MORTI PIÚ O MENO VIVENTI_ (8 articoli)

  • Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Un’infermiera si reca in una sperduta località delle Indie Occidentali per curare la moglie del signor Holland, affetta da un male misterioso: dopo qualche tempo escono fuori delle inquietanti storie legate ai riti voodoo del posto, che finiranno per legarsi all’intreccio principale.

    In breve. Un must per gli appassionati di horror: un film cult come pochi, e questo non solo perchè fornirà la materia prima su cui Romero baserà la propria poetica sugli zombi, ma soprattutto per via di innumerevoli suggestioni (a volte solo accennate) che fonderanno buona parte del cinema del terrore come lo conosciamo oggi. Capolavoro, da non perdere per nessuna ragione – nonostante l’età.

    Film storicamente fondamentale per il genere horror, tratto da un soggetto di Inez Wallace e considerato all’epoca della sua uscita – ed un po’ superficialmente – “un’opaca e disgustosa esagerazione di un concetto di vita malsano ed anormale” (New York Times); successivamente venne riabilitato per la sua innegabile intelligenza, eccezionalità ed eleganza, fino a diventare un esempio di quello che molti considerano il primo “zombi-movie” della storia. Questo sia per le tematiche sviluppate – il Morto che si vorrebbe far tornare in vita per Amore, un vero classico – che per via della presenza di Darby Jones nei panni di Carre-Four, l’inquietante “walker” dagli occhi vitrei nonchè Guardiano del luogo in cui avvengono i rituali oscuri dell’isola. “I walked with a zombie” è uno dei film di culto che hanno dato vita, di fatto, a quasi tutti – oserei scrivere – gli stereotipi legati all’immaginario cinematografico dei morti viventi, definendone caratteristiche (ad esclusione del cannibalismo, in questa sede), camminata, comportamento e origine prettamente tribale. Non si pensi per questo ad uno “Zombi” ante-litteram perchè, piuttosto, il risultato si avvicina più facilmente all’immaginario dell’orrore a 360*, specie quello che associa il dramma umano – tipicamente una storia d’amore – al terrore materiale verso la morte (oltre alla diffidenza verso le tradizioni locali). Un’accoppiata, Amore/Morte, che sarà esaltata all’ennesima potenza dal gotico di Mario Bava (giusto per citare uno dei più famosi), e che risulta essere da sempre alla base di qualsiasi letteratura horror di qualità. “Ho camminato con uno zombie“, pur non rappresentando – per ovvie ragioni – morti viventi che cercano di azzannare esseri umani armati di fucili, sorprende grandemente per il suo essere “avanti” – è uscito nel 1943! – e per lo sviluppo delle tematiche lugubri contenute al suo interno: la cosa diventa davvero interessante per via di alcune situazioni che, in qualche modo, rappresentano probabilmente una “prima volta” sulla schermo, e tutto questo nella declinazione originaria (la stessa che Fulci avrebbe onorato nel suo Zombi 2) che lega il “morto che cammina” al voodoo.

    Mi pare interessante estrapolare quello che ci viene suggerito dalla pellicola sul tema specifico – gli zombie – per cui lo propongo per esteso di seguito. Questa archetipica storia di morti viventi, di fatto, sembra trarre origine dal martirio di San Sebastiano, che ne rappresenta probabilmente la chiave di lettura più importante: già qui il pubblico più attento avrà sollevato qualche sopracciglio, dato che si tratta del soggetto ritratto – molti anni dopo – nell’affresco della chiesa de “La casa dalle finestre che ridono” (1976). Una rappresentazione di sofferenza senza scampo, senza speranza e senza redenzione (sembra quasi di essere in un disco dei Cannibal Corpse, ricordavo ironicamente in qualche occasione), tanto che spinge la gente del posto – ci viene raccontato – a piangere durante la nascita di un bambino, ed a trasformare in festa i funerali. Tornando al film, all’interno dell’isola di San Sebastian – nelle Indie Occidentali – esiste un antico castello occupato inizialmente dagli spagnoli, che successivamente divenne proprietà della famiglia Holland; quest’ultima fu anche la prima a portare degli schiavi all’interno dell’isola. Nei pressi del cancello di ingresso, inoltre, si presenta l’inquietante “Tormentato“, un “uomo senza età”, una statua con delle frecce conficcate nel corpo ed un’espressione perennemente sofferente: a sua volta questa immagine evoca la polena della nave su cui la povera gente veniva deportata, e possiede un significato simbolico alquanto evidente.

