FILM TIPO SQUID GAME_ (7 articoli)

Quali sono i film simili a una delle serie Netflix più famose e viste di sempre, ovvero quella girata da Hwang Dong-hyuk? Abbiamo fatto una selezione di film a tema, dopo averne visti un bel po’, che potrebbero piacerti in caso tu apprezzi questo genere. Eccoti, pertanto, senza altro indugio alcuni film tipo Squid Game che potresti apprezzare.

Se stavi cercando film sulla falsariga della celebre serie TV di Netflix girata da Hwang Dong-hyuk, eccoti qualche suggerimento.

  • Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Seguito di Hostel molto efficace sempre dello stesso regista, offre nuove suggestive e violentissime visioni, oltre a qualche sprazzo di caratterizzazione dei personaggi ed il sano revival da revengemovie anni 70-80.

    Il film si apre con un misterioso individuo che brucia all’interno di un forno documenti, fotografie, vestiti ed oggetti personali dei ragazzi massacrati – evidentemente – nel primo episodio: tiene per sè stesso soltanto il denaro. Nel frattempo i titoli di testa annunciano che si tratta di un film di Eli Roth, con la partecipazione tra gli altri di due volti ben noti del cinema italiano: Luc Merenda ed Edwige Fenech.

    Ci parli un po’ di questo posto in Slovacchia

    E’ un vecchio fabbricato… in cui delle persone molto ricche pagano per uccidere dei ragazzi

    Paxton – sopravvissuto al precedente episodio – sente su di sè una comprensibile apprensione che lo porta ad avere incubi tremendi: nel primo di questi, splendidamente disegnato dal regista, viene interrogato da un inquietante ambasciatore slovacco che prima insinua il suo coinvolgimento nell’omicidio del suo precedente aguzzino, e poi lo pugnala senza pietà. Neanche il tempo di capacitarsi della terribile visione notturna che finisce decapitato dalla Confraternita, al cui capo (Sasha) viene consegnata la testa del ragazzo all’interno di una scatola.

    Seppur mantenendo dinamiche da classico b-movie – le studentesse a caccia di avventure, lo stereotipo di nerd al femminile, il presunto maniaco che esce fuori immancabile dopo qualche minuto, i bravi ragazzi che non sono tali – sviluppa in modo molto originale il tema, inserendo spunti abbastanza imprevedibili. Eli Roth è, da buon seguace di Tarantino, affetto da una inguaribile mania citazionista: tanto per citare le prime tre, inserisce la Fenech – protagonista di gialli ed erotici italiani a cui il film si ispira – nei panni della rassicurante insegnante di belle arti; successivamente delinea il clima di paranoia claustrofobica all’interno del treno (citazione quasi letterale da “L’ultimo treno della notte di Aldo Lado”), e come se non bastasse mostra due avvenenti fanciulle che guardano Pulp Fiction dentro l’ostello. Come sempre, come non mai, l’oggetto dell’orrore è la crudeltà e l’avidità umana: siamo noi, nel nostro lato peggiore e più morboso.

    “Che cosa farai lì dentro?”

    “Non vorresti saperlo”

    Non dimentichiamo che si tratta di un sequel, ad ogni modo: la tensione impalpabile del primo episodio è in parte smarrita, visto che il pubblico sa già dove si andrà a parare anche se, a conti fatti, è una buona scusa per ricalcare ed approfondire con una certa verve sarcastica quello che è il messaggio del film. I ragazzi dell’ostello sono venduti letteralmente all’asta, mentre i ricchi di tutto il mondo giocano al rialzo (chi col palmare, chi con il PC, chi con un cellulare) mediante una sorta di mercato online della morte che potrebbe ricollegarsi alla presunta dinamica degli snuff-movie.

    La Confraternita prevede che i ricchi killer vengano tatuati: ma “un tatuaggio non è facile da spiegare” afferma candidamente il padre di famiglia Stuart (apoteosi di humor nero: evidentemente pagare per uccidere qualcuno è più semplice!). Del resto, come avrebbe giustificato l’orrido disegno sulla pelle agli occhi della moglie che, a suo dire, “non ha una mente molto elastica“?

    Il personaggio contraddittorio di Stuart, peraltro, è quello che da’ una certa svolta ad “Hostel 2” rispetto al suo predecessore: c’è tempo per accorgersi che l’uomo sta visibilmente male, che non sa affrontare i propri problemi e che sembra praticamente un perfetto incapace, impedito anche nel torturare la povera Beth. Il pubblico non fa in tempo a tentare di identificarsi in lui che, all’improvviso, rivela la propria anima nera come la pece: esattamente il contrario accade con il suo amico Todd, odioso ed arrogante fin dall’inizio, ma tutto il male fisico che riuscirà ad infliggere sarà dato praticamente per caso, fino alla sua morte.

