RIDERE_ (65 articoli)

Recensioni dei migliori film commedia usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

    Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

    Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

    Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

    Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

    Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

    È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

    La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

    L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

    Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

    Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

  • Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Titolo: Fantozzi

    Anno di uscita: 1975

    Cast Principale:

    • Paolo Villaggio come Ugo Fantozzi
    • Milena Vukotic come Pina Fantozzi
    • Gigi Reder come Ragionier Filini
    • Anna Mazzamauro come Signora Silvani
    • Plinio Fernando come Geometra Calboni
    • Liù Bosisio come Signora Calboni
    • Renato Scarpa come Mariangela Fantozzi

    Regia: Luciano Salce

    Produzione: Giovanni Bertolucci e Ugo Tucci

    Stile: “Fantozzi” è un film italiano che appartiene al genere della commedia. Il suo stile è caratterizzato dall’umorismo surrealista e dalla satira sociale. Il film prende di mira le dinamiche dell’ufficio e della vita familiare in Italia, presentando il protagonista, Ugo Fantozzi, come un antieroe che affronta una serie di situazioni ridicole e imbarazzanti.

    Sinossi: Il film racconta la storia di Ugo Fantozzi, un impiegato italiano medio che lavora in un ufficio governativo. Fantozzi è costantemente sottoposto a umiliazioni e disavventure nella sua vita lavorativa e familiare. Dal rapporto difficile con il suo capo, il dottor Filini, alle incomprensioni con sua moglie Pina, Fantozzi è costantemente in balia di situazioni comiche e assurde.

    Curiosità:

    • “Fantozzi” è il primo film della popolare serie di film basati sul personaggio di Ugo Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio. La serie ha avuto numerosi sequel.
    • Il personaggio di Fantozzi è diventato un’icona della cultura comica italiana, rappresentando l’antieroe per eccellenza.
    • Il film è stato un grande successo al botteghino italiano e ha contribuito a consolidare la popolarità di Paolo Villaggio come interprete di Fantozzi.
  • Le nove vite di Fritz il gatto: il cartone underground che uscì prima di qualunque altro

    Le nove vite di fritz il gatto” è un cartone animato del circuito underground americano risalente al 1974, tratto dal soggetto originale di Robert Crumb e sceneggiato da Ralph Bakshi. Esso rappresenta una violentissima satira polverosa, dura, sessualmente esplicita e piena di volgarità di ogni genere. Insomma il genere di opera che avrebbe prodotto forse solo un Bukowski in particolare stato di ebbrezza, che fulmina le convenzioni della castissima (almeno all’apparenza) società americana, facendosi gioco di chiunque: del governo, del lavoro, della famiglia, del proibizionismo e anche della stessa cultura underground da cui questo prodotto deriva.

    In breve: irriverente, politicamente scorretto, scurrile e sovversivo. Come sarebbero i Simpson e South Park, in altri termini, se fossero stati realizzati da Charles Bukowski.

    Si tratta a onor del vero del seguito di “Fritz il gatto“, l’opera prima della serie che non ha avuto molto successo qui in Italia, probabilmente per il discutibile doppiaggio di bassa qualità che venne realizzato: in questo episodio le cose vanno decisamente meglio, Fritz esce fuori in tutta la sua grottesca trivialità, sempre impegnato a fregarsene degli stimoli che vorrebbero che facesse una vita normale ed un lavoro ordinario, e preoccupato esclusivamente di tirare a campare godendosela il più possibile su ogni fronte. Per scansare la moglie conformista che sbraita contro di lui, gli rinfaccia la mancanza di responsabilità ed ammette di tradirlo, Fritz inizia a passeggiare per le strade della sua città in solitaria: incontrerà così i più assurdi personaggi che si possano immaginare.

    Essendo un gatto, Fritz ha la possibilità di rivivere le ben note “nove vite”, ed è così che nell’ordine si trova in nove pazzeschi mini-episodi che trasudano psichedelia e pulp da ogni poro. Roba che girava nei primi anni 70, che probabilmente dovevano produrre lo stesso effetto provocato oggi dalle puntate più crude di South Park, per intederci.

