NETFLIX_ (12 articoli)

Film consigliati da lipercubo.it per la visione immediata. Se non sai cosa vedere su Netflix e ti piace il mondo del brivido, dai un occhio qui.

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • I love you Baby Reindeer, sent by my iPhone

    Quando una serie tv diventa in brevissimo tempo un cult è perché sa toccare le giuste corde con perizia. Perché è perfettamente figlia del suo tempo. Un tempo sgrammaticato e iperconnesso. Proprio come Martha Scott, la stalker del comico Donny Dunn, che diventa per lei Baby Reindeer, Piccola Renna.

    Sappiamo già che ciò che si narra è ispirato a fatti realmente accaduti e che la stalker reale, guarda un po’, sta pensando di citare in giudizio l’autore/attore Richard Gadd, perché con la sua opera sarebbe lui a vestire ora i panni dello stalker.

    Non voglio tediare nessuno con un’inutile sinossi a rischio spoiler, vorrei invece offrire qualche considerazione che mi proviene dalla mia professione, che è quella di psicologa.

    Raccontando la sua storia nuda e cruda, senza lesinare i retroscena e le sottostorie ancor più nude e più crude, Richard Gadd fa ciò che ogni buon psicologo del 2020 esorta caldamente a fare per trovar salvezza. E cioè “Essere vulnerabile”. E infatti la salvezza la trova eccome, sia come essere umano, sia come professionista dello spettacolo, a cominciare dai palchi di stand up comedy per finire in bellezza con una tra le più gettonate serie targate Netflix.

    Essere vulnerabile, leggi anche “mostrarsi in tutta la propria vulnerabilità”, lo salva e lo riscatta dalle dipendenze: quella da sostanze e quelle affettive. Si smarca così da un losco figuro abusante (e non vi dico altro) e si smarcherà pian piano dalla morsa venefica, eppure anche morbosamente godibile talvolta, della sua stalker. Insomma, se non ho più paura dei miei segreti, se sono disposto a parlare con chiarezza delle mie scelte più discutibili, se riesco a confessare ai miei genitori chi sono davvero, sono libero. Libero dalle minacce, libero dai sensi di colpa, libero dai rimorsi. Libero da chi mi tiene in pugno e vorrebbe inguaiarmi. Forse anche libero da me stesso. Questa è una delle più grandi lezioni che ci offre Baby Reindeer.

    Ma Richard Gadd va oltre. Si mostra così vulnerabile da cercare nei suoi stessi atteggiamenti e comportamenti quei fattori che hanno reso possibile l’aggancio della vittima al suo stalker. No, non si tratta di victim blaming, c’è differenza. Scaricare la colpa sulla vittima è operazione bieca e manipolatoria: non è la stessa cosa di analizzare cosa nel nostro fare (o nel nostro non fare)  contribuisce a innescare e mantenere una relazione malsana. E lui questa analisi la fa e ce la porge senza sconti. Si mette in discussione fino in fondo. Anche qui una lezione per niente banale.

    E per niente banale è la centralità della tecnologia in tutta questa storia. Si parte dalle email per passare agli sms e ai lunghissimi e innumerevoli vocali che Martha manderà quotidianamente al suo Baby Reindeer, che passerà quasi tutto il suo tempo ad ascoltarli e a catalogarli, anche – ma non solo!- per trovare qualcosa di utile per incriminarla. Baby Reindeer è una visione coinvolgente, ben scritta e recitata assai credibilmente, che ci mette in guardia da come può cambiare la vita in una sera soltanto, offrendo un tè alla persona sbagliata.

  • Black Mirror 6 funziona solo a sprazzi

    Abbiamo visto i primi due episodi della nuova serie di Black Mirror (la numero 6), e ve ne parliamo qui. Uscita il 15 giugno 2023, come sempre si incentra sugli abusi tecnologici e sull’alienazione indotta dalle nuove tecnologie. I toni, pero’, sembrano essere cambiati rispetto alle origini. l’articolo sarà aggiornato volta per volta come finirò di vedere i nuovi episodi.