    (Beth rivolta ad Axelle) “Allora tu e Sasha state…”

    “Oh no, santo cielo, potrebbe essere mio padre!”

    Nulla è casuale in questo film, tutto è sadicamente e millimetricamente misurato: come la suggestiva scena della novella contessa Bathory – che uccide a colpi di falce e fa sanguinarsi addosso, stando completamente nuda, la povera Lorna. Oppure l’immancabile baby-gang  castigata ferocemente da Sasha con un colpo in testa per aver osato tentare di aggredire una delle preziose ragazze, pagate ognuna decina di migliaia di euro. Del resto il clou del film sta proprio nel modo in cui Beth si trova a salvarsi: dopo aver sedotto il proprio aggressore, esalta la tradizione del revenge-movie, prima trafiggendo un orecchio del suo carnefice e poi, neanche a dirlo, castrandolo con una cesoia. Guarda caso anche qui la donna bella e aggressiva è un ulteriore stereotipo preso in prestito da Quentin Tarantino, ma saranno esclusivamente le sue doti monetarie ad avere la meglio e a concederle di non violare comunque il contratto: il gioco prevede comunque la morte, per cui Stuart – con il quale sembrava quasi avere feeling, all’inizio – dovrà semplicemente morire dissanguato. Nessuna speranza e solo morte che ritorna, dunque, con la macabra decapitazione finale di Axelle da parte di Beth, e la cui testa diventerà un vero e proprio pallone da calcio per la baby-gang (collegamento, forse inconscio, con i tifosi che infastidivano le ragazze in treno all’inizio).

    A mio avviso se non fosse per la poco incisiva “storia” tra la saggia e cinica Beth ed il frustrato Stuart, staremmo davvero a parlare di un incredibile capolavoro di Roth, che comunque merita di essere visto ed è, senza dubbio, per pubblico dallo stomaco d’acciaio.

  • El hoyo – Il buco è un horror concettuale molto potente

    Il film “The Platform” (noto anche come “El Hoyo” in spagnolo) è un film di genere horror / fantascienza diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è uscito nel 2019, ed è una produzione spagnola.

    Trama / Sinossi

    Goreng accetta di farsi rinchiudere in una singolare prigione verticale, regolamentata da rigidi rapporti di gerarchia: un’unica tavola imbandita, che rimane ferma su ogni piano per pochi minuti. Chi abita ai piani superiori, di fatto, cede un’arbitraria razione di cibo a quelli dei piani successivi.

    In breve. Horror claustrofobico, simbolista e ricco di suspance, che riporta il genere alla sua dimensione più estrema.

    Recensione

    Il giurista e filosofo Jeremy Bentham, tra i padri fondatori dell’utilitarismo e del liberalismo, intorno alla fine del 1700 scrisse il Panopticon, un saggio che ideava un particolare tipo di prigione: alla base della sua progettazione vi era una sorta di “grande fratello“, insito nella struttura stessa dell’edificio, e costruito in modo tale che ogni detenuto non potesse mai sapere, di fatto, se venisse sorvegliato o meno. Sono gli stessi principi che ispireranno 1984 di Orwell, ma anche Sorvegliare e punire di Michel Foucault: tutti alla base di buona parte del sottogenere del cinema distopico ispirato alla detenzione. In questo film, come di consueto, traspare una consueta visione cupamente pessimista, del tutto estranea a qualsiasi spirito di solidarietà ed ispirata all’homo homini lupus, che poi degenera in un misticismo esistenzialista e rimette in discussione il concetto di lotta di classe.

    Un panopticon nella forma immaginata da Jeremy Bentham, ricostruito artificialmente con Midjourney

    Con questo elaboratissimo spirito di fondo, il regista Galder Gaztelu-Urrutia (classe 1974, al suo primo lungometraggio) ci proietta in una dimensione claustrofobica e surreale, con questo lavoro distribuito su Netflix e l’unico primordiale difetto di un titolo fin troppo ermetico: Il buco (El hoyo), che in inglese è stato reso fose più significativamente come The platform. Fin dall’inizio i richiami a Cube di Vincenzo Natali sono evidenti, sia a livello narrativo che architettonico: i personaggi sono in trappola, disorientati e confusi, mentre la struttura della prigione non è labirintica, bensì interamente in verticale. Emblematico, ovviamente: gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero hanno posto il focus su una struttura che dovrebbe simboleggiare quella della nostra società, fatta di rapporti di forza e gerarchie insindacabili. Rapporti di sudditanza, insomma, guerre tra poveri e ancora più poveri – che vengono resi particolarmente grotteschi e sgradevoli: fin dall’inizio è chiaro che si gioca, infatti, sulla tortura mentale e fisico-corporali di ogni detenuto, e fa davvero impressione accorgersi che ogni coppia di essi sia costretta a nutrirsi di ciò che avanza dai livelli superiori.

