SCI-FI_ (34 articoli)

Recensioni di film di fantascienza.

  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»

  • Le orme: un cult anni 70 firmato Bazzoni

    Alice Campos è una traduttrice tormentata da un incubo atroce, che sembra avere riflessi nella realtà; tra i tanti indizi, una cartolina strappata che raffigura l’esterno di un albergo su un’isola sperduta, che la convincerà a recarsi sul posto…

    In breve. Un thriller suggestivo quanto introspettivo, che strizza l’occhio alla fantascienza: da non perdere.

    Le orme: se avete pensato alla band progressive rock nota per l’album Sospesi nell’incredibile, sappiate che si tratta solo di omonimia. Eppure, curiosamente, la protagonista di questa pellicola di Bazzoni (noto anche per Giornata nera per l’ariete, di qualche anno prima) si troverà in una situazione di sospensione intollerabile, una spada di Damocle che pende sulla sua testa e della quale – in modo vagamente kafkiano – non ha idea della natura e delle motivazioni.

    Le orme si caratterizza da subito come buon film – soprattutto perchè vanta uno script solido, tratto dal romanzo Las Huellas di Mario Fenelli, che nulla ha da invidiare ad altri equivalenti lavori su questo genere. Poi la regia è sicura dei propri mezzi ed impeccabile in ogni fotogramma, e questo naturalmente giova alla visione, nonostante alcuni passaggi che strizzano l’occhio al surreale – e a lidi comunque lontani dal mainstream.

    Un’interpretazione magistrale, soprattutto, quella di Florinda Bolkan, immersa in un tessuto sociale che le sembra ostile e che cattura da subito l’immedesimazione dello spettatore. Le orme è una meteora di classe cinematografica assoluta, che si fa strada con grande autorevolezza nel panorama di un genere spesso angusto quanto stereotipato e poco “d’autore”. Un film disponibile in formato VHS – e, da qualche tempo, anche in DVD – per le gioie di tutti i palati underground, per uno dei gialli all’italiana più originali e suggestivi mai girati.

    Tra le sequenze cult, la claustrofobica sequenza dell’astronauta che muore soffocato sulla superficie lunare.

  • Un po’ di pace, ai confini della realtà: il mediometraggio di Wes Craven

    Wes Craven ha diretto – direi magistralmente – questo secondo episodio della serie: il tema trattato rimane sulla falsariga di quanto visto ad esempio in “Tempo di leggere”, e possiede diversi sprazzi che sono poi i tratti caratteristici del cinema di questo grande artista.

    In breve: uno dei miei episodi preferiti della serie, sia perchè opera del regista di Nightmare, sia perchè ricordo ancora (è un fatto personale, mi rendo conto, ma conta parecchio) quanto mi fece paura quando lo vidi da ragazzino.

    I registi horror in genere trattano alla grande la fantascienza: lo ha fatto egregiamente Carpenter, lo ha fatto Hooper, non poteva certo mancare il contributo di Craven. La storia è quella di una donna comune, stressata dalla propria famiglia e da una vita che sembra non riservarle qualche minuto per se stessa. Il ritrovamente di un vecchio orologio seppellito nel proprio giardino regala un dono inatteso e graditissimo alla protagonista: la capacità di fermare il tempo. Così, non appena le cose si mettono male per lei, Penny non deve fare altro che avere addosso lo strano aggeggio e chiedere letteralmente al mondo di fermarsi. L’idea funziona davvero, e sembra non conoscere limiti: basta file snervanti per la spesa, basta persone con cui discutere porta a porta, basta battibecchi familiari per cucinare, pulire o andare a fare la spesa.

    L’episodio è ricco dei dettagli caratteristici del cinema di Craven, e si riconoscono vagamente alcuni aspetti che possiamo legare al leggendario Nightmare, uscito appena un anno prima (1984) di questo episodio. Se a questo aggiungete gli ingredienti tipici della sci-fiction apocalittica classica (su tutti “L’ultimo uomo della terra“), un’ironia di fondo sullo stress della vita moderna ed un finale con sorpresa, con tanto di critica sociale da piena guerra fredda, si ha di fronte quasi un capolavoro.

