PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Film diviso in quattro episodi a se stanti, ognuno diretto da un diverso regista: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.

    In breve. Un classico che rientra nella consolidata tradizione dei film a più registi e a episodi, dalla confermata attitudine socio-politico-satirica.

    4 cortometraggi incentrati su quattro argomenti diversi: sessualità, separazione, fame e consumismo.  A ben vedere, due coppie di opposti che finiscono per creare un immediato gioco di contrasti, tra la gioia apparente del sesso alla frustrazione per la conquista fino al dramma della gelosia e della separazione. E naturalmente le psicosi moderne, da quelle indotte dal consumismo a quelle di natura sociale. Se ci mettiamo la società del boom economico allora nascente (il film è del 1963), il contesto diventa fondamentale per inquadrare l’importanza del lavoro, esattamente così come viene presentato.

    Lavoro che, per inciso, nasce da un’idea dei produttori Angelo Rizzoli, Alfredo Bini e Alberto Barsanti che decidono di chiamare il progetto Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei quattro registi coinvolti, dando ad ognuno massima libertà espressiva. In questi casi i risultati tendono ad essere altalenanti, proprio perchè manca un filo conduttore, cosa che in questo caso non succede anche perchè è relativamente agevole identificarne almeno uno (quello nichilistico, su tutti). Quattro storie contemporanee, moderne per l’epoca in cui uscirono, incentrate su una tematica sociale o politica precisa, e caratterizzate da un artista ormai rassegnato – e nichilisticamente sconfitto – dal conformismo imperante.

    Illibatezza (Rossellini)

    L’episodio di Rossellini è forse il più immediato dei quattro pur mostrando, per la verità, una tematica impegnativa: il celebre complesso di Edipo proposto da Sigmund Freud, qui concretizzato nella storia di un americano alcolizzato, che durante un viaggio di lavoro si invaghisce di una hostess italiana, iniziando a seguirla ovunque e comportandosi grottescamente come un bambino che reclama la figura materna. Sarà l’intervento di uno psichiatra a lenire le pene della ragazza, grazie alla brillante proposta di passare da un personaggio di mora dall’aria affidabile a femme fatale bionda, riconquistando il fidanzato geloso (un calabrese stereotipato che tende, tuttavia, a parlare in siciliano) e respingendo così definitivamente le asfissianti avance dell’americano. Un micro-episodio d’epoca su un boomer ante litteram, che inizia a stalkerare (diremmo oggi) la bella e giovane hostess Anna Maria, arrivando a raggiungerla nella sua stanza d’hotel di soppiatto, ed inscenando patetiche sceneggiate pur non farsi cacciare. L’effetto grottesco è garantito, soprattutto per la determinazione insospettabile della donna.

    È evidente la tematica dei tempi che stanno cambiando, delle persone radicate nella tradizione che avranno maggiori imbarazzi ad accettare il cambiamento di valori del prossima a venire Sessantotto, di una esplosiva emancipazione femminile e dell’avvento, nella società italiana, delle più classiche teorie psichiatriche e psicologiche, destinate – di lì a breve – a pervadere qualsiasi ambito.

    Il nuovo Mondo (Godard)

    Il corto di Godard è probabilmente il più filosofico e basato su sottintesi, e non è proprio immediato comprenderne il senso: lo stile narrativo si ispira alla più classica Nuovelle vague (la nuova onda del cinema francese, quella nata nel 1957), ma probabilmente c’è qualcosa anche da L’amante di Harold Pinter, una piece teatrale dell’assurdo uscita appena un anno prima (1962), nota quest’ultima per l’incipit che è passato allo storia: un marito chiede amorevolmente alla moglie “Viene il tuo amante, oggi?“, la moglie annuisce, la coppia discute l’evento come se fosse una cosa qualunque.

