FUORI NORMA_ (31 articoli)

Storie d’eccezione, extra-norma, al di sopra (o al di sotto) della media.

  • Bob Lazar Area 51 and Flying Saucers: un documentario sugli UFO che semina dubbi

    Bob Lazar Area 51 and Flying Saucers: un documentario sugli UFO che semina dubbi

    Si indaga su Bob Lazar, figura molto discussa nell’ambito ufologico: egli sostiene, fin dalla fine degli anni 80, di aver lavorato presso l’Area 51 al reverse engineering di una autentica astronave aliena.

    In breve. Lazar afferma di aver visto astronavi aliene all’interno dell’Area 51, e di conoscere da molto tempo l’elemento 115. La ricerca dei suoi titoli di studio e del suo curriculum vitae, non sempre reperibili, mina la credibilità della storia. Un complotto, una macchinazione ricorsiva o che altro?

    Extraordinary Beliefs è il nome della serie TV che accompagna l’episodio, in cui usualmente indagano su vari misteri, con un taglio ammiccante quanto funzionale al tipo di pubblico a cui si rivolgono. Nell’introduzione, ad esempio, la voce iniziale si interroga sul senso della vita, dell’esistenza e della formazione biologica di ciò che siamo. Subito dopo invita il pubblico a liberarsi di qualsiasi preconcetto, e a seguire l’incredibile storia che verrà raccontata.

    Il contesto: UFO, Area 51 e tecnologie “aliene”

    Le storie di UFO e di alieni sono da sempre al centro di controversie: esistono vari trend all’interno dell’ufologia, a cui si può dare credito o meno, e – al netto di trattazioni dell’argomento più o meno scientifiche o agiografiche – spesso la narrazione diventa puramente di impatto, sconfinando nei lidi dell’horror-fantascientifico (come avviene nei casi di avvistamenti o addirittura di presunti rapimenti da parte di alieni). Il documentario in questione, del resto, pone la questione con una certa prudenza, che nei fatti si traduce in un atteggiamento che non la mette troppo sul piano della credibilità – tant’è che premette la testimonianza dell’intervistatore (il celebre George Knapp) che lanciò per primo lo scoop con una prima intervista a Lazar, nel maggio 1989, che diede il via alle varie urban legend sull’Area 51. Il documentario affastella una serie di affermazioni e sembra più attento, nei fatti, allo storytelling che alla sostanza.

    Che cos’è l’Area 51?

    Area 51 è un nome che echeggia da tempo  su svariati libri più o meno attendibili, annessi all’ufologia (senza contare i siti web che ne parlano in maniera soprattutto sensazionalistica). Si tratta di una struttura negli Stati Uniti di dimensioni territoriali paragonabili alla Sicilia, associata all’Aeronautica e situata nel deserto del Nevada . Zona da sempre borderline e poco pubblicizzata ufficialmente (almeno, fino a qualche tempo fa), ha finito per alimentare teorie del complotto ufologiche di ogni tipo, diventando un po’ l’equivalente del monte Kadath per generazioni di appassionati del settore. Un luogo affascinante, misterioso ed attrattivo sul quale, fino al 2013, non si sapeva nulla di ufficiale (al netto di libri e trattati sul web non sempre troppo rigorosi scientificamente, per usare un eufemismo). Solo da quell’anno in poi, per la cronaca, la CIA ha acconsentito a declassificare i documenti inerenti la zona. Nel 1947 il Roswell Daily Record pubblicò la notizia del ritrovamento di un UFO associandola all’Area 51, che si rivelò solo in seguito (metà anni 90) un sistema di rilevamento dei test nucleari effettuati dall’URSS. Nella realtà, l’Area 51 viene utilizzata soprattutto per vari esperimenti nell’ambito di tecnologie militari degli Stati Uniti.

    Nove UFO presenti nell’area 51?