    Joan è terribile (stagione 6, episodio 1, 2023)

    Il ritorno di Black Mirror per la sesta stagione parte da un presupposto voyeuristico o paranoico (dipende dal punto di vista, ovviamente): Joan Tait lavora per una multinazionale, ricopre un incarico importante e sembra condurre un’esistenza ordinaria. Nella vita privata appare confusa, in quella lavorativa si dimostra sostanzialmente conformista e tendente alla passività. Dopo aver incontrato in segreto il proprio ex, torna a casa dall’attuale fidanzato. La cena avviene mentre guardano Streamberry, una piattaforma di streaming con una vasta gamma di proposte (si tratta ovviamente di un meta-riferimento a Netflix stessa).

    Sarebbe una giornata come tante, se non fosse che la coppia scopre la serie Joan è terribile, dove Joan è lei stessa, la protagonista dell’episodio (nella serie di Streamberry, viene interpretata da Salma Hayek). Si scopre che l’azienda ha creato una serie sulla sua vita a sua insaputa, che poteva farlo, perchè era previsto in una clausola nascosta dei termini e condizioni del servizio, e il tutto la manda definitivamente in crisi: non solo perchè si sente sfruttata per l’audience (come il buon Truman Burbank in The Truman Show), ma soprattutto perchè la serie ricalca tutto quello che succede davvero nella sua vita privata (inclusi i dettagli più piccanti). Siamo alle solite, insomma: Black Mirror – in questa sede con la regia di Ally Pankiw e il soggetto di Charlie Brooker – insiste sul consueto registro dedicato alle violazioni della privacy facendo leva sulle nuove tecnologie.

    Si potrebbe discutere indefinitamente su come e quanto si riesca nell’obiettivo, ma sembra che qualcosa sia cambiato nell’andazzo: il registro dell’episodio è sostanzialmente light, non ha nulla dei toni delle origini, e anzi finisce per sfruttare una trovata che sa abbastanza di “pecoreccio” al fine di alimentare  il mood grottesco. È abbastanza inspiegabile come si arrivi alla trovata della defecazione in chiesa (perchè succede anche questo, con una Joan in preda all’esasperazione): non tanto per la trovata in sè, ma per come i personaggi ne parlano e ci ritornano a più riprese. Sembra più di assistere ad un film tipo Un milione di modi per morire nel West (una commedia diretta dall’artefice dei Griffin, Seth Mac Ferlaine, dove l’umorismo segue quella falsariga e risulta in stile stand up comedy) che ad un episodio di Black Mirror, che da sempre presente una sostanziale seriosità alla base del proprio successo.

    Insomma, se uno non prende sul serio una serie del genere – perchè questo succede, se la si mette su quel piano – che ne sarà del resto? L’episodio è stato ben marketizzato per la presenza della Hayek, presenta molte sequenze sopra le righe e non mancano i colpi di scena più accattivanti, ma finisce per essere debole, al netto delle trovate del finale e delle scatole cinesi che lo caratterizzano (quasi nolaniane, verrebbe da scrivere). È la stessa idea di Strade perdute di David Lynch elevata all’ennesima potenza, alla fine: lì si rappresentava il conflitto lacerante tra Es e Superio, qui si vorrebbe simboleggiare  ogni persona / personaggio come il vuoto contenitore di un altro, tanto che nessuno è sicuro di essere se stesso e, come dire, siamo tutti Truman Burbank, ma siamo pure in un film di Nolan, forse anche di Lynch, io stesso non sono sicuro di essere io a scrivere – per non parlare di voi che state leggendo.