    1. Fritz incontra un portoricano (Juan), e si reca a casa della sorella di lui, Chita. Dopo averla convinta a fumare, i due iniziano a fare sesso ma vengono scoperti dal padre di lei, che rincorre Fritz armato di fucile il quale salta giù dalla finestra;
    2. successivamente fa amicizia con un ubriacone che afferma di essere dio in persona;
    3. si ritrova a letto con due ragazze tedesche, e successivamente psicoanalizza Hitler in persona. Il dittatore viene rappresentato da un cane con un solo testicolo;
    4. cerca di barattare un preservativo usato per una bottiglia di liquore, per poi scoprire di aver passato la gonorrea alla moglie del droghiere, con cui ha avuto una relazione clandestina;
    5. fa un viaggio nel tempo totalmente psichedelico e sconnesso negli anni 30, ballando il tip-tap;
    6. si rivolge ad un banco dei pegni gestito da un corvo ebreo, con il quale contratta per avere un assegno in cambio di una tazza del water. Alla fine ottiene in alternativa un casco spaziale;
    7. diventa quindi astronauta della NASA, deciso a partire in missione su Marte; durante l’attesa della partenza fa sesso con una reporter, ma alla fine l’astronave esplode nello spazio;
    8. parla con il fantasma del corvo precedentemente ucciso, ed ha una sorta di flash-forward in cui vede che il New Jersey è diventato “New Africa“, ed ospita solo corvi neri. Inviato lì come corriere, viene accusato ingiustamente di aver ucciso il presidente, di aver provocato la guerra tra New Africa e Stati Uniti e, alla fine, viene giustiziato;
    9. alla fine incontra un guru indiano ed il diavolo in persona dentro le fogne di New York, ma la visione viene interrotta dalla moglie che lo sveglia e lo caccia di casa, mentre il gatto afferma “Questa è la peggiore vita che abbia mai avuto“.
  • Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Un giorno apparentemente ordinario ad Austin (Texas), raccontato in mezzo ad una folla di disadattati, emarginati, amanti della letteratura ed artisti.

    In breve. Piccolo cult in costante bilico tra dramma e commedia, ed a cui numerosi cineasti si sarebbero ispirati in seguito. Sicuramente rientra nei 10 film “fuori dalle righe” da non perdere.

    Con una innovativa struttura – quasi certamente per l’epoca in cui uscì – Linklater ci introduce nel mondo degli under-30 durante gli anni 90, la “Generazione X” che tanto ha subito in termini di snobistici pregiudizi. Uno slacker, in inglese, non è altro che una persona che rifiuta deliberatamente di svolgere un lavoro – e condurre una vita – normale, pur essendone perfettamente in grado di farlo; secondo l’Urban Dictionary il termine può anche fare riferimento a qualcuno che, pur essendo intelligente, non se la senta di fare nessun lavoro in particolare, oppure “una persona che tenda a rinviare le cose all’ultimo minuto, e non appena arriva quel momento… decide che non fosse così importante. Così se ne dimentica“. Viene in mente, in soldoni, un ibrido di più personaggi, incostante ma al tempo stesso vigile e – direi – con la lucidità del Jack Torrance di kubrickiana memoria, in particolare quando afferma (poco prima di impazzire) che “è il senso del dovere che ci frega, amico mio“: è questo ibrido, in fondo, ad essere il protagonista di Slacker, e ne vedremo diverse caratterizzazioni attraverso i suoi numerosi personaggi.

    Fannulloni, depressi, apatici e disperati di ogni genere si riuniscono in una “giornata tipo” collegata per semplici flash ed accostamenti spazio-temporali, senza raccontare una vera e propria storia o meglio, forse, raccontandone parecchie. Il loro rifiuto per il senso del dovere indotto dalla società consumistica li porta in una direzione autarchica, che predilige i rapporti umani e le disquisizioni filosofiche alle attività produttive o puramente lucrative. La tragicommedia, del resto, risiede proprio nel non avere idea di come concretizzare quelle idee, che restano così tali e sono destinate a rimanerci. Nel far svolgere il film, che non possiede una trama ma è l’unione di più storie (spesso incomplete, ma poco importa), Slacker non cede al citazionismo fine a se stesso, o peggio all’astrattismo su cui avrebbero virato molte produzioni indipendenti successive: semmai mantiene un focus equidistante, tanto calcolato da sembrare scientifico, sulle varie storie, e rende il clima suburbano di Austin, la città del Texas, il vero protagonista.