    Veniamo introdotti nell’Area 51 mediante filmati d’epoca di fine anni 80: una zona in cui, si sospettava già all’epoca, venissero provate armi molto potenti, e si stesse provando addirittura a costruire un veicolo imitando una tecnologia aliena. Si procede con la prima intervista a Lazar, che si presenta non inquadrato chiaramente, e con lo pseudonimo Dennis, il quale parla con KLAS-TV e racconta di aver visto, durante il suo lavoro nell’Area 51, nove veicoli alieni che venivano, secondo lui, dettagliatamente analizzati. Il suo compito, nello specifico, era quello di provare a capire come alimentarli, in modo da rendere quella tecnologia riproducibile. Le affermazioni dell’uomo sono colossali, ed il giornalista Knapp (che vinse all’epoca un premio dalla United Press Internation per il suo lavoro) racconta di aver indagato sulla credibilità della storia. Nel farlo, ricostruisce un puzzle nel quale – a ben vedere – mancano dei pezzi: ad esempio, non risulterebbe alcun titolo di studio acclarato a Lazar, ed alcune aziende dove era stato dipendente hanno dichiarato di non conoscerlo. Nelle liste dei dipendenti di altre aziende, tuttavia, il suo nome risulta (senza un titolo di studio universario, evidentemente, era impossibile entrarci), e senza entrare ulteriormente nel dettaglio si evince che la sua figura potesse essere – quantomeno – quella un tecnico specializzato che aveva operato nell’ambito della fisica avanzata, senza chiarire se a livello junior, senior e via dicendo (come diremmo oggi). Il documentario spiega tali discrepanze in maniera alquanto blanda, sottintendendo la possibilità che possa essere stato vittima di una macchinazione e ribadendo più volte di credere implicitamente alla sua storia.

    Bob Lazar e gli UFO

    Bob Lazar, classe 1956, al centro della narrazione, afferma di aver lavorato per anni nell’Area 51 e che viene riferito da Wikipedia come “cospirazionista” o “sedicente fisico“. Stando allo scaltro storytelling presentato, Lazar avrebbe lavorato ad un progetto riservato presso il sito S-4, dall’atmosfera cupa e militaresca, neanche ci trovassimo dentro The running man di Stephen King (la trascrizione di un’intervista suggestiva è sopravvissuta sul web grazie ad archive.org). Alcune affermazioni in merito, tra cui quella di aver visto due persone lavorare su un autentico alieno, vengono pero’ smentite e ridimensionate.

    Lazar avrebbe anche prelevato – in via non ufficiale – un campione dell’elemento 115, utilizzato secondo lui dai veicoli alieni per compiere viaggi interstellari, e finendo nei guai per averlo fatto (ritrovandosi varie forze di polizia ad ispezionargli casa). Nel documentario sentiamo molto le sue parole, ovviamente, supportate dal succitato Knapp, dalla moglie e dalla mamma di Lazar, a volerne evidentemente umanizzare la figura. Il tutto a voler suggerire – come è prassi per questo format, del resto – una sorta di “argomento” a supporto delle sue affermazioni.

    Cosa cambia crederci o meno, oggi, in tempi pandemici ed imprevedibili come quelli che viviamo? Poco o nulla, penso, ma al tempo stesso la gente rimane incollata alla poltrona a vedere documentari del genere. E fermo restando che, ovviamente, non credere a Bob Lazar non significa essere scettici a prescindere verso l’esistenza di forme di vita extraterrestri, il documentario è certamente gradevole e ricco di suggestione. Certo è che, come in qualsiasi film di fiction, è bene fare affidamento sulle massime doti di sospensione dell’incredulità, prima di vederlo, anche perchè il target di pubblico è chiaramente incentrato sul mood “I want to believe” (parafrasando il titolo del film di Chris Carter del 2008 tratto dalla serie X-Files).

    Bob Lazar: Area 51 and Flying Saucers è disponibile su Netflix per chiunque fosse interessato a guardalo. La suggestiva voce narrante, per inciso, del documentario (disponibile con sottotitoli in italiano) è di Mickey Rourke.

  • Ultracorpo: una fantascienza intelligente che riflette sulla discriminazione di genere

    Umberto lavora come idraulico, è il classico “uomo medio” insicuro e al tempo stesso affetto da machismo, il quale soddisfa la propria sessualità barcamenandosi, con pochi soldi, tra prostitute e pornografia. Per pura necessità un giorno finisce a casa di un ragazzo all’interno di un quartiere popolare: questi è omosessuale dichiarato, e la situazione provocherà una forte mutazione interiore…

    In breve. Interessante cortometraggio thriller cosparso di citazioni (a partire ovviamente dal cult dei celebri body snatchers, e finendo con una rappresentazione dell’orrore interiore da vero cinema d’autore), viene proposto come forte atto di denuncia anti-omofoba. Non tutti i personaggi sono curati con la stessa intensità, ed esiste per la verità qualche pecca a livello narrativo: ma il risultato colpisce dritto nel segno ugualmente, pur contenendo una sola vera sequenza allucinatoria riconducibile all’horror. Il resto è psicologia, e riesce a fare molta più paura.