    Nulla di troppo diverso, in effetti, da ciò che succede tra il protagonista (di cui non sappiamo il nome) e Alexandra, una giovane donna innamorata e ricambiata dall’uomo. Viene poi mostrata la prima pagina di un quotidiano, che annuncia vari esperimenti atomici a 120.000 metri sotto la città: non erano trascorsi nemmeno venti anni dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, per cui l’evento dovrebbe fare scalpore, provocare preoccupazione. Il problema è che sembra passare indifferente alla popolazione, nessuno ne parla: questo per quanto l’evento sembri aver innescato (mediante modalità non esplicitate) una mutazione profonda, non nei corpi ma nel comportamento umano.

    È il protagonista ad rendersene conto: da’ appuntamento ad Alexandra che, presumibilmente per la prima volta, non si presenta. Informatosi presso un vicino, va a trovarla in piscina, e la vede baciare e abbracciare una persona (che poi svelerà di non conoscere affatto). Alexandra diventa così scostante, illogica, sembra smarrirsi in un vaneggiamento perenne senza capo nè coda, da’ risposte contraddittorie ed afferma più volte al compagno “io ti ex-amo“, pur accettando di rimanere a dormire da lui quella sera.

    Convintosi di un collegamento indiretto con l’esperimento nucleare (e dell’annessa disumanizzazione), l’uomo scrivere le proprie memorie, nella speranza che qualcuno dei posteri possa capirne il senso. Il film termina dopo aver mostrato la penna del protagonista prendere appunti, non prima di aver mostrato a più riprese vari parigini che attraversano la scena ingerendo delle pillole.

    Le musiche sono i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (n. 7, 9, 10, 14 e 15), e l’apocalisse è servita.

    La ricotta (Pasolini)

    Una troupe sta girando, diretta da un regista dai modi caustici (interpretato da Orson Welles), una riedizione della Passione di Cristo in chiave artistico-concettuale. Ci troviamo nella campagna romana, ed emerge da subito la figura di Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono nella scena della crocifissione. Pasolini rappresenta questo personaggio in modo simile allo Zanni portato sulle scene (e reso celebre) da Dario Fo: legato alla terra, dalle movenze grottesche, dedito ai travestimenti per avere doppia razione di cibo e, naturalmente, perennemente affamato. Dopo che il cane di una vanitosa attrice gli ha sottratto il cibo da lui gelosamente nascosto e accumulato, decide di venderlo all’insaputa della donna ad un giornalista di passaggio. C’è tempo per uno splendido siparietto tra il mediocre giornalista e il colto regista, con il primo che cerca di intervistarlo mediante domande banalotte ed il secondo che afferma la propria natura marxista, legge una poesia tratta da Mamma Roma (libro proprio di Pasolini, che l’uomo ovviamente non capisce), lo sminuisce e lo insulta con eleganza. E si arriva poi al clou della storia: Stracci viene scoperto nella grotta in cui sta accumulando il cibo, viene deriso dalla troupe ed invitato a mangiare pantagruelicamente. Col risultato che avrà un malore proprio mentre impersona il ladrone e si trova sulla croce, impossibilitato a pronunciare la battuta finale mentre il regista ne constata gelidamente la morte.

    È difficile discutere ogni singolo aspetto di questo piccolo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, intellettuale a tutto tondo che subì un vero e proprio boicottaggio, per questo corto, e si arrivò ad una condanna censoria per vilipendio alla religione. Si ebbe poi un’amnistia, ma nel frattempo il regista aveva già fatto delle modifiche definitive all’audio e alle scena. Aveva, ad esempio, dovuto cambiare la frase finale da “crepare… è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” a un più innocuo (e forse non meno significativo, in un certo senso) “non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo“, e certe sequenze considerate inopportune vennero tagliate (la versione su Amazon Video del film sembra essere, in teoria, quella senza tagli).

    La ragione della censura, del resto, sembra oggi difficilmente riconducibile a vilipendio, anche perchè se si fosse applicato questo criterio uniformemente, più della metà degli horror successivi non sarebbero mai circolati in Italia. Il problema de La ricotta è probabilmente nella sua valenza politica diretta e senza filtri, nel suo saper usare la Satira portando il sacro a livello del profano (la maschera tragicomica di Stracci, lo spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena), nelle pose plastiche degli attori sotto la croce per cui sbagliano a mandare la musica e, come se non bastasse, scoppiano tutti a ridere durante le riprese, nella sua brutale constatazione inerenti divisioni sociali sempre più nette, nel dialogo (mai abbastanza citato) tra i due attori che interpretano i ladroni, in cui quello che afferma di essere tentato di bestemmiare viene frenato dall’altro, che poi lo biasima per essere un “morto di fame” che resta, nonostante tutto, dalla parte dei padroni.