    In questo, Slacker potrebbe avere anticipato qualcosa del falso documentario o mockumentary, e ciò lo rende ulteriormente affascinante. Al regista andrebbe ufficialmente riconosciuto l’enorme merito di aver realizzato ciò che viene considerato uno dei più importanti film indipendenti della storia del cinema, ad oggi. Lo stesso Linklater, nel ritagliarsi il ruolo del passeggero del taxi (alle prese con un soliloquio da autentico “filosofo urbano” sugli universi paralleli: “ad ogni scelta che fai o decisione che prendi, la cosa che scegli di non fare si separa e forma una sua realtà, sai, e prosegue all’infinito, da lì in poi“) erge una sorta di manifesto sull’eterna indecisione di quella generazione, nata negli anni 70, che ha studiato meticolosamente l’evoluzione della letteratura, del rock e delle sue sperimentazioni (“Una volta ho pranzato con Tolstoj…un’altra volta ero un roadie di Frank Zappa“), ha fatto nascere un nuovo tipo di cinema ed avrebbe assistito allo sviluppo di una tecnologia che, di lì a breve, sarebbe diventata di massa,  alla portata di chiunque.

    Il racconto di vite decomposta e allucinata di un’intera generazione, verso una rivoluzione che mai sarebbe arrivata, ed un mondo del lavoro – già all’epoca – scheggia impazzita e disumana, per cui si sente inadeguata o fuori misura (“A tutti voi, lavoratori là fuori: ogni singola merce che producete è un pezzo della vostra stessa morte“), tra più sogni e realtà che finiscono grottescamente per perdersi nella propria autocommiserazione (“il sogno che ho appena fatto era come questi, solo che non succedeva niente di strano, cioè… non succedeva proprio nulla“). E se mediamente in un film, nella fase di montaggio, secondo IMDB possono contarsi fino a 1000 tagli, in Slacker ce ne sono solo 163, al fine di dare massima continuità ambientale alle scene, limitando così i passaggi bruschi. Potremmo affermare, pertanto, che Linklater ha realizzato un esperimento unico nel suo genere, che in mano a potenziali imitatori sarebbe facilmente risultato caotico, o peggio poco comprensibile al pubblico.

    Grandissima importanza, nel film, tendono ad assumere i fitti dialoghi, quasi sempre permeati di riferimenti alla cultura underground: lo stile metropolitano-bohémien, ciò che in seguito sarebbe stato chiamato grunge in contrapposizione agli yuppies, l’emarginazione, la solitudine, le macchinazioni in piccolo (il figlio che ha investito la madre) ed in grande (le teorie del complotto su JFK), i sogni, le passioni, le piccole band con cui provare ad ammazzare il tempo, ma anche le teorie sugli UFO e sugli allunaggi – molto prima, per inciso, che questi argomenti divenissero un fenomeno di massa come poi, di fatto, è avvenuto grazie al web. Slacker finisce per essere un manifesto degli anni ’90 realistico, a volte crudo e dall’elevato contenuto poetico, per chi all’epoca cercasse un lavoro, una vita, un’identità, il tutto sfruttando un espediente narrativo tipico della letteratura moderna come il flusso di coscienza (Joyce viene citato in almeno un’occasione) e le associazioni di idee.

    In questo apparente caos di citazioni e vite sconnesse emerge una sorta di manifesto generazionale: quello della Generazione X, sbandata e priva di riferimenti eppure, al tempo stesso, parte integrante del cambiamento radicale indotto da internet e dal web 2.0 che sarebbe arrivato, a livello globale, di lì a breve. Ed è questo, forse, il senso finale – e più plausibile – di Slacker: quello espresso dal personaggio in una delle ultime battute del film: “…i film sono fotografia, 24 volte al secondo. […] Da giovani si piange per una donna. Poi, quando invecchiamo… per le donne in genere. La tragedia della vita è che un uomo non è mai libero: eppure si sforza di essere ciò che non sarà mai. Ciò che è segretamente temuto… succede sempre. La mia vita, i miei amori, cosa sono adesso? Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma. La bellezza essenziale nella vita sta nell’arrenderti completamente ad essa. Svegliati, America”

  • Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: trama, cast, critica

    Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” è un classico del cinema italiano che, a prima vista, potrebbe sembrare un affresco spensierato di un’avventura estiva come tante, giusto nei pressi del mar Mediterraneo (più precisamente dalle parti della Sardegna). Questa considerazione nasce – quasi certamente – dall’averlo ridotto ad alcune scene emblematiche, o dall’averlo reso un meme senza badare alla sostanza (che è mastodontica, a ben vedere).