    D’altro canto è interessante come abbiano fatto rientrare i deepfake (cioè i video realistici generati artificialmente) nella storia, e l’idea che la loro diffusione di massa possa portare a serie TV basate sulle vite degli abbonati ed interpretati da attori digitalizzati quasi inconsapevoli dello sfruttamento della loro immagine. Questo funziona, senza dubbio, ma non è nemmeno il vero focus della storia. Resta il fatto che Salma Hayek sia probabilmente la migliore interprete dell’episodio, in una originale e autoironica interpretazione di se stessa. Va benissimo che si scomodi un computer quantistico per concepire la potenza di calcolo in ballo, per inciso, perchè non sarebbe potuto essere un server o un Macbook: Streamberry sta creando delle serie TV per tutti i propri abbonati, auto-tutelandosi con un furbesco contratto e investendo sul computer quantistico per sopperire alle necessità di calcolo. Ma anche qui: i terms & conditions che non legge nessuno e che autorizzano futuri abusi sono cose già viste, ci erano arrivati Trey Parker & Matt Stone con l’episodio del 2011 HUMANCENTiPAD, nel quale ignare vittime firmavano termini e condizioni prolisse accettando di diventare un centipede umano (viene da pensare che la coprolalìa fosse più azzeccata, in quella circostanza, per quanto più marcata). L’impressione generale sull’episodio da un punto di vista dell’allerta tecnologica, del resto, potrebbe risultare distorta: un conto sarebbe stato parlare di smart TV, smartphone, dispositivi X o Y che spiano le persone e le registrano, altro conto è lasciare il riferimento talmente vago e inafferrabile che, per assurdo, il personaggio di Joan non si capisce con quali modalità venga spiata.

    Andrebbe tutto bene, insomma, se non fosse che l’impianto narrativo scricchiola: non solo per i motivi indicati, ma anche perchè le reazioni di alcuni personaggi sono poco credibili (eufemismo: quando Joan scopre di essere spiata, in modo peraltro parecchio didascalico, nemmeno fa il tentativo di spegnere o distruggere il proprio smartphone). L’idea dei personaggi parte di un teatrino digitale di cui non sono consapevoli è peraltro vecchiotta, e pur senza citare per forza il sempiterno Matrix vale la pena ricordare che ha almeno un precedente di culto (L’invenzione di Morel). A poco vale, per inciso, che un personaggio specifichi che la serie segue il pattern “X è terribile” perchè quella negatività aiuta l’audience: rischia solo di sembrare molto didascalico, col senno di poi, senza contare che non rende giustizia al comportamento del personaggio di Joan, che ricorda in parte la più tipica profezia che si autoavvera (con il suo modo di fare e di porsi, in sostanza, finisce per essere lei stessa la causa dei problemi che le capitano).

    Si lascia il riferimento tecnologico vago – e questo è considerabile un “delitto”, per un episodio del genere – ma poi si fa riferimento alla circostanza dei dispositivi che spiano le persone per poi mostrare pubblicità a tema, circostanza circoscritta a casi e dispositivi specifici nella realtà, da sempre ventilata dalla qualunque ma mai provata da nessun ricercatore (e dovuta, per quanto ne sappiamo oggi, ad un mix di confusione, imperizia ed effetto primacy). Se fosse vera e provata una cosa del genere, del resto, sarebbe una rivoluzione tecnologica, che ad oggi non è ancora avvenuta – per cui potremmo giustificare la scelta in termini avvenieristici per quanto, anche stavolta, lo si faccia un po’ a fatica. Un conto è darlo per assodato (quando non lo è), insomma, altro conto sarebbe stato porre il problema dell’uso critico delle tecnologie in modo più scientifico (che rimane sacrosanto e desiderabile, ovviamente).

    La serie ha sempre premuto sulla propria orgogliosa “nerdaggine” – che nei primi episodi era a prova del debunker più sprezzante, geek e disilluso del pianeta – ma qui si è fatto un qualcosa di inedito, il che non lo rende esattamente un brutto episodio (le interpretazioni restano di livello e ci si diverte, alla fine), ma il tutto sembra relegato a una dimensione al limite dell’autocelebrativo, da parodia di se stessa. E questo, probabilmente, sarebbe stato meglio non farlo – pena rischiare di autodistruggere l’impianto stesso della serie.