    La condanna ad un’eterna solitudine vista dagli occhi di uno spettatore preoccupato, come lo era all’epoca, dalla Guerra Fredda e dall’atomica. Probabilmente uno dei migliori episodi della serie mai realizzati, nonostanza la scarsità di mezzi e qualche trucchetto che fa sorridere: il missile del finale è stato realizzato in modo un po’ posticcio, e la falce e martello rossa ben in vista è un messaggio simbolico chiaro (pure troppo, per un americano dell’epoca). I fermo-immagine degli scenari, comunque, con la protagonista che va a spasso nel “tempo congelato” – senza poter cambiare gli eventi ma soltanto rallentandoli, rimangono da antologia. Masterpiece!

  • Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    The Twilight Zone“, o se preferite “Ai confini della realtà”, per un periodo è stata ampiamente tributata su Italia Uno: tempi lontani, quando di notte ci beccavi Zombi di Romero, qualche b-movie di Carpenter o sci-fi classica alla “L’ultimo uomo della Terra”. “Tempo di leggere” si colloca giusto nel filone apocalittico classico, e potremmo dire che in qualche modo ne pone le basi per quello che si vedrà in seguito. Come commentare oggi un episodio della saga di questa mitica serie di fantascienza?

    In breve. Vedere oggi un’opera così, bianco e nero che sa di preistoria, antesignano di qualsiasi b-movie sembra avere un che di fuori luogo e fuori tempo massimo anche per il blog come il mio. La “zona oscura”, dopo aver passato indenni le paure di un nuovo olocausto nucleare, di un’invasione aliena o di zombi, credo davvero non faccia più paura a nessuno. Eppure sono convinto che l’interpretazione di Burgess Meredith, per quanto in parte sopravvalutata, sia un punto fermo nella cinematografia sci-fiction, catastrofica e – in parte – anche horror.

    Del resto si parla di un episodio del 1959, dal ritmo rallentato e gradevole, con tanto di catastrofismo nucleare annesso: roba che per l’epoca doveva sembra più che avanti (forse soltanto Samuel Beckett aveva osato pensare tanto, in quegli anni, per un’opera d’arte audio-visiva). Passiamo all’episodio: Henry Danies è un impiegato di banca come tanti, un uomo qualunque, umile e modesto, follemente amante della lettura e caratterizzato dagli enormi occhiali “a fondo di bottiglia” che porta. Senza lenti, particolare essenziale per la storia, l’uomo non riesce a vedere nulla, il che diventa quasi una metafora del proprio miope disinteresse verso il mondo “reale” che lo circonda.

    Questa sua passione gli procura enormi problemi sul lavoro, dato che si distrae dai propri compiti e vive in modo completamente alieno dai propri colleghi: a casa le cose non vanno meglio, con una moglie-vipera che lo obbliga a fare cose di cui non gliene importa nulla. Una versione di impiegato sottomesso e goffamente sognatore che manco Paolo Villaggio in Fantozzi, a momenti, anche se privato del tono parodistico della nota serie. L’uomo, ad un certo punto, deciso a ritagliarsi un po’ di “tempo per leggere”, si rinchiude nella cassaforte della propria banca portando con sè un bel malloppo di libri. Poco tempo dopo, un boato immenso interrompe la sua attività: ed è così che scopre, con grande sorpresa, che la bomba H ha raso al suolo la sua città, uccidendone tutti gli abitanti. Unico sopravvissuto, ancor più solo di quanto non fosse prima, vaga disperatamente alla ricerca di qualche appiglio: ma non può fare altro che constatare di essere rimasto solo. Stavolta sul serio.

    Così torna alla propria abitazione, girovagando per una città distrutta nella quale sembrano mancare solo i teppisti di Fuga da New York, e in preda quasi alla follia ricomincia a vivere. Almeno ci prova: sul proprio divano, ad esempio, piazzato tristemente nel bel mezzo delle macerie. In una specie di teatro dell’assurdo fatto di calcinacci, Henry arriva all’unico luogo in cui riesce a trovare la propria dimensione: ma qualcosa di inaspettato cambierà nuovamente la sua esistenza per sempre.Credetemi, rispetto ai tempi si tratta di un vero e proprio cult della mitica “Twilight Zone”.

    Nota: in un episodio dei Griffin compare l’ultimo neurone di Peter nei panni dell’impiegato Henry Danies.