    Diventa automatico, per inciso, cogliere il fortissimo legame tra la letterale resurrezione di cadaveri e l’ampliamento dello sfruttamento di braccia lavoratrici, ovvero allo scopo di moltiplicare la manodopera (sfruttandola, come ha ribadito in più occasioni George Romero). La moglie di Holland, tornando all’intreccio, è gravemente ammalata: per colpa di una misteriosa febbre tropicale vive in uno stato catatonico, percepisce poco o nulla del mondo attorno a sè, e riesce ad eseguire soltanto i compiti più elementari. Anch’essa, quindi, subisce un martirio dovuto a forze oscure esterne: una figura, quest’ultima, grandemente archetipica – e questo non tanto perchè sia una zombi (di fatto non sembra esserlo, tra l’altro il suo aspetto esteriore si mantiene impeccabile), quanto perchè pone le basi per lo sviluppo del dramma: da un lato Miss Cornell finisce per innamorarsi del marito di lei, dall’altra il fratellastro di lui desidera ardentemente la malata, e farebbe proprio di tutto per (ri)averla vicino a sè. Questo doppio conflitto rende la storia accattivante e propone una rappresentazione del “morto vivente” duplice: da un lato la catatonica che vive una non-morte senza riuscire più ad interagire coi vivi, dall’altra un undead dal passo cadenzato che presenta le principali caratteristiche che tutti conosciamo: occhi gelidi, camminata al rallentatore e mancanza di volontà propria. Tutto questo spinge l’inizialmente scettica infermiera di Ottawa a recarsi presso un antichissimo villaggio in cui si pratica il voodoo, attraversando i campi di cotone oltre i quali arcaici riti hanno ancora vita, senza considerare che presto la povera malata dovrà pagarne le conseguenze.

    Durante il film, tra l’altro, il medico che segue la paziente arriva a concepire una terapia di shock insulinico, ovvero una specie di elettroshock per provare a riportare in vita la “morta” (ed in questo, nonostante sia solo un accenno, non può che venire in mente il lovecraftiano mad scientist di Re-Animator). Subito dopo è la volta del prete voodoo, che viene esplicitamente eletto come una sorta di “medico migliore”, e per ottenere la felicità dell’uomo amato l’infermiera protagonista vorrà spingersi fino in fondo: la stessa dinamica che finirà per muovere, per citare ancora Pupi Avati, il protagonista di Zeder. L’amore impossibile, ed il suo legame con la morte, si stabiliscono come stereotipo con questo capolavoro del terrore: la summa rende “Ho camminato con uno zombie” un’opera profondissima ed ispiratrice di molteplici pellicole, dotata di una poetica sensibile – e questo è possibile avvertirlo sia nella tragica conclusione che nella moralisticheggiante voce fuori campo che commenta la vicenda. Non un tributo totalmente rivolto agli zombi-movie “puri”, quindi (che avranno tempo e modo di svilupparsi), quanto ad un cinema di terrore e dramma che ancora oggi resta vivido come faro indiscusso del genere.

    …esseri strani, spaventosi, ed anche un po’ buffi

  • …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà: l’horror come pura idea

    Nostalgica espressione di un cinema che non esiste quasi più: puo’ piacere  o meno, fare ribrezzo o sorridere, ma rimane l’idea forse più incontaminata della poetica lacerante di Fulci.

    In breve: una delle opere massime del regista romano, summa perfetta di uno stile fatto di eccessi, violenza estrema e crudele ma anche di poetica profonda ed in parte toccante. Da sempre nella mia top-ten per quanto riguarda lo splatter; leggermente sconnesso in alcuni tratti (specie se lo si vede una sola volta), delinea la poetica del regista romano e vale la pena vederlo anche solo per il mitico finale. Grandissimo lavoro, in questa sede, da parte di Giannetto De Rossi in fatto di effetti speciali.

    Raccontare l’Aldilà è impossibile senza descriverne almeno per grandi linee la trama: ed è quello che farò qui, considerando che la sua bellezza prescinde, per una volta, dal non “saperne troppo”, e mi pare doveroso specificare che dirò parecchio sulla storia bruciando così vari dettagli. Per chi non ha visto uno dei pilastri dell’horror italiano anni 80, mi sembrerebbe più opportuno provare a procurarsi il film prima, e leggere solo successivamente la mia recensione.