    All’interno del mercato globalizzato e conformistico all’italiana, una ventata di aria fresca fa sempre piacere. E questo piccolo gioiello del regista Michele Pastrello certamente riesce ad andare orgogliosamente (e con intelligenza: non era facile) in controtendenza rispetto al “volemose-bene” che regna sovrano da diversi anni nelle nostre distribuzioni più grosse, riuscendo a farsi carico di un importante messaggio sociale senza alcun appesantimento. Film tecnicamente notevole, dotato di una fotografia suggestiva e tipicamente metropolitana, Ultracorpo parte da una celebre citazione del quasi omonimo film per arrivare a collegare, in modo forse prevedibile, il “baccello” alieno con una trasformazione interiore del protagonista. Una mutazione facile da indovinare, così come non sarà difficile intuire lo sviluppo delle vicende: un uomo come tanti, vittima delle proprie assurde convizioni che viene sopraffatto dal lato oscuro del cambiamento, e finisce per cambiare per sempre. Un passaggio che merita una visione per sua fortissima attualità: perchè la solitudine di Umberto, costellata di cura per il corpo nella palestra di casa e istinti repressi che tardano ad uscire fuori, esplode nella violenza nel modo più inatteso, e lascia un messaggio forte e chiaro. Un qualcosa che, nell’Italia delle aggressioni facili contro i “diversi”, lascia svariati spunti di riflessione.

    Il mio nome è Umberto. E sta succedendo qualcosa in me. Sì, c’è qualcosa che non va. Non ho un soldo in questi tempi di crisi, vivo in una vecchia casa che mi ha lasciato mia madre e devo accettare qualsiasi sporco lavoro pur di non sprofondare. Ma lì, in quel cesso di posto non dovevo andarci, non dovevo accettare. Maledetti soldi. Ora sono qui, con lui. No, ora se n’è andato, ma sento che i suoi occhi continuano ad osservarmi. Ce ne sono altri come lui in giro, ti attraggono a loro, l’ho capito ora ma non mi faccio ingannare. Sento che vuole il mio corpo: sento che può entrare. E’ un incubo. Devo rimanere sveglio e all’erta.

  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.

  • Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten, per quanto mi risulta, è uno dei film in assoluto più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (forse!) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito nel mentre. Ce ne vuole, ad essere onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate negli oscuri horror nipponici o tedeschi: ma nel frattempo il pubblico resta annichilito, e della visione (alla fine dei conti) sopravvive poco o nulla. Sta di fatto che è uno dei film più noti di Merhige, partorito nel 1991 e parte della visionaria esperienza artistica di un regista che, tra le altre cose, ha diretto alcuni dei video musicali più famosi di Marylin Manson.

    In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente suicida, una “mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla fruibilità “usa e getta” delle serie TV e dei cortometraggi virali a cui siamo abituati. Begotten è un viaggio di sola andata, che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente – farvi maledire il regista Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto, senza sbirciare la trama, tanto meglio, ma il senso del film rimane sproporzionatamente più piccolo rispetto al linguaggio utilizzato.

    Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista sui generis molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero, senza dialoghi con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, i quali (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili.

    Il regista Elias Merhige, classe 1964, il cui cognome dovrebbe pronunciarsi come marriage (matrimonio), è noto al pubblico soprattutto per L’ombra del vampito del 2000, e per aver diretto questo unicum del genere affiancato ad alcuni video musicali di Marilyn Manson (Cryptochild e Antichrist superstar, di quello che potrebbe considerarsi il periodo d’oro della produzione di Manson). Merhige esordisce a teatro e pensa a Begotten come opera di teatro sperimentale, mettendolo in scena per un breve periodo. Ad oggi dovrebbe lavorare esclusivamente sui palchi, dopo un terzo e ultimo lungometraggio dal titolo Suspect Zero, del 2002.

