Un giallo-horror di vecchia scuola degno di Edgar Allan Poe, accompagnato da un’inquietante nenia suonata con il piano…
In breve: un Fulci in gran forma produce uno dei suoi migliori lavori in ambito thriller (che fa coppia con “Non si sevizia un Paperino).
Si è detto a più riprese che Lucio Fulci ha espresso il meglio della propria arte durante la prima fase delle sue produzioni, ovvero quelle che partono dagli anni 60 per arrivare ai primissimi 80: venti anni di cinema anarchico, lontano dalle classificazioni di genere e che rifiutava orgogliosamente le imposizioni da cinema “commerciale”. Il regista diresse horror violentissimi, gialli inquietanti, gangster-movie, western ma anche commedie satiriche e film di Franco e Ciccio, riuscendo quasi sempre nell’intento artistico di farsi notare, di colpire, di scandalizzare la critica come parte di pubblico. “Sette note in nero” è probabilmente uno dei migliori film mai girati dal compianto regista romano: la storia è quella di Virginia, una sensitiva che da ragazzina, stando a Firenze, aveva previsto – in una specie di allucinazione – il suicidio della madre in Inghilterra. Diversi anni dopo è diventata architetto, ed è fresca di matrimonio con Francesco – impegnato uomo d’affari londinese. Un’ affascinante Jennifer O’Neill interpreta la parte di Virginia, il cui “terzo occhio” continua ad avere, anche in età adulta, visioni inquietanti e non sempre decifrabili con facilità: un po’ come accadrà – qualche anno dopo – al professor Johnny Smith ne “La zona morta“. Questa caratteristica, assieme ad una complessa rete di distorsioni ed incomprensioni temporali, costituisce l’autentico colpo di genio del film, soprattutto nelle “stilettate” finali. Durante un viaggio in macchina Jennifer ha un momento di “buio” e vede uno specchio rotto, i dettagli di una stanza ben arredata (ripresa con un “taglio” tipicamente argentiano) ed uno zoppo che mura una donna anziana: come ne “Il gatto nero” di E. A. Poe, anche qui c’è una vittima umana nascosta all’interno di un muro. Sapendo di non essere ascoltata da nessun altro, decide di rivolgersi ad un amico, ex spasimante e para-psicologo (Marc Porel, il prete di Non si sevizia un paperino). Tornata nella villa del marito, che è lontano da casa per lavoro, scopre che al suo interno molti dettagli combaciano perfettamente con quelli della sua visione: il senso di smarrimento e deja-vu è reso qui in modo davvero magistrale da uno dei migliori Fulci di sempre. Lo specchio rotto, il quadro e tutti gli altri dettagli combaciano pero’ fino ad un certo punto: qualcosa è accaduto, qualcosa deve ancora accadere, e in questo puzzlehorrorifico i pezzi si incastreranno perfettamente soltanto nello splendido finale. Un film sceneggiato in modo superbo, ottimamente interpretato dal cast, piuttosto simile nella sua dinamica a “Non si sevizia un paperino” con quel pizzico di sovrannaturale che poi sarà marchio di fabbrica della produzione horror fulciana. Con il suddetto lavoro “Sette note in nero” condivide comunque il senso morboso di inconfessabilità del delitto, il continuo “non detto” che aleggia all’interno dell’opera e la favolosa fotografia da incubo di Lucio Fulci. Un classico in ogni senso, certamente da rivedere e riscoprire oggi dopo oltre trent’anni.
Il tema di Sette note in nero è stato ripreso recentemente da Tarantino per la “riscossa” di Beatrix Kiddo (Kill Bill).
Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.
Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebberouscitinegliannisettanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.
Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.
La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.
Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.
E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.
Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).
Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)
Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.
Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.
Durante la festa di capodanno il timido John Lubbock – un giovane insegnante – assiste con sofferenza alle effusioni di Isabelle, ricchissima donna del posto, con il suo più grande collega (Valmont), suo promesso sposo. Poco dopo Lubbock viene aggredito da uno sconosciuto mentre torna a casa, mentre Andrea, un giornalista con problemi di alcool, cerca di ricucire il suo rapporto con Helena, la sua ex compagna.
In breve. Dallo stesso regista de “Le orme“, un thriller italiano sopra le righe, con finale a sorpresa.