    …l’orrore si accetta in quanto idea pura. La ragione non c’è… c’è l’idea pura” (Lucio Fulci su “Paura nella città dei morti viventi”, citato in Paolo Albiero, Giacomo Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci. Roma, Un mondo a parte, 2004)

    All’inizio, in alcuni suggestivi fotogrammi color seppia, vediamo un gruppo di persone – nell’anno 1927 – entrare nella stanza di hotel di quello che si scoprirà essere un pittore (Zweick): il loro scopo è quello di crocefiggerlo al muro, non prima di averlo sadicamente torturato a colpi di catene. L’artista è sospettato di stregoneria, e segue così la triste sorte della “maciara” de “Non si sevizia un paperino”: un tema, quello dell’intolleranza, evidentemente piuttosto caro al regista romano. Alcuni anni dopo vediamo Liza (la MacColl, attrice cult dei film di Fulci) eredita in Lousiana proprio quel vecchio albergo, nel quale si manifestano fin dal restauro alcuni strani incidenti: un operaio cade dall’impalcatura per colpa di un’improvvisa presenza oscura, mentre ad un idraulico perde un occhio per via di una “cosa” fuoriuscita da una tubatura. Inutile forse sottolineare che Fulci, già da queste prime scene, non ci risparmia alcun dettaglio gore: non bisogna dimenticare, comunque, che Fulci è molto influenzato anche dal fantasy (cosa che ha fatto anche nel “gemello” “Paura nella città dei morti viventi“, e per questo motivo non esita a contaminare le due cose in eccessi davvero sopra le righe.

    Dopo qualche strana premonizione, la protagonista scoprirà che l’edificio del suo hotel è costruito su una delle porte dell’inferno, dalla quale inizieranno ad uscire fuori morti viventi e a disseminare il panico sulla terra. Scenario alquanto suggestivo, quest’ultimo, se contiamo che di zombi nel film non se ne vedono per la maggioranza delle sequenze, per quanto pare si sia trattato di una mera scelta produttiva che voleva sfruttare l’onda degli zombi movie low cost. Un modo per variare la monotonia delle dinamiche da zombi-movie, a mio parere, che in molti dovrebbero rivalutare. Indimenticabile poi, come ricordavo all’inizio, la scena finale in cui Liza, assieme ad un altro compagno di sventura, nella fuga dai morti si troverà letteralmente all’interno di un quadro di Zweick. Si tratta di quello che rappresenta l’aldilà, un deserto di cenere e corpi nudi, un vuoto e desolante Nulla. Un viaggio quindi completamente surreale, a tratti realmente da brivido, dalla realtà all’incubo: la vendetta del pittore si esplica così attraverso la sua arte.

    E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile…”

    Secondo il regista romano, sembra di capire, dopo la morte vi è sempre l’oblio, e soltanto la memoria – per quanto dolorosa – puo’ salvarci dal diventare completamente ciechi. L’insistenza di Fulci sugli occhi, peraltro – e sul maltrattamento fisico che essi subiscono di continuo, non soltanto in questo film per la verità – sembra prestarsi sia a speculazioni filosofiche che ad un’allegoria – piuttosto grottesca – di ciò che dovrà subire lo spettatore. Inutile aggiungere, a questo punto, che il film è davvero crudissimo, in certe scene rasenta l’insostenibile e realizza, a mio parere, ciò che un Vero Horror deve fare: disgustare, spaventare, toccare le corde del terrore e spingerci a girare il capo dall’altra parte dello schermo. Un pessimismo lugubre, quello del regista romano, che si esprime attraverso la maggioranza delle sequenze del film, diventate cult per i motivi più svariati. Un esempio abusato è la partecipazione di Michele Mirabella nei panni del bibliotecario – assalito da un gruppo di tarantole – mentre una prova di gore sopra le righe è senza dubbio la ragazzina colpita da un colpo di pistola (scena atipica per il cinema volemose-bbene, presente esclusivamente nella versione uncut; per la cronaca ricorda un’esasperazione delll’omologa sequenza di Distretto 13 di Carpenter).

    Un capolavoro del genere, a mio parere, ma attenzione: rimane pur sempre un genere “popolare” e con un suo personale spessore (nel senso che è esente da simbolismi masturbatori), anche se a mio parere è indispensabile disporsi con una certa empatìa verso l’horror più estremo. Altrimenti è forse meglio lasciar perdere e dedicarsi ad altri film. Questo è certamente Horror – sarà forse banale scriverlo – con la “H” maiuscola proprio perchè sconnesso, fuori dalle righe, unico nel suo genere, a volte forse senza vere giustificazioni per quanto riconoscibile tra decine di altri cloni scadenti. E poi fa paura, fa sussultare lo spettatore che a volte stenterà a credere a quanto viene rappresentato: anche per i canoni odierni è molto probabile che lo sentirete “sporco”, realistico ed oscuro come non mai. Un qualcosa che lascia il segno, “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà“, e che spaventerà per bene gran parte degli spettatori. Del tutto fuori luogo, per la cronaca, alcune critiche a mio parere un po’ grossolane che vogliono questo lavoro di Fulci come una scopiazzatura malriuscita di Inferno di Argento (con cui si riscontrano alcune somiglianze, tuttavia i film vanno visti e limitarsi ad accoppiare sequenze a caso è davvero troppo, troppo superficiale).