    Ascolta il podcast di questa recensione

    L’ermetismo di Begotten

    Nelle notissime Memorie di un malato di nervi l’autore Daniel Paul Schreber racconta della nascita della propria psicosi, seguito di un’educazione rigida e severissima da parte del padre, nei termini di una comunicazione tra i suoi stessi nervi e Dio in persona: scrive infatti che Dio propriamente, in base all’ordine del mondo, non conosceva l’uomo vivente e nemmeno aveva bisogno di conoscerlo: bensì aveva rapporti solo con cadaveri. In Begotten le danze si aprono sulla morte di Dio, intesa in senso letterale e sostanzialmente blasfemo dato che è Dio stesso a suicidarsi. Se quella era l’espressione del singolare misticismo materialista che vive l’autore, e che lo porta ad esprimere la propria visione nevrotica del mondo come agglomerato di raggi e nervi in grado di comunicare a distanza, in Begottone c’è una sequenza altrettanto lacerante e significativa. La morte di Dio che coincide con la nascita del mondo,

    All’interno di quella che sembra una piccola baracca, una figura vestita – descritta come “Dio che si uccide” nei titoli di testa – si sventra con un rasoio a mano libera e muore dopo avergli aperto l’addome e rimosso alcuni dei suoi organi interni. Una donna, che rappresenta la Madre Terra, emerge dai suoi resti mutilati. Porta il cadavere all’eccitazione e usa il suo sperma per fecondarsi. Il tempo trascorre e la Madre Terra, visibilmente incinta, sta accanto alla bara del dio morto. Vagando in un mondo vasto e desolato, dà alla luce il Figlio della Terra, un uomo malformato e convulso. Un figlio che verrà presto abbandonato dalla madre, lasciato a se stesso.

    Di Designer unknown. The film's production company is Theatreofmaterial. – Propaganda magazine no. 18 (Spring 1992), p. 38 (via the Internet Archive). A similar logo was later used on home media releases of the film—see, for example, the logo on the 1995 VHS tape. Extracted from scan into PNG by uploader., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93449283

    La tendenza all’ermetismo in Begotten è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza una trama che risulti lampante. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate, che effettuano strani rituali e sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, un espediente efficace per obbligare il pubblico a vedere  il film fino alla fine prima di emettere giudizi.

    Significato di Begotten

    Begotten: letteralmente significa generato, procreato, il che suggerisce che il film abbia a che fare con il processo della nascita (e sembra proprio essere così). Ad un secondo livello, begotten sembra un termine utilizzato a livello mistico-religioso, con frasi che richiamano al concetto di unigenito (l’unico generato, nella teologia cattolica è Gesù).

    Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione apparente, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non approfondire la trama perchè, in fondo, è davvero essenziale e sarebbe imperdonabile banalizzarla attraverso la sintesi. Begotten non è altro che un’insostenibile carovana di orrore distillato da cineforum, reso suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, in qualche modo.

    Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige – a mettere in guardia il suo pubblico (chiunque esso sia) a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari, ed emergono davvero molto raramente). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia  soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorta, espressa in chiave horror-concettuale.

    Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi privi di senso. Tutto sommato l’idea è buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per declinare il tutto in una sorta di elitarismo intellettuale. Forse, inoltre, si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – rischia solo di annoiare.

    Le scene presentano comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potrebbero gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi a livello sperimentativo.

    Begotten è noto per il suo stile visuale unico e disturbante, creando una sensazione di surreale oscurità.  “Begotten” è un film sperimentale in cui il concetto visivo prevale sulla narrazione convenzionale. La trama è aperta all’interpretazione e il film si presta a una varietà di interpretazioni filosofiche e simboliche. Data la sua natura altamente sperimentale e avanguardista, il film è stato accolto con opinioni molto varie dalla critica e dal pubblico.

    I più curiosi, a questo punto, vorranno quasi certamente cimentarsi a vederlo.

    Regia e Ideazione

    Il film è stato diretto da E. Elias Merhige, che ha anche ideato il concetto. Merhige voleva creare un’esperienza visiva e cinematografica intensa, prendendo ispirazione da influenze artistiche come l’espressionismo tedesco e il cinema surrealista.

    Sceneggiatura

    La sceneggiatura di “Begotten” è stata scritta da E. Elias Merhige. La trama è minimalista e l’attenzione è posta principalmente sull’aspetto visivo e sperimentale del film. La trama segue il ciclo della creazione, morte e rinascita attraverso una serie di scene surreali e disturbanti.

    Produzione

    La produzione del film è stata realizzata anch’essa da E. Elias Merhige. A causa del suo stile unico e sperimentale, il budget del film è stato limitato. Merhige ha utilizzato tecniche di ripresa insolite per creare l’atmosfera inquietante del film, tra cui la sovraesposizione delle immagini e la manipolazione in post-produzione.