Descritto dai più come film contorto che predilige la forma sulla sostanza, si tratta in realtà di un piccolo gioiello del cinema di genere all’italiana, quantomeno nel proprio genere. Molte tematiche in effetti tipiche (la follia, lo sdoppiamento della realtà e la sua distorsione) sono molto meno approfondite della media, ma esiste certamente più classe cinematografica. L’intreccio è tratto, molto liberamente a quanto pare, dal romanzo The Fifth Cord di David Macdonald Devine.
Iniziano poco dopo l’avvio del film una catena di omicidi, legati da un filo apparentemente legati alla persecuzione del giovane professore, ma la verità è molto diversa – verrà rivelata solo negli ultimi minuti del film. La prima a morire è la moglie semi-paralizzata del dottor Binni, proprietario ed azionista del giornale in cui lavora Andrea: successivamente il capocronista, ritenuto co-responsabile del licenziamento dal protagonista, viene trovato morto in un parco apparentemente per infarto. La polizia arriva a sospettare dello stesso giornalista, e successivamente muore Isabelle, proprio quando si era decisa a contattare Andrea per comunicargli qualcosa di importante. Infine ad una prostituta tocca la medesima sorte: ogni delitto contiene un preciso indizio, ovvero un guanto con un dito mancante in più ogni volta, a sottolineare il numero di vittime che mancano.
Chiaro che gli echi argentiani nell’intreccio non mancano, a cominciare dal particolare sfuggente che il protagonista non riesce a ricordare, e che lo tormenterà fin quando non riuscirà a bloccare l’assassino, proprio mentre che sta per aggredire il figlio di Helena, dopo essere penetrato in casa sua. Scena interessante, peraltro, poichè oggetto di un inquietante chiaroscuro: il bambino dovrà fronteggiare l’autentico “uomo nero” da solo, mentre la madre è fuori casa e gli ha giurato per telefono – qualche istante prima – che l’uomo nero … non esiste. Esiste inoltre una certa diluizione nella trama, e questo rischia di non rendere perfettamente fruibile la storia: ma il giallo all’italiana è spesso così, in una forma che aggiunge dettagli apparentemente rilevanti al semplice scopo di confondere un po’ le acque, e rendere meno ovvio lo svolgimento dell’intreccio.
Incredibilmente si scopre che il filo conduttore degli omicidi è il fatto di essere commessi di martedì, la giornata di Marte, astrologicamente considerata una giornata favorevole per i nati nel segno dell’Ariete, come l’assassino… Nonostante il piccolo azzardo nel finale la sceneggiatura è solida, considerata nella sua interezza: tuttavia alcuni aspetti del film andavano forse approfonditi con maggiore attenzione, cercando di collegare meglio i vari personaggi che in verità rimangono abbastanza sconnessi (il film rimane poco impresso, tant’è che ho dovuto rivederlo una seconda volta per recensirlo). Superato questo difetto di massima, le interpretazioni sono molto convincenti, ed ho trovato particolarmente azzeccato lo stile da noir puro con Andrea che, con il suo impermeabile caratteristico, commenta dall’esterno lo svolgimento dei fatti nel finale, neanche fosse il cinico Henry Fonda di “Milano odia…”. La frase dell’assassino a circa metà film (“La prossima vittima è già scelta, il modo della sua fine deciso. Al di là dell’esaltazione c’è qualcosa di profondamente divino nel trasformare un essere sofferente in materia inanimata, per l’eternità“) è ripresa dal pezzo “94x Flashback di massacro” di “Misantropo a senso unico” dei Cripple Bastards.
Raro esempio di cinema di genere italiano senza titolo chilometrico, “La coda dello scorpione” è un giallo a tinte horror di Sergio Martino che segue la scia inventata e “benedetta” in qualche modo da Dario Argento.
In breve. Discreto film, non un capolavoro ma tra i migliori del genere: la trama procede senza grosse forzature, in certi momenti l’intrigo sembra degno di un film di Hitchcock e non ho rilevato i classici “buchi” che abbondano in film di questo tipo.