    Loch Henry (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Questo episodio per fortuna è qualitativamente superiore al precedente, per quanto riutilizzi topòs classici del cinema dell’orrore di due decadi fa: a cominciare da V/H/S (la storia è quella di due giovani registi che vogliono esordire), passando per  Le cronache dei morti viventi, ma potremmo citarne tantissimi altri, limitandoci a ricordare il clamoroso The last horror movie ma soprattutto la trilogia horror August Underground, un prodotto ultra amatoriale e talmente assurdo che in pochi, oggi, ricorderanno (era il racconto degli omicidi di alcuni sedicenti autentici serial killer girato interamente in soggettiva).

    Partiamo dall’inizio: Loch Henry è ambientato nella svuotata provincia scozzese, dove un ragazzo (Davis, aspirante regista) presenta la propria nuova fidanzata, Pia, alla mamma. L’impatto non sembra dei migliori: la donna si mostra velatemente scontrosa e non troppo disponibile, per quanto la convivenza in casa sembri volgere al meglio. I due ragazzi hanno in mente di girare un documentario su un argomento di nicchia (per usare un eufemismo), ma presto cambieranno idea.  Parlando con l’amico Stuart, infatti, viene rievocata la storia inquietante di  Iain Adair, un abitante del posto con problemi di alcol che si era scoperto essere un feroce assassino seriale. Il progetto di produrre un banale documentario va a farsi friggere, e i ragazzi decidono di raccontare questa storia, girandola volutamente con le vecchie VHS per accentare l’effetto da horror POV. Siamo nel meta-meta-cinema, dato che vediamo un attore che interpreta un regista che gira un film che, a sua volta, diventerà il film della sua storia.

    Ricompare l’emittente Streamberry, avida e priva di scrupoli nel voler fare audience, e  si nota un ottimo livello narrativo, una storia più solida della precedente, meglio diretta e anche meglio interpretata, più credibile, narrativamente compatta, per quanto i fan dell’horror old school non vi troveranno nulla di sconvolgente. Anche perchè lo shock per la sorpresa finale (che è doppio o triplo, alla fine) non può essere più grande di quello indotto da un qualsiasi POV ben fattio, considerato che non è manco più la novità di qualche decennio fa e che, d’accordo citare The Blair Witch Project, ma esistono prodotti come [REC] da molto tempo.

    Insomma, la valutazione qui è da considerarsi molto positiva, per certi versi è un omaggio sentito al cinema horror POV e funziona in toto, incluso il finale clamoroso e quel tocco di tragedia romantica che, in fondo, non fa che accentuare la critica sociale alla disumanizzazione collettiva e, ancora una volta, agli abusi tecnologici. Il punto, semmai, è che il riferimento agli eccessi tecnologici sembra quasi di troppo, e un semplice smartphone usato di sfuggita non sembra abbastanza per giustificare la sua presenza in una serie come Black Mirror (mentre avrebbe fatto la propria figura, per intenderci, in un contesto come The ABCs of Death). Probabilmente potrà sembrare forzoso il riferimento alle vetuste VHS – che sono una tecnologia di qualche secolo fa, ormai – e quasi per nulla a smartphone e computer, ma la sostanza (in questo caso) sembra poter giustificare l’eccezione.

    Beyond the Sea (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Episodio ambientato negli anni 60, in una realtà alternativa: due astronauti sono stati coinvolti in una singolare missione spaziale, appoggiandosi a due rispettivi androidi che sono la loro replica fisica esatta. In questo modo posso trasferire la propria coscienza di sè istantaneamente e all’occorrenza: sull’astronave quando c’è da lavorare, sulla terra quando c’è da stare con moglie e figli. La macchina che permette di farlo è simile ai lettini della pillola rossa di Matrix. Una notta delle due repliche viene coinvolta in un incidente mortale, modello eccidio di Cielo Drive: una banda di hippie (che considera gli android immorali e non naturali) si introfula in casa di notte e fa strage della famiglia di David, inclusa la sua replica.