    Cast

    Il film presenta un cast molto ridotto e praticamente semi-anonimo, dato che l’accento è posto più sulla rappresentazione simbolica che sui personaggi identificabili. Alcuni dei membri del cast includono:

    • Brian Salzberg nel ruolo di “Dio”
    • Donna Dempsey in quello della “Madre”
    • Stephen Charles Barry in quello del “Figlio della Terra”
  • INLAND EMPIRE: il David Lynch più criptico di sempre

    Trovare una spiegazione per INLAND EMPIRE sarebbe come voler fare un buco nel muro con un cucchiaino: difficile, non impossibile e da pianificare solo in caso di reale necessità. Del resto già il titolo – reso un po’ malamente come “L’impero della mente” piuttosto che un più letterale “Impero Interiore“, risulta piuttosto ostico e “spaventoso” per il pubblico mainstream, per il quale tutto deve essere razionale, lineare, comprensibile, happy-end incluso. Guai ad azzardare di inscenare, per esempio, uno pseudo-serial televisivo fatto da attori con la testa di coniglio.

    In breve: un Lynch estremamente criptico per uno dei film più complessi e lunghi mai girati dal regista. La sostanza non manca, la forma eccelle come sempre ma l’impressione è che ci sia troppa “carne al fuoco”.

    Del resto Lynch, da tempi non sospetti, fa il meno possibile per rivolgersi al pubblico ordinario di maggioranza: quello tutto popcorn, risate grasse, mostri finti ed eroi rassicuranti. Ancora una volta non fa che “divertirsi” a disorientare il proprio pubblico, proponendo due (tre?) storie diverse innestate nei modi meno prevedibili, e provocando un curioso feedback: molto spesso, infatti, le sue opere precedentemente “maledette” vengono regolarmente rimpiante a discapito di quelle attuali. E’ quello che accade quando molti recensori rivalutavano Mulholland Drive oppure il capolavoro “Strade perdute”, mandando le peggiori maledizioni contro INLAND EMPIRE, accusandolo di essere troppo distante dal pubblico, troppo soggetto a molteplici interpretazioni ed eccessivamente vaporoso nella sua struttura. Del resto da sempre proporre un’opera “difficile da capire” autorizza la critica, mediante un meccanismo che non ho ancora troppo chiaro, a far partire un tiro al bersaglio moralistico alla ricerca di difetti, trascurando malignamente qualsiasi valutazione di contenuti e di forma (vedi le reazioni negative all’uscita di Inferno di Dario Argento, ad esempio).

    “…come nel buio di un teatro, prima che la scena si illumini”

    Se la trama di INLAND EMPIRE è nella sua componente realistica piuttosto semplice: Nikki Grace, un’attrice sposata con un uomo piuttosto influente e pericoloso, riesce ad ottenere un ruolo (quello di Sue) in un film importante. Si tratta di un soggetto ripreso da un lungometraggio abbandonato a causa dell’omicidio dei due vecchi protagonisti, dal titolo “47” . Dopo qualche tempo finisce a letto con il coprotagonista Deron Berk (che interpreta Billy, ed è suo amante sia nel film girato che nella storia raccontata, a quanto pare), scatenando così una serie di allucinazioni spaventose. Nel frattempo le riprese del film proseguono senza sosta, mescolando spesso e volentieri quello che accade nella fiction con quello che avviene realmente tra Deron e Nikki. Sono le “conseguenze delle proprie azioni“, in concreto, ad essere il traino di tutto l’ intreccio di INLAND EMPIRE. La protagonista subisce infatti queste sconnesse visioni, in cui è impossibile capire cosa sia reale e cosa immaginato: incubi che sono dovuti al senso di colpa per quello che ha fatto (ammesso che l’abbia fatto davvero, o soltanto pensato), e alla reazione a catena che quel gesto  ha causato (i rapporti difficili col marito Piotrek, forse anche la perdita di un figlio). Ciò nasconde la doppiezza (o la molteplicità) contraddittoria del carattere della mite Nikkie, che mostra progressivamente una natura ambigua e addirittura violenta. Lynch riesce a boicottare l’essenza hollywoodiana rigirando la frittata non sul fornello di una cucina, ma direttamente nella centrifuga di una lavatrice, inserendo una marea di riferimenti simbolici che lo rendono forse facilmente accusabile di fare cinema “per adepti”.