    La questione è complessa da affrontare, e ci limiteremo a scrivere che c’è una questione di irrisolti politici da sempre, a riguardo, oltre a molteplici imbarazzi e lacune che sono culminate, purtroppo, con la morte prematura del regista (nel 1975) e miriadi di teorie, ipotesi più o meno credibili e presunti complotti su come siano andate realmente le cose.

    Il pollo ruspante (Gregoretti)

    Da un lato, un sociologo ospita un convegno assieme a vari “pezzi grossi” della società (ingegneri, dirigenti, presidenti, politici), usando un laringofono per parlare – il che gli conferisce un’inquietante voce robotica. Racconta delle ultime scoperte in ambito psicologico e sociologico sull’induzione all’acquisto da parte dei consumatori. Dall’altro, vediamo un padre che firma più di venti cambiali pur di avere una TV di ultima generazione: i suoi figli sanno le pubblicità a memoria e la moglie è perennemente frustrata. I due coniugi inseguono affannosamente il Consumo: valutano di comprare un terreno che già sanno di non potersi permettere, vogliono già cambiare la televisione dopo averne comprata un’altra di recente, acquistano miriadi di prodotti inutili in autogrill, si conformano ai modi dei fast food millantando di conoscere (da cui il titolo) la differenza tra polli di allevamento e polli ruspanti. Finalmente si distaccano da quel modello malsano di finto benessere, in una doccia fredda di consapevolezza, e pensano di poter vivere diversamente. Ma è troppo tardi: Togni si distrae alla guida ripensando ai terreni perduti e muore, presumibilmente con tutta la famiglia, in un frontale.

    Si tratta dell’episodio forse più politico e sovversivo in assoluto, con un Ugo Tognazzi sempre in splendida forma, per un cortometraggio sulla perfetta falsariga di quelli visti ne I mostri oppure in Signore, signori, buonanotte.

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.

  • The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    Un serial killer sfrutta un originale modus operandi per far conoscere i propri delitti: noleggia videocassette di slasher a basso costo e sovrascrive i nastri filmando i propri film snuff. Max Parry è ufficialmente un fotografo di matrimoni…

    In breve. Nel sottogenere found footage e mockumentary The Last Horror Movie spicca non tanto per le qualità visive, che rimangono modeste, quanto per lo spessore che viene fornito al protagonista: un killer feroce, insospettabile e cannibale, che si riprende durante i propri crimini, accompagnato da un timido e sottomesso cameraman.

    Julian Richards scrive e dirige questo film tratto da un’idea considerevole: immaginare che un killer provi ad arrivare al proprio pubblico mediante un video-noleggio. Siamo nel 2003, e le videocassette sono prossime alla scomparsa definitiva: guidato da un certo nostalgismo e da un retrogusto vintage per la regia, Richards dirige un horror compatto, semplice nel suo impianto e di durata ragionevolmente bassa (poco più di un’ora). La costruzione della figura di Max è solidissima quanto spaventosa: parla davanti alla telecamera e si rivolge direttamente al pubblico, ponendo vari dilemmi filosofici e morali sull’opportunità di guardare degli snuff. Nel frattempo vediamo come si svolge la sua vita, tra le visite alla sorella, alla nonna e ai nipotini, tra interviste che realizza per strada (a volte minacciando o aggredendo i passanti). In questo il protagonista è molto sulla falsariga del personaggio principale di Henry – Pioggia di sangue, con la differenza che possiede uno spiccato sarcasmo ed uno humour nero da manuale.