    La situazione degenera: l’autocoscienza di David è rimasta sull’astronave, assiste al funerale dalla cabina dell’astronave (non avendo più una replica a cui appoggiarsi) e si fa progressivamente travolgere dalla disperazione e dalla solitudine. Motivo per cui, per evitare che faccia gesti sconsiderati sull’astronave, i due astronauti concordano che David possa usare il corpo Cliff per vivere a casa sua e superare il trauma. Naturalmente la trama è destinata a complicarsi, fino a esibire le contraddizioni tipiche dei film basati sui doppelganger e sui paradossi di scambio di personalità. I toni dell’episodio sono totalmente cronenberghiani: non solo perchè si pone l’accento sulle ambiguità delle macchine umanoidi, ma anche perchè è in gioco il concetto filosofico di autocoscienza (oltre a quello di scambio di personalità), ed è in gioco (come in Blade runner) la logica dell’amore: ci innamoriamo dell’esteriorità di una persona o della sua totalità? Cosa succederebbe in caso di swap di autoconoscienza ai nostri affetti? Si pone peraltro un mindblow psicoanalitico considerevole, giocato sull’Io e l’immagine dell’Io: Josh-Cliff picchia quello che è, realmente, il figlio di Josh-David: la cosa non disturba David più di tanto, ma pone il problema dell’ambivalenza del gesto agli occhi del bambino (e agli occhi della madre, che è attratta dall’esteriorità quanto respinta dall’interiorità della replica).

    Episodio validissimo, originale, coinvolgente quanto contro-intuitivo: viene sovvertito il principio alla base di tanta fantascienza (per cui uomini e androidi sono e rimangono eticamente distinguibili, cosa che qui non avviene), e si stabilisce un curios scambio di autocoscienze che, per quanto concetto quasi squisitamente concettuiale, rischia di non essere comprensibile di primo acchito per parte del pubblico. Josh Hartnett fa un lavoro considerevole sul proprio personaggio, considerando che deve interpretare sia David che Cliff e che non esistono tratti distintivi visuali che possano rendere l’idea, ma si affida tutto all’atteggiamento (più estroverso in veste originale da David, più introverso in quelle di Cliff).

  • Il lato oscuro dello sport (Netflix): recensione completa

    Il lato oscuro dello sport: la serie tv Netflix che parla di Calciopoli

    Quando lo sport incontra cronaca nera: ecco di cosa parla Il lato oscuro dello sport, serie in 6 episodi che è possibile guardare sulla piattaforma Netflix.

    Molto intrigante questo nuovo prodotto targato Netflix che racconta sei episodi molto famosi, di altrettanti sport, in cui la cronaca più efferata è entrata a gamba tesa nelle vicende raccontate e nelle vite dei suoi protagonisti.

    Si parla dello scandalo del pattinaggio artistico di figura a Salt Lake City nel 2002, delle partite di basket universitario truccate da Arizona State, della superstar dell’Indycar Randy Lanier e il contrabbando di marjuana, delle frodi assicurative e un sicario a cavallo e della caduta in disgrazia del capitano di cricket Hansie Cronje in Sudafrica. Tra i sei racconti di sport spicca l’Italia con Calciopoli e Luciano Moggi.

    Nuovi siti scommesse e vecchi scandali italiani

    Quando parliamo di sport in Italia parliamo, anche, di bookmakers nuovi (e ne nascono sempre di nuovi ogni anno) soprattutto in tempo di pandemia. Sono, infatti, due anni che il mercato online ha spiccato il volo regalando, ad appassionati e non, nuove piattaforme su cui dilettarsi e scommettere.

    Ovviamente, visto che stiamo recensendo un prodotto televisivo che parla di scandali sportivi, non possiamo non pensare a quanti di noi siano rimasti scottati dalla vicenda Calciopoli nei primi anni 2000.