    Tre sono gli elementi essenziali di INLAND EMPIRE: il grammofono che suona “Axxon N“, la “lost girl” (una prostituta) che piange guardando la TV e la famiglia di conigli antropomorfi, in cui il capofamiglia racconta di avere un “terribile segreto” da nascondere. Altro elemento essenziale è il valore profetico di alcuni personaggi, tra cui l’inquietante vicina che dice di sapere che l’attrice avrà una parte, e che la trama del film avrà a che fare con una relazione amorosa e con un omicidio. Laura Dern ha testimoniato in un’intervista che non conosceva i dettagli della storia durante le riprese, tant’è che Lynch ha cambiato le carte in tavola senza preavviso più volte, mettendo in scena i consueti doppi – nello specifico, due attori che recitano due parti – e mostrando un’immedesimazione profonda, che non fa capire se i due stiano recitando o vivendo sul serio le situazioni. INLAND EMPIRE inscena sottili analisi psicologiche, forse un po’ troppo cariche di richiami ad “altro” : “We are like the spider. We weave our life and then move along in it. We are like the dreamer who dreams and then lives in the dream. This is true for the entire universe“, è stato riferito come “indizio” da Lynch più volte, ed è tratto dal testo religioso-filosofico Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. I richiami non sono mai, comunque, vuotamente auto-referenziali: alcuni magistrali primi piani, che fanno paura solo a guardarli, servono a dipingere magistralmente la confusione dei personaggi ma si presentano troppo spesso come semplici suggestioni. Non mancano, poi, momenti satirici contro la TV plastificata attuale: penso al serial coi conigli ed alle risate nei momenti più inopportuni, oppure all’intervistatrice che fa battute dal sapore trash ammiccando ad una relazione clandestina tra i due attori prima che la stessa avvenga. Se a questo aggiungiamo una punta di acredine nei confronti di Hollywood  – basta ascoltare i primi mielosi dialoghi di “On High in Blue Tomorrows” per intuirlo – ci rendiamo conto che INLAND EMPIRE è un film “di nicchia”, fuori da qualsiasi standard anche del cosiddetto “buonsenso” (tre ore di film). E che tutto sommato, forse, il film che stavano girando non era poi così male, visti gli sviluppi successivi…

    “È tutto ok, stai solo morendo”

    L’impero interiore è, probabilmente, quello che tormenta un po’ tutti i protagonisti, vessati chi da difficoltà sentimentali (i due attori che vivono un’attrazione reciproca che nascondono malamente, e che esaltano attraverso la propria arte), chi da altre di natura economica (la prostituta con la faccia “censurata” all’inizio, oppure l’assistente alla regia Henry che ripete una frase dal sapore beckettiano: “sembra solo ieri … che riuscivo a badare a me stesso“). I conigli, poi, sembrano rappresentare in modo grottesco la famiglia di Devon (o Billy?), cosa visibile nel momento in cui Nikki (o Susan?) prova a telefonare a casa loro, con tanto di risate registrate anche lì. Un regno fantasioso e contorto in cui tutto diventa possibile, e che mescola vari livelli di realtà ed immaginazione. INLAND EMPIRE non è un capolavoro, e mi guardo bene dal dirlo: Lynch in questa circostanza ha giocato troppo sul disorientamento, su continui flashback (o flash-forward?) che appaiono pero’ disposti quasi a casaccio, e diventa difficile superare i tre quarti dell’opera senza volersi prendere quantomeno una pausa. Se da un lato è chiaro (?) che si vuole rappresentare il turbine di emozioni in conflitto della protagonista (una favolosa Laura Dern assieme ad un Justin Theroux ed un Jeremy Irons altrettanto all’altezza), forse è meno scontato pensare, ad esempio, che le nove “amiche immaginarie” rappresentino le multiple personalità di Nikki/Susan. Ciò diventa piuttosto evidente nei momenti in cui la donna, visibilmente turbata, schiocca le dita contemporaneamente alle proprie alter-ego che sembra vedere soltanto lei. Un espediente non certo innovativo ma molto efficace, utilizzato anche, ad esempio, da John Carpenter e James Mangold. Mentre quindi in “Strade perdute” Ghezzi aveva scomodato il nastro di Moebius per spiegare efficacemente l’intreccio, in questa circostanza non credo basterebbe un cunicolo spazio-temporale per capire qualcosa in più, ammesso che abbia senso provarci. Se la trama non scorre e non si hanno riferimenti, c’è poco da fare: il film non gira alla perfezione, il regista lascia troppe cose sul vago e, a mio parere, rischia di far degenerare l’opera in un vuoto contenitore. Un container di emozioni reali, di personaggi vivi, di certo non plastificato, sicuramente di spessore e girato con originalità, ma troppo carico di astrattismo e di “esercizi di stile” senza uno sbocco chiaro.

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