    Diretto dalla sapiente regia di Lina Wertmüller, si tratta di un vero e proprio trattato socio-politico sulle differenze di genere e di classe, rappresentate da un lato dal maschio comunista (il marinaio Gennarino) e dall’altro dalla donna borghese (la snob Raffaella). Il conflitto è esasperato dal fatto che i due saranno costretti a rimanere su un’isola deserta da naufraghi, condividendo loro malgrado la cattiva sorte. Ma cosa succederà alla loro relazione?

    Prima di raccontare ciò che questa gemma del cinema anni Settanta ha rappresentato per generazioni di cinefili è opportuno precisare ciò che questo film non è: non si tratta propriamente di un film d’amore, se non di un amore tragico e dalla conclusione quasi nichilista. Non si tratta nemmeno di un riassemblamento favolistico sulla falsariga di Incantesimo nei mari del sud (più noto negli anni Ottanta come Laguna blu), come la storia dei due naufraghi che finiscono per innamorarsi potrebbe suggerire allo spettatore non troppo attento. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto è semmai uno dei film più politici mai girati in Italia, e anche uno dei più controversi e discussi: la relazione tra l’insopportabile e frustrata Raffaella (Mariangela Melato) ed il rude e patriarcale Gennarino (Giancarlo Giannini) è una metafora della relazione tra la classe sociale sfruttata e quella sfruttatrice, e naturalmente di cosa succederebbe se quella relazione fosse invertita (l’effetto di una rivoluzione primitiva e senza fronzoli, in sostanza). Se la circostanza oggi probabilmente si capisce poco è soprattutto per via della regressione dialettica che la politica ha subito, diventando uno scontro frontale delle ideologie a singhiozzo, che si richiamano solo quando serve o al limite per denigrare l’avversario. All’epoca dell’uscita del film la percezione era differente, perchè anche un film così finiva per suscitare reazioni più o meno scomposte, provando al contempo a ingenerare un dibattito sensato sui temi della violenza di genere, della lotta di classe e del contesto sociale in cui vivevamo a quei tempi.

    Nell’amore non c’è volgarità… ve la siete inventata voi borghesi, la volgarità.

    Nonostante le difficoltà iniziali Raffaella e Gennarino si adeguano allo stile di vita dell’isola, sia pure tra mille contrasti e prefigurando una forma di amore che, per quanto grottesca, è realistica, al punto potrebbe assimilarsi ad almeno una storia di vita reale che potremmo aver vissuto, stare vivendo o aver sentito da un amico o amica. Il richiamo al primitivismo è l’essenza del film, che prova ad immaginare come vivrebbero due novelli Adamo ed Eva in una società senza tecnologia e senza progressi, declinandosi come film che non riesce a far sorridere senza far riflettere, che non esita a portare il parossismo fino ad una violenza che, di per sè, non ha nulla di scenografico o di puramente visuale.

    La violenza del film, quando compare, è cruda, realistica, inattesa, quasi documentaristica: nella situazione iniziale Raffaella è una borghese colta, fintamente impegnata nella politica e sprezzante verso meridionali e classe operaia in genere, mentre Gennarino è un marinaio che conosce il mondo e possiede “il senso delle cose” e della pratica, al punto che riesce ad organizzarsi per sopravvivere sull’isola deserta senza intoppi. La donna, da sfioratrice del mondo appoggiata sugli allori, dovrà scendere ad inaccettabili compromessi pur di continuare a vivere, riscoprendo una parte di sè sepolta nel proprio inconscio e nel proprio essere spensieratamente borghese. In questo frangente Gennarino diventerà sempre più violento e aggressivo nei suoi confronti, formalmente con il pretesto di insegnare alla donna cosa significa lavorare per vivere, mentre Raffaella subirà passivamente la violenza, nascondendosi dietro un’ambiguo atteggiamento fatto di sopravvivenza, rassegnazione e presunto amore.

