che fare con un inquietante creeper, un demone inventato dalla sceneggiatura – un po’ come accade per un suo omologo nel recente Sinister – che si risveglia ogni ventitreesima primavera, e che necessita di sostituire i propri organi con quelli delle vittime. Jeepers Creepers è un buon film, realizzato con stile e buona presa sul pubblico, e questo nonostante abbia qualche pecca come originalità, e nonostante certe situazioni rischino di risultare “telefonate”. Tutto questo livello di relativa fluidità della storia, che sa essere anche ironica a tratti senza mai sconfinare nella demenza alla Peter Jackson, va parzialmente in controtendenza rispetto a pellicole di quel periodo molto più seriose, complesse o paranoiche (The experiment, Non ho sonno, Session 9).

    Come detto la dinamica di “Jeepers Creepers” appare dichiaratamente ottantiana, con i suoi personaggi principali caratterizzati come i tipici adolescenti comuni nei quali è facile identificarsi, con una minaccia proveniente dall’esterno, l’ineluttabilità fatalista del caso a farla da padrone per lo sviluppo delle circostanze, e soprattutto – direi – la figura di un eccellente villain che sarebbe diventato protagonista di una saga (per quanto esile essa possa essere). Al tempo stesso, pero’, non mancano elementi che evitano di rendere il film anacronistico, come l’attualizzazione dei ritmi ed un sostanziale rifiuto di imitare  passivamente tempi, luoghi e topoi del cinema orrorifico di venti anni prima. “Jeepers Creepers” è forse uno degli ultimi sussulti degni di nota di un cinema horror quasi fumettistico, che ti ricorda perennemente che ti trovi dentro ad una provincia americana e che quello è soltanto un film, una pellicola cosparsa di babau che, dopo pochi anni, sarebbero stati sostituiti dalla foga morbosa ed ultra-realistica del torture porn. Per la cronaca Jeepers Creepers (maccheronicamente “cose che strisciano sulle camionette“, cosa che il demone fa lanciandosi sulla strada a velocità folle in cerca di vittime) evoca il titolo di un brano di Armstrong e viene utilizzato come espressione gergale.

    “Mangia polmoni per poter respirare, ed occhi… per poter vedere… e credo che abbia mangiato troppi cuori per potersi fermare.”

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