    La versione in DVD del film possiede diversi speciali e soprattutto non è censurata come la versione tipicamente a noleggio (che, in molti casi, non riporta la sequenza color seppia dell’omicidio del pittore: pensavano che fosse il trailer di un altro film, a quanto pare…). Un buon criterio per regolarsi dovrebbe essere annesso alla censura (VM 14 per la versione edulcorata, VM 18 per la completa), mentre la limited edition della Anchor Bay sembra la più completa e meglio realizzata anche esteticamente, anche se indubbiamente ha un prezzo abbastanza spropositato.

  • Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Due dipendenti dell’azienda Undeea (sic) aprono inavvertitamente dei contenuti ripieni di gas tossico, che possiede la singolare capacità di rianimare i cadaveri. Gli zombi partono all’assalto del pianeta, apparentemente inarrestabili…

    In due parole. O’ Bannon, indiscusso genio della sci-fi e dell’orrore (suoi lo script di Alien e buona parte di Dark Star di Carpenter) firma il suo esordio alla regia mostrando zombi quasi cartooneschi, realizzando un film praticamente perfetto e puramente ottantiano nello spirito. C’è spazio per l’intrattenimento puro, per una colonna sonora tra le migliori dell’epoca e per un paio di scene super-cult: da non perdere!

    Leggere l’intervista al regista, l’ultima concessa a Nocturno prima che morisse nel dicembre 2009 affetto da un male incurabile, fa capire molto dello spessore e dello spirito anticonformista del regista-attore-sceneggiatore americano. Se egli deve molto della sua fama alla stesura e all’ideazione di Alien di Ridley Scott, paradossalmente rimase molto distante dal mondo hollywoodiano e, probabilmente, anche dallo stesso scenario del cinema underground cui naturalmente apparteneva. Esordio scoppiettante il suo, dato che tirò fuori assieme al coinquilino John Carpenter l’idea di un “2001 Odissea nello spazio” in chiave demenziale, producendo il piccolo capolavoro low-budget Dark Star. Qui siamo al suo esordio registico: l’influenza di Romero, all’apice dello splendore in quegli anni con il lugubre Il giorno degli zombi, e qualche anno prima Zombi, si sente parecchio. Ma Dan non si limita a clonare le idee dei film famosi come fecero in molto: piuttosto reinventa la mitologia dei morti viventi aggiungendovi dettagli originali e momenti di curiosa demenzialità, come avrebbe fatto, in modo decisamente più esasperato, Peter Jackson.

    La storia, di per sè, è forse il dettaglio meno interessante: un ragazzo viene assunto in una ditta che si occupa di procurare cadaveri alle facoltà di medicina, e casualmente entra in contatto con un gas tossico che inizia a risvegliare i cadaveri. Nel frattempo gli amici del giovane (per la maggioranza punk e metallari, per inciso) vanno a prenderlo sul posto, avvicinandosi incautamente al cimitero lì vicino. I morti viventi di O’ Bannon sono maledettamente veloci, corrono come ossessi e sono indistruttibili: non serve sparargli in testa, non serve farli a pezzi, non serve neanche bruciarli perchè, come espresso malamente in Zombi 3, ciò contribusce solo a contaminare l’aria ulteriormente.

    Dinamica da puro action movie quella de “Il ritorno dei morti viventi”: e vari dettagli explotation come gli occhi nelle orbite che si muovono ancora, qualche momento gore ben dosato, alcuni scheletri degni de “L’armata delle tenebre” e (non si dica che guasti) la bella Linnea “Trash” Quigley, punk dai capelli rossi che se ne va in giro natiche al vento dopo un improbabile strip integrale nel cimitero, sono tutti elementi che fanno di questo film un cult da non perdere per nessun motivo. O’ Bannon mostra di saperci fare con la macchina da presa, e realizza uno dei migliori zombi-movie mai visti sullo schermo, privati della componente più deprimente e con un finale apertamente nichilista: probabilmente come solo un regista davvero “rock’n roll” come lui avrebbe saputo fare. Vale inoltre la pena di ricordare che la colonna sonora, oltre a riportare un theme davvero indimenticabile, è di matrice punk-hardcore con alcuni momenti melodici che contrastano con la drammaticità delle scene (quasi sempre riprese da lontano, come ricordava lo stesso regista), capaci di creare un contrasto davvero notevole e a tratti spassoso.

    R.I.P., Dan!

     

  • La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…

    In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.

    Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote

    La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).

    Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.

    Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

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