    È chiaro che si tratta di un film figlio del suo tempo, che oggi non sarebbe più realizzabile e susciterebbe reazioni ancora scomposte – proprio per quella violenza di cui si parla, decisamente insolita rispetto alla media, che finisce quasi per strizzare l’occhio a certa exploitation del primo Wes Craven o di Mario Bava. Nel momento in cui la relazione tra i due protagonisti si ribalta, infatti, esce fuori il lato oscuro del personaggio di Gennarino, il quale (nonostante la parvenza simpatica e da Peppone della situazione) è un uomo possessivo ed espressione di quello che oggi viene indicato con lo slogan men are trash: un un uomo egocentrato e tendenzialmente violento che considera la donna una preda da braccare. Nonostante abbia subito insulti e soprusi dettati dall’arroganza di Raffaella, in effetti, non è scontato che il pubblico empatizzi con lui. È in questo mood che mi sembra di ravvisare una qualche somiglianza con ciò che suscitano i film exploitation, che all’epoca andavano piuttosto bene e che, ancora oggi, sono difficili da distribuire e popolarizzare (nonostante ci sia una forte nicchia di pubblico che continua a seguirli).

    Chiaro che, con gli occhi di oggi, non bisogna commettere l’errore di considerare il tutto pura graphic violence (come i tarantiniani puri saranno tentati a fare) o peggio, di ergerla a manifesto del politicamente scorretto, addirittura finalizzandolo al voler normalizzare la violenza sulle donne. Il punto infatti non sembra la violenza sulla donna in astratto, ovviamente deprecabile in ogni luogo e tempo (lo dimostra se non altro l’insistere della camera su gesti che prima sono aggressivi, poi sono violenti, ad un certo punto diventano amorosi o sessuali e poi, tragicamente, si assestano come un mix indefinito tra amore e violenza). Nè tantomeno possiamo farci bastare la falsa rassicurazione che sia stata una regista a realizzare l’opera, perchè questo rischierebbe anche involontariamente di depotenziare il senso dell’opera e banalizzarlo. Il focus di Travolti da un insolito destino è invece la relazione politica tra due classi, l’inconciliabilità tra due estremi che hanno rovesciato il loro rapporto in senso rivoluzionario (il naufragio) e pagano le conseguenze della violenza insita in ogni rivoluzione (e da questo sembra trapelare, se non altro, disillusione). Le ripetute botte su Raffaella, unita al suo continuo scandalizzarsi per ciò che accade (addirittura durante le scene d’amore), è una misoginia realistica funzionale a raccontare un fatto politico, a denunciare che una rivolta puramente di pancia porta comunque alla rovina dei protagonisti, su cui lo spettatore non potrà fare a meno di fare delle riflessioni soprattutto in vista del twist finale, mai abbastanza citato quando straziante nel suo incedere: Gennarino rimarrà tragicamente solo per aver dato troppo amore senza rendersene conto, mentre Raffaella tornerà nella zona comfort che detestava.

    Questa prospettiva testimonia che dopo più di cinquanta anni dall’uscita (il film arriva nelle sale nel 1974) molte questioni di genere sono rimaste irrisolte (ed è questo che fa riflettere, alla fine), mentre gran parte della destra e una discreta parte della sinistra continua ad avere seri problemi in fase di accettazione dell’altro, così come ad uscire dagli stereotipi della “donna del popolo” primordiale, controllabile e poco evoluta, ma anche della pluri-citata “bottana industriale” cinica ed opportunista anche in amore. Luoghi comuni, forse, ma che vengono bellamente attribuiti ancora oggi a utenti dei social e influencer, in un mondo popolato di Raffaelle e Gennarini. Quei due protagonisti, forse, siamo noi – e non ce ne siamo ancora accorti.

    Se si guarda il film dalle prime sequenze emergono aspetti dai quali sembra impossibile prescindere: in primis ci troviamo durante una vacanza di benestanti, ma su una barca a noleggio. Non di proprietà, e viene il sospetto che si tratti di esponenti della mid class, nè proletari nè propriamente borghesi. I marinai invece sono tutti meridionali o comunque di umili origini, mentre gli affittuari della barca leggono ostentatamente L’Unità, giornale ufficiale del fu Partito Comunista Italiano. Raffaella, dal canto suo, sembra fin da subito una chic odiosa e distaccata (ostentatamente critica verso chiunque, ma non certo una dei borghesi di Hanno cambiato faccia, per intenderci): critica i comunisti sovietici ma fa discorsi ecologisti, strizza vagamente l’occhio ai progressisti per vezzo ma poi sembra radicata nel mondo agiato e stucchevole a cui appartiene. Perchè la denuncia più forte di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto pone l’accento sul fatto che non basta evidentemente essere rivoluzionari e incazzati contro le palesi ingiustizie che subiamo per cambiare le cose, nè basta una dittatura proletaria per risolvere la questione. La regia, in questo, è ossessivamente concentrata a mostrare ogni dettaglio della nuova vita della strana coppia, mostrando un’isola in cui sembra esserci ben poco da scoprire e quasi nulla per sopravvivere (a parte le uova degli uccelli, i pesci, le aragoste e naturalmente l’amour).