    L’ispirazione principale del film sembra partire dalla serie horror anni ’90 Zio Tibia Picture Show, noto negli USA come Uncle Creepy e dotato anch’esso di un certo humour paradossale nell’introdurre storie di sangue e morte. In questo, a quanto sembrerebbe, Max potrebbe considerarsi una versione realistica di quel personaggio, in grado di sorprendere immediatamente lo spettatore con una cura particolare per i dialoghi e senza disdegnare riferimenti ai classici (Non aprite quella porta, ad esempio, che viene apertamente citato).

    Max, il protagonista, è istrionico e possiede velleità artistiche, ma sembra venire preso poco sul serio dai propri familiari che più volte sembrano invitarlo a “trovarsi un lavoro vero“: per questo, apparentemente, l’uomo sfoga la propria frustrazione ponendosi al di sopra della folla, operando un distinguo fondamentale tra i propri affetti (nipoti, sorella, la propria ex compagna) e l’uomo della strada, perennemente sbeffeggiato, deriso e torturato. Max si pone (anche filosoficamente, mediante discorsi forbiti e – per certi versi – addirittura sensati) al di sopra della massa, che a suo avviso è inebetita da vite monotone: in questo, l’omicidio è il suo modo di uscirne e prenderne le distanze. Durante le proprie efferatezze Max si fa accompagnare da un mite e remissivo cameraman, che lo accompagna durante le proprie giornate – siano essi momenti ordinari che altri decisamente più violenti – e con il quale ha in mente il progetto che stiamo guardando: letteralmente, “an intelligent movie about murder“, senza dubbio un bel sottotitolo per un lavoro del genere.

    The Last Horror Movie alterna senza preavviso, poi, momenti da filmino amatoriale coi parenti a delitti commessi con particolare sadismo ed efferatezza, dei quali molto si intuisce con varie inquadrature da video amatoriale, spesso fuori campo: in questo modo, Max arriva a sbeffeggiare gli stessi spettatori, sottolineando come quello che stanno vedendo non sia un film arthouse e come, soprattutto, in fondo anche loro vogliano vedere più nitidamente quello che succede. Il sogno di Max, in fondo, è quello di guadagnare la “visibilità” del proprio operato in un’ossessione cupa ed istrionica per il delitto, in cui il lato killer della sua personalità bilancia quello dotato di umorismo, empatia e capacità di stare con gli altri. Max non è, in altri termini, un vero e proprio anti-sociale come il succitato Henry, ma vive un odio represso che sfoga periodicamente girando i propri snuff, e che contribuiscono a dotarlo di un certo equilibrio dall’esterno e renderlo perfettamente anonimo, inquietante e insospettabile. Del resto chi mai penserebbe che un fotografo sognatore e stralunato come lui sia un serial killer feroce e, come se non bastasse, anche cannibale?

    La modalità del delitto segue un copione preimpostato: Max killer indossa dei guanti bianchi, si intrufola in casa delle persone, ne filma la vita di ogni giorno e poi le uccide nel modo più feroce (mediante un coltello, per soffocamento oppure con un batticarne), spesso legandole e costringendole a vedere la morte dell’eventuale partner, consapevoli di essere ripresi. Nella vita di ogni giorno, poi, continua a filmare cene di famiglia (di cui una con una carne “speciale”) e matrimoni, sempre accompagnato dall’introverso The Assistant: un anonimo cameraman trovato per strada, che proverà poi a rendere protagonista, a suo modo, del film che sta girando. Grottesco e voyeurismo sono, pertanto gli ingredienti base di questo found footage o mockumentary, di livello medio-alto e superiore alla media del genere come forma e contenuti: quasi a livello di The Poughkeepsie Tapes, che ha dalla sua una qualità fotografica superiore, che qui viene degradata probabilmente per adeguarsi ai tempi ed al formato VHS.

    Oggi un film del genere non si potrebbe più girare: sono finiti i tempi delle videoteche, e l’ultima fabbrica di VHS ha ormai chiuso. Per cui certi paradossi, come il momento in cui Max inizia ad aggredire e torturare il pubblico del suo stesso film che è andato a noleggiarlo, rischiano di passare in modo poco efficace o comprensibile. Al netto di questo, The Last Horror Movie spicca nella sua originalità e vive il suo principale punto di forza nella figura dell’istrionico protagonista.

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