    “I cambiamenti non si producono mai spontaneamente”

    Mentre inizialmente scorrevano le immagini della cucina di un ristorante, ci viene ricordato che esistono tre categorie di persone: quelli che stanno sopra, quelli che stanno sotto e quelli che, invece, precipitano. Nell’idea del brillante regista, l’architettura riflette una relazione rigidamente gerarchica, in cui gli abitanti dei piani alti sottomettono quelli dei piani bassi: e a nulla vale, in tal senso, qualsiasi tentativo fatto dal protagonista (Goreng) di familiarizzare, chiedere collaborazione o solidarizzare. Piuttosto dovrà difendersi da subito da un inquietante compagno di cella, l’avido Trimagasi che pensa solo a divorare qualsiasi cosa e che, probabilmente, ha pure praticato il cannibalismo. Il parallelismo con le atmosfere exploitation modello The human centipede, a questo punto, sono lampanti: con l’unica differenza che i corpi cuciti chirurgicamente sono stati rimpiazzati da un edificio sinistro e impersonale, in cui semplicemente si agisce per la rispettiva sopravvivenza (e spesso a spese altrui).

    Perchè i personaggi sono rinchiusi nella prigione?

    Non è chiaro cosa ci facciano lì i personaggi, se non a grandi linee: ma è interessante accorgersi che si risveglieranno, in giorni differenti, in livelli apparentemente casuali, sperimentando così sia il punto di vista degli oppressi che quello degli oppressori. Ogni punto di riferimento ulteriore è stato rimosso: a differenza di un altro film analogo come The experiment (e viene in mente, per certi versi, anche l’ottimo The divide), la poetica di Galder Gaztelu-Urrutia non è troppo esplicita, e c’è ovviamente da augurarsi che ciò avvenga nelle sue prossime produzioni. Se si tratti di un test di volontari, cosa rappresenti il ristorante (se fossimo negli anni 70 non ci sarebbero dubbi: la società capitalista) non sarà del tutto chiaro, in favore di un’atmosfera sempre più lugubre, che diventa mistica sul finale. Quello che riusciamo ad intuire, per quello che vale, è che la struttura è popolata sia da volontari che da vittime, che esiste un’amministrazione (rappresentata da un’algida e sinistra signora che propone un colloquio conoscitivo al protagonista), che vengono (forse) rilasciati dei “diplomi” a chi riesce a sopravvivere e che, infine, il passaggio tra i vari piani non sembra seguire una logica meritocratica di alcun genere.

    Piani del buco come allegoria della lotta di classe

    La “lotta di classe” è un concetto chiave nella teoria marxista e in altre teorie politiche e sociologiche. Rappresenta il conflitto o la tensione sociale che sorge dalla divisione della società in classi socioeconomiche con interessi e obiettivi divergenti. Nel film in questione viene mostrata in modo sottinteso, non citata esplicitamente, ma è presente una struttura che potrebbe richiamarsi a quel ruolo, soprattuo nei termini delle disparità sociali ed economiche tra molto ricchi e molto poveri.

    Nei livelli inferiori, pertanto, si lotta nichilistamente per nulla, dato che il cibo scarseggia e perché nessuno dei detenuti, di fatto, ha razionato il cibo in precedenza: semplicemente, non c’è più niente per cui combattere. Tra un inciso cannibalico, qualche allucinazione lynchiana e l’onnipresente riferimento all’opera Don Chisciotte, si discende eroicamente fino al numero 333, facendo dedurre che il numero di carcerati, che sono due per piano, sia esattamente 666: il biblico Numero della Bestia. I casi sono due, a questo punto: che il regista abbia voluto infilare una sorta di easter egg nel suo film, oppure che il tutto abbia una valenza effettivamente mistica (come effettivamente suggerirebbero gli ultimi minuti dell’opera ed il suo finale). Questo viene legato ad una spiegazione numerologica del finale, che è abbastanza chiaro: la risalita rappresenta la redenzione, mentre gli altri, vittime o carnefici che siano, rimangono all’inferno, che viene quindi messo a fuoco con la  simbologia dantesca dei gironi.