    Sono anni bellissimi per il calcio, anni in cui le squadre italiane dominano in Europa. La Juventus, poi, sembra una corazzata da guerra. Il suo direttore Luciano Moggi ha costruito una squadra fortissima che non ha rivali. Il punto di rottura avviene grazie a un’inchiesta del PM Raffaele Guariniello in cui si scopre che c’è una grossa rete di protezione verso il team e la dirigenza. Vengono coinvolti altri dirigenti, arbitri, alcune partite truccate e il calcioscommesse.

    Ecco, appunto, le scommesse. E sfido davvero chiunque a non credere, per un po’ di tempo, che fosse tutto un po’ truccato in favore dell’incolumità sportiva delle big del nostro campionato. C’è voluto un processo (sportivo e penale) che ha messo alla gogna i protagonisti per recuperare fiducia nei confronti dell’intero sistema.

    La Juventus, condannata in Serie B, ha vissuto il suo momento nero. Ma i campioni (almeno in parte) non abbandoneranno la nave che affonda. La squadra bianconera, infatti, si affiderà a Buffon, Del Piero e Trezeguet anche in B. Moggi, invece, scomparirà totalmente dal mondo del calcio di cui è stato “padre padrone” per più di 20 anni.

    Lo scandalo di Arizona State e gli altri episodi

    Mentre uno dei film più visti in questo periodo è Don’t look up non possiamo non aprire una parentesi sugli altri episodi presenti nella serie. Il primo racconta dello scandalo delle partite truccate nel campionato universitario di basket da Arizona State e il suo protagonista Hedake Smith (talentuosissimo point guard). Il miglior scorer di sempre scambiò il suo futuro nell’NBA per 20mila dollari e resta uno degli episodi più famosi e più controversi tra tutti.

    Il secondo episodio racconta del piccolo spacciatore Randy Lanier che, con gli introiti dello spaccio di marjuana, sponsorizza le sue gare in Indycar e nel frattempo porta il suo business in ambienti e situazioni insperate (rivelatesi poi completamente sbagliate).

    Il terzo è quello di cui abbiamo parlato (Calciopoli). Il quarto episodio racconta delle pressioni verso un giudice di pattinaggio che favorisce la Russia davanti al Canada alle Olimpiadi invernali del 2002.

    Il quinto episodio tocca il mondo dell’ippica con Tommy Burns che racconta con grande rimpianto dei giorni in cui era costretto ad ammazzare cavalli da competizione come parte di una truffa assicurativa che veniva elaborata dai ricchi proprietari.

    L’ultimo episodio è quello che getta ombre sull’idolo sudafricano di cricket Cronje che, attraverso alcune intercettazioni della polizia indiana, viene scoperto truccare incontri per migliaia di dollari. Nonostante sia stato bandito dallo sport a vita è ancora considerato uno dei migliori giocatori africani. La sua morte, avvenuta in un incidente aereo nel 2002, ha causato non poche polemiche in patria. Alcuni giornali hanno sostenuto, infatti, che il giocatore sia stato vittima di un’azione criminale da parte di alcuni sindacati di scommesse sul cricket sudafricano. Ovviamente queste accuse non sono mai state considerate reali, ma solo delle teorie complottistiche.

  • Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    La vera storia della famiglia Brobergs, una famiglia dell’Idaho che per anni non si accorse di aver dato fiducia e fatto avvicinare alle figlie un insospettabile sociopatico con tendenze pedofile.

    In breve. Un documentario inquietante su una delle storie più incredibili capitate negli USA anni ’70: il duplice rapimento dell’attrice Joan Broberg Felt, all’epoca ragazzina, da parte di un insospettabile vicino di casa. La vittima viene anche intervistata assieme ai genitori, che forniscono dettagli reali (ed incredibili) sulla vicenda.

    Il peggior incubo di qualsiasi genitore è la tagline che accompagna il documentario Netflix, girato con stile vivido da true crime e tratto da fatti realmente accaduti. La storia, in effetti, ha dell’incredibile: si parla del duplice rapimento, a 12 e 14 anni, dell’attrice americana Jan Broberg Felt da parte dell’amico di famiglia Robert Berchtold, vicino di casa e membro della medesima comunità locale  della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni.