  • Decadenza post-apocalittica: “2019 Dopo la caduta di New York” (S. Martino, 1983)

    In una New York post-apocalittica, bersagliata da soldati armati di balestra, raggi laser e legge marziale, un anti-eroe solitario viene inviato a salvare l’unica donna delle Terra non ancora contaminata dalla radiazioni, che potrebbe contribuire a ripopolare l’umanità sterminata da guerre nucleari. Un film del regista italiano Sergio Martino, ricco di suggestioni e rimandi ad altre pellicole.

    In breve: Martino realizza un film, anche se nominalmente in buonafede, brutta copia del cult di Carpenter, a cominciare da Parsifal che somiglia nettamente, come fisionomia, a Kurt Russell. Estremamente ottantiano come stile, da riscoprire ma non aspettatevi il capolavoro incompreso.

    … Marinetti considerò Parsifal il simbolo della decadenza della cultura occidentale (Parsifal, ultimo dramma di Richard Wagner)

    Nel 2019 New York (!) è ridotta ad un cumulo di macerie da una spaventosa guerra atomica: in questo scenario viene aperta la caccia all’uomo da parte dell’esercito vincitore (gli Eurac) sui vinti, massacrati o catturati per essere sottoposti ad esperimenti genetici. Parsifal è un guerriero assoldato dalla Federazione PanAmericana, assieme ad altri due misteriosi individui, allo scopo di mettere al sicuro l’unica donna rimasta che dovrebbe garantire la rigenerazione della razza umana, non ancora contaminata dalla radiazioni. I tre incontreranno una razza di mutanti (i Contaminati) e saranno catturati dagli Eurac, i quali sospettano una riorganizzazione della rivale PanAmericana. Dopo varie peripezie, tra cui l’incontro con dei nani mutanti e con uomini-scimmia armati di scimitarra (!), avverrà l’epilogo della storia, tutto sommato piuttosto prevedibile.

    “Il solito fottuto bastardo!”

    “Suppongo che questo significhi: sì”

    Se dovessi dare una sorta di ricetta per la realizzazione un film del genere di: prendere Interceptor (il Mad Max di Mel Gibson), miscelarlo con una bella spruzzata di Fuga da New York di John Carpenter, shakerare con cura ed osservare il risultato finale. In fondo la somiglianza di Michael Sopwik / Parsifal con Kurt Russel / “Snake” Plinski rende piuttosto raggelante qualsiasi paragone con il cult americano, sia perchè ambientato sempre a New York, sia perchè  c’è comunque di mezzo un mercenario che lotta contro tutti per salvare sè stesso (ed il mondo).

    Del resto Martino sembra aver detto che la sceneggiatura sarebbe stata scritta prima dell’opera carpenteriana, quindi dobbiamo pensare che – senza ulteriore malizia – si tratti di una somiglianza casuale che non degrada nel plagio: in altri termini un po’ come accaduto tra Pet Sematary di King e Zeder di Pupi Avati (due trame molto simili per due film piuttosto distanti geograficamente). Del resto il gioco delle ispirazioni e dei rifacimenti segue il noto principio di imitazione (inteso con valenza positiva), presente sia presso gli antichi romani sia, in tempi moderni, nella replica di “memi” riadattati e modificati sul web.

    2019 – Dopo la caduta di New York“, rimuovendo qualsiasi pretesa intellettualistica da cinema “serio”, è un tributo al post-apocalittico divertente e scorrevole, che esprime paura ancora attualissime e che non risparmia dettagli in quanto ad horror e splatter, rendendo riconoscibile una sorta di old-school italiana. Se non fosse per qualche dialogo improbabile, qualche situazione vagamente trash ed una pochezza di mezzi generalizzata, potremmo dire di aver assistito ad un film originale, con valide idee di fondo, ben girato e anche discretamente interpretato: del resto la cosa migliore della pellicola rimangono i momenti horror, che sono realmente oggetto di culto. La sceneggiatura, di per sè, era complessa da sviluppare senza sbavature e, in effetti, soltanto Carpenter ci è riuscito per ben due volte senza errori. Da ricordare infine che l’Uomo Scimmia è interpretato da George Eastman, il cinico “32” di “Cani Arrabbiati”, mentre trucchi e miniature del film sono di Antonio Margheriti. (recensione concessa in cross-posting su Cinema Italiano Database con il mio consenso)

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