    Se dobbiamo riorganizzare la società, sembra suggerire il film, dobbiamo comunque fare i conti con gli abusi e le degenerazioni che saranno insiti nella natura umana, non semplicemente sfiorare la questione in maniera blanda o teorica come fa la protagonista. Personaggio peraltro incapace di difendersi e costretta a soggiacere all’amore per pura sopravvivenza, travolta dall’insolito destino di essere in balia di un proletario che tutto può giusto su un’isola deserta, ed è condannato ad un’esistenza grama e piatta non appena rientrato nella civiltà.  Che questo film finisca per disturbare per varie ragioni, far sorridere e provocare disagio – o addirittura fastidio – anche dopo mezzo secolo suggerisce, se non altro, l’importanza delle tematiche che tratta, e la loro pressante attualità. Per i due naufraghi la disavventura è un modo, alla fine, per provare a riappropriarsi di se stessi e della propria istintualità repressa, senza riuscirsi e anzi, sacrificando il proprio mondo.

    Ma se vuoi stare qua e vuoi mangiare, devi lavorare! Hai capito?

    Travolti da un insolito destino è considerato molto impropriamente una commedia all’italiana con un messaggio semplice e chiaro, ma i toni risultano multi-sfaccettati, forse più grotteschi che vuotamente divertenti, un po’ come nel mood dell’epoca e di quel tipo di regia (le regie “militanti” sono state molto frequenti negli anni Settanta, e in parte degli Ottanta). Se Roger Ebert elogia questo film e lo fa risalire a L’anima e la carne, del resto, la rivista Première lo annovera tra i 100 film che hanno sconvolto il mondo, nonchè “uno dei film più audaci mai girati”.

    Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1215775

    IMDB si è divertito a snocciolare i temi principali che tratta il film, in una divertente alternanza tra italiano ed inglese (si tratta probabilmente di tassonomie create dagli utenti stessi): la lista fa pensare a ciò che il film non è, letta d’un fiato, anche se effettivamente tutti i temi sono tabù affrontati dal film. Parliamo di sodomy, misogyny, rapporto marito moglie, trophy wife, machismo, upper class, lower class, social class, class society, society, mare, ship, mediterranean sea, rape turns to consensual sex, enemies become lovers, castaway, incagliato, abuso, domestic abuse, yacht, stranded on an island, italiano, slapped in the face, island, role reversal, naufragio, diretto da una donna, razzismo, triple f rated, female topless nudity, survival adventure, poverty, wealth, horny wife, cheating wife, horny woman begs for sex, large breasts, sexually dissatisfied wife, woman humiliates man, wife raped, naked female breasts, comunista, female sex slave, class difference, submissive woman, sex scene.

    Tra momenti di tensione e di ironia sempre ben bilanciati, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” offre in definitiva uno sguardo critico verso la società e le sue convenzioni, spesso con un pizzico di sarcasmo. Se vi aspettate un film leggero, preparatevi a confrontarvi con elementi come la disparità di classe e le relazioni interpersonali complicate, il tutto condito da una buona dose di umorismo e spunti di riflessione.

    Il film è stato girato sulla costa orientale della Sardegna, in provincia di Nuoro, e per qualche tempo è stato previsto un sequel, anche l’idea fu abbandonata dopo la scomparsa di Mariangela Melato. Fu pero’ realizzato un remake, intitolato “Travolti dal destino” (titolo originale Swept Away) diretto da Guy Ritchie e interpretato da Madonna e Adriano Giannini, figlio di Giancarlo. Un film che, in almeno un’occasione, Mariangela Melato stroncò come “orribile”, che non coglieva il senso dell’opera originale, nè nel senso politico nè in quello più sentimentale o sociale.

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