Una donna incassa un’assicurazione sulla vita del marito da 1 milione di dollari, e dopo diverse minacce rimane vittima di un omicidio. Le indagini volgono inizialmente in un modo abbastanza confuso, nel classico meccanismo che vede tutti coinvolti e tutti potenziali indiziati. Fino ad arrivare ad un inaspettato finale che mostra come spesso la realtà più semplice ed ovvia possa coincidere con l’agognata verità. Inaspettato ovviamente per chi non colga i dettagli rivelatori nascosti nella prima e nella seconda metà dell’opera…
L’interpretazione degli attori è certamente a buoni livelli: tra gli altri, sopra le righe abbiamo l’interpretazione del commissario di polizia Luigi Pistilli (lo scrittore de “Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave”), l’icona del genere George Hilton e la splendida giornalista Anita Strindberg. Il regista probabilmente abusa visivamente delle generose forme di quest’ultima, ma in fondo questo rende tale film ignoto ai più ancora più “cult”. Neanche a dirlo, il titolo riguarda un particolare non da poco per la spiegazione dei misteri…
Se ci fosse bisogno di dirlo, sembra in più di un’occasione di assistere ad un tributo a Dario Argento: camera fissa, bambole senza occhi, quadri inquietanti, omicidi scenografici (tuttavia non eccelsi). Molto originale l’utilizzo dello slow-motion nella scena in cui l’asssassino tenta di forzare una porta e la povera vittima di turno corre per cercare di bloccarla. Non a caso, poi, la prima scena “clou” avviene sul palcoscenico di un teatro – e come in Quattro mosche di velluto grigio si assiste ad un tentato omicidio anche lì! Non voglio pensare ad un plagio, sia chiaro, tuttavia certe scelte stilistiche sono certamente dettate da quanto ha “deciso” Argento coi sui primissimi film. Insomma, gli appassionati del genere troveranno pane per i propri denti, al di là del tasso erotico del film e della violenza esplicita di alcune sue scene (bottiglia scheggiata in un occhio, “tagli” chirurgici dell’assassino, finta autopsia).
Da vedere per curiosità, se non l’aveste già fatto.
Il capolavoro di Dario Argento, forse la migliore sintesi di tutti i suoi ingredienti orrorifici e di suspance.
In breve: il capolavoro del giallo-horror, la sua espressione più nota al grande pubblico. Un successo internazionale che consacra Argento come mago dell’orrore e della suspance.
Magia. Il solo modo per definire oggi “Profondo rosso“, pur rischiando di sconfinare nella più stereotipata e vuota retorica: un capolavoro senza tempo, la summa della perfezione del cinema thriller, che si contamina con l’horror senza dimenticare, come invece accade oggi, le sue radici puramente giallistiche. Ancora adesso osannato dai fan del genere (e non solo) e da parte della critica cosiddetta seria, ivi compresi gli spettatori più smaliziati che ogni volta si divertono ad evidenziare le incongruenze e le ingenuità dei cosiddetti b-movie. Profondo rosso, pur essendo assimilato ad un certo sottogenere horror che non faceva dei budget elevati il proprio punto di forza, non dovrebbe nemmeno rientrare nella categoria essendo, per sua definizione, forma e sostanza, fuori norma.
Ma qui non si puo’ scomodare la serie B per nessuno motivo: si rischia di fare un torto enorme a quello che diventerà, da questo momento in poi, il guru del cinema “di paura” nostrano. Ancora devo conoscere una persona che osi – è proprio il caso di dirlo – trovare un aspetto discutibile o fatto male in questo autentico masterpiece del terrore: il fiore all’occhiello di Dario Argento, senza dubbio la sua opera più amata e più ricca di sequenza indimenticabili.
Da un lato viene rappresentata la normale ordinarietà di un musicista jazz (Marcus/Hammings), di una giornalista attratta da lui (Gianna/Daria Nicolodi), di un commissario di polizia che indaga su una morte misteriosa e di qualche altro personaggio apparentemente qualsiasi: dall’altra la sofferenza del debole musicista Carlo, l’identità di un assassino crudele (uno dei più inquietanti mai realizzati nel cinema, a mio modesto parere), l’incontro casuale con il Male della medium (Helga/Macha Merìl) che lo identifica e ne rimane traumatizzata (oltre che uccisa). Altri marchi di fabbri caratterizzanti il giallo: personaggi che pervengono alla verità componendo frammenti di ricordi. Vittime che vengono colpite a morte spaccando, tipicamente, infissi delle finestre.