    Abducted in Plain Sight è uscito nel 2017 ed è appena arrivato su Netflix anche per l’Italia: con un titolo che evoca la exploitation anni ’70 (ed il paragone è tutt’altro che gratuito, dati gli argomenti trattati), il regista Borgman costruisce una storia dai tratti realistici ed inquietanti, con una disinvoltura considerevole nel rendere dettagli e per una storia, per quanto surreale, che sembra tratta dalle vite di chiunque. Che non implica solo abusi e rapimento di una minorenne, ma racconta soprattutto le successive conseguenze sulla vita della ragazza in seguito. In seguito al brainwash subito, Jan cresce traumatizzata ma difendendo il proprio aguzzino, arrivando a farsi rapire una seconda volta, questa volta sotto falso nome e raccontando che Berchtold fosse un agente della CIA.

    La voce proveniva da un piccolo interfono, ero legata al letto… pensavo di essere stata rapita dagli alieni.

    In effetti all’inizio non si capisce se si tratti di vere immagini di repertorio o di ricostruzioni, cosa che diventa più chiara nel seguito (in realtà è un mix delle due cose): ma poco importa, perchè l’attenzione dello spettatore è catturata, seppur con la lentezza tipica di questo genere di documentari, che hanno la tendenza ad allungare un po’ troppo le fasi del racconto, in alcuni momenti. Questo comunque aiuta a creare un effetto da mockumentary, con la differenza considerevole che la storia è reale – e soprattutto che le vere vittime vengono intervistate durante lo svolgimento della stessa. Soprattutto, se si volesse evidenziare un difetto del film, bisognerebbe notare che alcuni dettagli non sembrino troppo consequenziali, nonostante la storia sia narrata con dovizia di particolari e scatenando l’effetto traumatico di pellicole analoghe su questi argomenti, come ad esempio Mysterious Skin (in cui gli UFO sono analogamente simbolo di un trauma regresso) oppure (in tema di abusi da persone vicine a noi) Strange Circus.

    Vittime che, per inciso, non risparmiano dettagli terrificanti: gli abusi da parte del rapitore pedofilo, che per arrivare alla piccola Jan, prima ne seduce la madre e poi abusa sessualmente del padre di lei, senza che la cosa induca un minimo sospetto in seguito, almeno fino alle indagini affidate all’FBI. È anche presente più di una dichiarazione dell’ufficiale di polizia che seguì il caso, che all’epoca non aveva neanche la corretta percezione del fenomeno – perchè probabilmente, nella piccola provincia USA dell’Idaho, non era pensabile che potesse succedere un fatto del genere.

    Per ben due volte, peraltro, e passando per personaggi ambigui ed inquietanti quali finti psicologi, e ne fuoriesce un’immagine del crudele protagonista subdola, manipolatrice, perversa e attento ai minimi dettagli, oltre decisamente scaltra ed in grado, ogni volta, di farsi ridurre la pena (morì suicida per non scontare la terza condanna). In grado di architettare, fin dall’inizio, un modo pazzesco per darsi credito: far credere alla giovane vittima di essere stati rapiti dagli alieni, e di doversi unire a lui come unica possibilità per salvarsi.

    L’ingenuità della ragazzina, derivante anche dall’educazione ricevuta in famiglia e dall’ambiente di provincia, non le permise tragicamente di sospettare nulla, almeno all’epoca dei fatti, fino alla liberazione da parte della polizia messicana e dopo un secondo rapimento, questa volta degno di una spy story. Senza timore di cadere negli stereotipi, a questo punto, potremmo dire che nel caso di Rapita alla luce del sole la realtà aveva abbattuto qualsiasi imprevedibile trama da fiction.

    Un ritratto forse impietoso dell’America dell’epoca, senza dubbio, che restituisce un’immagine ingenua delle vittime che fa scalpore, probabilmente più come effetto indiretto che come autentico sensazionalismo. Sicuramente da vedere.

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