    Sono anche dell’idea che un’ulteriore chiave di lettura possa, materialisticamente, essere quella dell’opera di Miguel de Cervantes Saavedra, i cui versi conclusivi sembrano adattarsi bene al personaggio protagonista (l’hidalgo è un nobile, per inciso).

    Giace qui l’hidalgo forte

    che i più forti superò,

    e che pure nella morte

    la sua vita trionfò.

    Fu del mondo, ad ogni tratto,

    lo spavento e la paura;

    fu per lui la gran ventura

    morir savio e viver matto

    In definitiva, quindi, un buon film, deviato piacevolmente dalla media del genere, piuttosto crudo in vari passaggi e che riesce a proporre una metafora (neanche a dirlo, sulla società in cui viviamo) piuttosto marcata. Il tutto, tanto per cambiare, senza perdersi in formalismi o pretenziosa ricercatezza.

    Spiegazione del finale

    Avviso Spoiler: La seguente risposta contiene dettagli sulla trama e sul finale del film “Il Buco” (titolo originale “El Hoyo”), quindi se non hai visto il film e non vuoi conoscere gli eventi chiave, ti consiglio di smettere di leggere qui.

    “Il Buco” è un film spagnolo del 2019, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è noto per le sue tematiche allegoriche e il suo finale aperto, che lascia spazio a diverse interpretazioni.

    La trama del film si svolge in una prigione verticale composta da numerose celle sovrapposte. In ogni cella, due detenuti sono bloccati per un periodo di tempo determinato e, durante questo periodo, devono condividere un’enorme piattaforma di cibo che scende attraverso i livelli. Il problema è che il cibo viene preparato solo all’inizio e la quantità diminuisce man mano che la piattaforma scende verso i livelli inferiori. Quindi, i detenuti dei piani superiori possono mangiare abbondantemente, lasciando sempre meno cibo per quelli ai piani inferiori.

    Il protagonista, Goreng, cerca di sopravvivere a questa situazione disumana insieme a vari compagni di cella mentre attraversa diversi livelli della prigione. La trama del film esplora temi di disuguaglianza sociale, solidarietà e lotta per la sopravvivenza.

    Il finale del film è aperto e ambiguo. Goreng e la sua compagna di cella Baharat cercano di raggiungere il livello più basso, dove sperano di diffondere il messaggio sulla necessità di condivisione e solidarietà tra i detenuti. Alla fine raggiungono il fondo, dove trovano una bambina che sembra rappresentare la speranza per un futuro migliore.

    L’interpretazione del finale può variare. Alcuni spettatori vedono la bambina come un simbolo di speranza e la volontà di cambiamento, mentre altri vedono il finale come una sorta di circolo vizioso, in cui la lotta per la sopravvivenza continua anche nei livelli più profondi della società.

    In generale, “Il Buco” è noto per la sua natura allegorica e aperta all’interpretazione, e il suo finale lascia spazio a diverse letture sulla condizione umana, la società e la possibilità di cambiamento.

  • Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Un matematico sembra in procinto di scoprire un modello che possa prevedere le quotazioni in borsa: nel frattempo viene spiato da alcuni dirigenti di Wall Street, ed un gruppo di ebrei ortodossi lo contatta perché interessati ad approfondire la numerologia della Kabala…

    In breve. Un buon film “indie“, piuttosto impegnativo dal punto di vista concettuale (specie se non avete idea di “dove stia di casa” la matematica), ma altrettanto interessante sul piano filosofico: indaga sui misteri della mente e sulla smània di scoprire l’ignoto, portando il tutto ad estreme conseguenze, con tanto di allucinazioni lynchiane e qualche sprazzo di horror letteralmente “cerebrale”.

    Rielaborando astutamente il mito di Icaro, il regista Aronofsky elabora una sceneggiatura che ricorda una versione underground di “A Beatiful Mind” e che, di fatto, risente pesantemente di tutto un cinema di fantascienza, nel quale le attività del protagonista si ripercuotono in modo alienante sulla sua vita di ogni giorno. Il matematico Max è l’archetipo di nerd troppo cresciuto: uno scienziato solitario ed introverso, capace comunque di mostrare un animo sensibile (ad esempio quanto gioca a calcolare mentalmente complesse moltiplicazioni con la figlia della vicina, vero punto chiave del film), incapace quasi del tutto di rapportarsi all’altro sesso. Senso di solitudine simboleggiato, nel film, dal fatto che poco prima di premere il tasto “Invio” per avviare i sospirati calcoli, avverte l’ansimare erotico dei vicini proveniente dall’appartemento a fianco. Un messaggio che sembra calare pesantemente sugli spettatori più empatici, come a suggerire come l’unico tipo di amplesso per Max sia quello tra uomo e macchina (come già avveniva in Videodrome), capace di generare esclusivamente follia, servendo in tal modo anche da mònito.