Tra le scene di culto:la rassegna di armi del maniaco in primissimo piano su una stoffa rossa, la morte attraverso le schegge di una finestra, la decapitazione con una collana impigliata nell’ascensore, i denti di una vittima sfracellati sullo spigolo di un camino, un pupazzo a molla che preannuncia l’arrivo del maniaco, i sadici colpi di machete sul corpo di una donna, l’ustione con successivo annegamento nella vasca da bagno. Un campionario dell’orrore che culmina con la lucertola trafitta da uno spillo, il disegno murato nella “casa del bambino urlante“, lo specchio “rivelatore” della verità (anche in chiave psicoanalitica: per scoprire la verità dobbiamo guardare dentro noi stessi, anche a costo di rivelazioni dolorose o sgradevoli), una testa spappolata sotto la ruota di una Lancia Beta Cupè, un corpo trascinato da un autocarro Fiat 643: in altre parole il film in toto, nel suo incedere chirurgico, crudele ed incalzante, per la bellezza di due ore di incredibile Cinema.
“Profondo rosso” si sviluppa come una spira velenosa, un serpente affascinante e pauroso al tempo stesso, che avvolge lo spettatore da più parti facendo scattare un gioco di sospetti, di parole non dette, di confessioni mancate, di insospettabili complici intervallati da esecuzioni macabre, violentissime e mai come adesso “artistiche”. Il killer protagonista conduce i personaggi, in parte consapevoli ma comunque schiavi di un Male subdolo ed incosciente, come un mastro burattinaio, creando i presupposti per uno dei più geniali doppi finali mai concepiti dal regista romano. E questi ultimi, fino ad oggi, sono il suo marchio di fabbrica, il motivo per cui Argento è da considerarsi anche solo di poco superiore, quantomeno in passato, a tutti i suoi diretti concorrenti (Fulci e Lenzi in primis, ma ovviamente si tratta di confronti solo “di facciata” che non vogliono sminuire nessuno).
Se avete vissuto sulla Luna fino ad oggi e non avete mai visto Profondo rosso (che mi guardo bene dallo spoilerare, nonostante ci sia un’edizione in DVD che brucia il finale addirittura sulla foto di copertina), basta una capatina nel più vicino negozio o videoteca per rimediare e redimervi dal peccato. Se invece avete già visto Profondo Rosso, adesso vi sembrerà di sentire la colonna sonora dei Goblin: la, la, la, lalala…
10 curiosità sul film
Esterni girati a Torino
Nonostante la storia sia ambientata formalmente a Roma, gran parte degli esterni furono girati a Torino. La scena iniziale nel teatro avvenne presso il sss, mentre gli esterni poco prima del primo omicidio sono nell’attuale piazza CLN, Comitato di Liberazione Nazionale (che all’epoca non aveva un nome, e fu sede delle SS durante la seconda guerra mondiale).
Eccovi alcune foto recenti di piazza CLN (TO).
Guanti e primi piani
I primi piani sono all’ordine del giorno in questo film, tanto da risultare come marchio di fabbrica della regia. Le mani dell’assassino mentre indossa dei guanti sono state eseguite da Dario Argento in persona.
La sequenza a piazza CLN
Nella scena ambientata nell’attuale piazza CLN a Torino il personaggio interpretato da David Hemmings esce da un bar di notte per incontrare l’amico pianista: il bar è stato realizzato sulla base del famoso dipinto I nottambuli di Edward Hopper.
Scene tagliate (e recuperate)
Dopo gli 11 secondi di restauro effettuati nel 1993 per conto della Redemption, il DVD Platinum ha ripristinato la breve scena del combattimento tra due cani precedentemente scomparsa. La famosa scena della lucertola trafitta da uno spillo è tagliata malamente in alcune versioni. Nella maggioranza delle versioni internazionali le scene sono presenti (immagini tratte da movie-censorship.com)
Ispirazione
Stando a quanto dichiarato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi l’ispirazione per la realizzazione degli omicidi è stata guidata dal concepire le maniere più dolorose per procurarsi delle ferite. Il presupposto era che il dolore dovuto ad un urto accidentale con un mobile o una scottatura da acqua bollente fosse più familiare con il pubblico rispetto al classico colpo di arma da fuoco.
…Suspiria 2
A causa del grande successo in Giappone di Suspiria del 1977, Profondo rosso uscì col titolo Suspiria 2, per quanto tra i due film non ci sia alcun collegamento.
I brividi di angoscia
In Francia il film è uscito col titolo “Les Frissons de l’angoisse”, letteralmente “I brividi d’angoscia”.
Lo store di Profondo rosso
In via dei Gracchi a Roma (fermata metro più vicina: Lepanto) esiste il Profondo Rosso Store, il negozio ufficiale di Dario Argento (eccolo su Google Maps). Il regista vi organizza a volte eventi in loco e incontri con i fan.
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