    Pi Greco – Il teorema del delirio” ha avuto un discreto successo al Sundance Film Festival, ed il regista ha ricevuto un premio (Independent Spirit Award) per la miglior sceneggiatura d’esordio, che ha firmato dopo un lavoro iniziato nel 1998. Un buon lavoro che lascerà soddisfatto lo spettatore fino alla fine, ricco di suggestioni allucinatorie spesso in bilico tra realtà e finzione, e specie per le conclusioni decisamente “umanizzate” del finale. Di fatto, il messaggio non sembra tanto incentrato sul poter realmente riuscire a modellizzare l’universo con la matematica, quando sulle devastanti conseguenze di questa ossessione sull’animo dei due matematici protagonisti (l’allievo Max ed il suo maestro).

    12 e 45. Enuncio di nuovo la mia teoria. Primo, la natura parla attraverso la matematica. Secondo, tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri. Terzo, tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema, quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.

  • Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Un piccolo villaggio giapponese è ossessionato da una singolare allucinazione: spirali che appaiono nelle forme e nei modo più impensabili, portando alla morte gli abitanti che le vedono. Due ragazzi ed un giornalista si interessano al caso…

    In breve. Un horror giapponese macabro, originale e ben diretto, ricco di sorprese e colpi di scena.

    Lanciato da una tagline forse un po’ goffa e ridondante (“cosa si nasconde dietro il vortice infinito delle spirali?“), Uzumaki si ispira ad un manga omonimo che, all’epoca dell’uscita del film, non era ancora stato finito. Questo significa che il suo finale e le sue premesse sono state formalizzate in modo parzialmente indipendente dalla storia cartacea, il che finisce per essere più un pregio del film che altro.

    Molte scene con vortici in movimento (la spirale possiede una valenza ipnotica quando surreale, e si presta alle intepretazioni più svariate) sono state realizzate in digitale (quella del cielo, ad esempio), mentre altre sono puramente analogiche (la scena della modellazione della ceramica). In genere le spirali si ritrovano nei contesti più variegati ed imprevedibili: appaiono nelle decorazioni di un dolce, formano i capelli di una delle ragazze della scuola, appaiono negli occhi delle persone sempre più ossessionate dalle stesse – in genere ricalcano una paranoia abitudinaria che sembrerebbe molto fedele a quella del fumetto originale (riedito di recente dalla Star Comics in Italia).

    Hai detto che dovresti proteggermi, come se le cose girassero nel modo che tu vuoi. Se questo non è un sogno, le persone stanno morendo veramente. Questa città è maledetta da un vortice.

    Che si tratti di un film tratto da un manga, del resto, si intuisce dal tono vagamente didascalico della storia, che assume una valenza istruttiva e mostra la candida semplicità della protagonista a differenza del cinismo del mondo circostante. Come di consueto, poi, l’horror di questa nazionalità cede parecchi il passo ad un fatalismo di fondo, che caratterizza le circostanze di morte e che il più delle volte è inspiegabile e piuttosto esplicito. La principale causa di morte, comunque, è legata alle ossessioni morbose delle proprie vittime, attraverso incubi di vario ordine e grado (gli occhi che ruotano vorticosamente, le espressioni rassegnate ed assenti, la centrifuga della lavatrice, l’insetto strisciante che cerca di entrare nell’orecchio della donna durante il sonno, i lumaconi umanoidi). La componente horror aumenta con lo scorrere dei fotogrammi, e le uzumaki assomigliano ad una subdola maledizione senza un motivo vero e proprio, una sorta di demone interiore che invade la tranquillità del villaggio in cui è ambientata la storia, votata allo sterminio dell’umanità. Stesso motivo per cui ricorrono spesso nel film il 9 ed il 6, numeri che ricordano una spirale e che vengono inquadrati spesso da Higuchinsky (nome d’arte del regista Akiro Higuchi).

    Se le dinamiche narrative sono quelle classiche dell’horror orientale – da Abnormal Beauty a Ju-on – il film si dipana in modo piuttosto imprevedibile ed originale, formando così uno degli horror apocalittici più interessanti (e passati sottogamba) dei primi anni 2000.

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