Salvatore

  • Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Frank Zito (Joe Spinell) è un cittadino newyorkese dalle tendenze psicopatiche: avvicina donne di varia estrazione sociale e le uccide brutalmente. Potrà la frequentazione della bella fotografa Anna (Caroline Munro) cambiare per sempre le sue tendenze  omicide?

    In breve. Dal regista di Maniac cop un thriller cupo e vagamente poveristico nell’impianto, con recitazione non eccelsa ed effetti interessanti solo a sprazzi, senza contare che venne girato con un budget limitatissimo. Nonostante ciò, “Maniac” è un thriller seminale che possiede pregi innegabili: l’originalità del plot, un paio di sequenze di culto e il fatto che ha posto le base di una infinita scia di slasher con protagonista l’assassino misogino dal passato problematico.

    Maniac” è uno dei tanti slasher ottantiani, nascosti nel sottobosco cinematografico, che possiede il merito (con tutti i limiti del caso) di evocare più di qualche gradevole sorpresa per gli appassionati. I limiti in questione sono gli stessi che certa critica, entusiastica a prescindere (per non dire a-critica), ha evitato a volte di sottolineare, nascondendo i difetti del film sotto il più classico degli zerbini: Maniac è un cult, e come tale andrebbe teoricamente considerato esente da difetti. Il che, oltre ad essere inesatto, significa raccontare in malo modo un piccolo film artigianale, costato comunque solo 48.000 dollari e dotato di un’espressività senza eguali, almeno per l’epoca. Seguendo la falsariga dei precedenti thriller exploitativi dotati di feroci assassini/violentatori di giovani fanciulle – citiamo randomicamente: Il mostro della strada di campagna, L’ultima casa a sinistra, I spit on your grave – il film scorre sullo schermo con toni fin da subito tesissimi, inquietanti quanto accattivanti.

    La storia è incentrata quasi del tutto sulla mente di uno psicopatico protagonista, il che potrebbe avere qualche somiglianza con il cult brasiliano del 1964 A mezzanotte possiederò la tua anima, con cui Maniac condivide se non altro il tipo di storia ed il ritmo, per quanto sia legato ad un piano apparentemente più materialistico. Nel raccontare la storia di Frank, psicopatico dalla parvenza inquietante –  affine allo stereotipo di un tipo insicuro con le donne, dall’aspetto anonimo, solitario e non proprio in forma che diventa, con la violenza che esercita, il gemello cattivo di se stesso – la regia di Lusting realizza un film lurido, delirante e (ovviamente) carico della più degenerata violenza. Nonostante presupposti del genere rendano il tutto mera exploitation, la trama regge dignitosamente, a dispetto di una forma visuale non troppo nitida – dovuta ai limiti di budget, sebbene con qualche piccolo effetto visivo superiore alla media. Le scene cruente, con tutti i limiti delle pugnalate teatrali e dei litri di sangue visibilmente finto, sono un qualcosa che finiranno per far divertire/spaventare gli appassionati e ridere tutti gli altri: i soliti duplici piaceri da b-movie, alla fine.

    La doppia personalità che convive in Frank possiede un che di trascendente, e lo rende capace di massacrare donne e sparare fucilate a freddo (una delle sue vittime sarà un personaggio interpretato dall’effettista Tom Savini) quanto di lasciarsi andare a insospettabili galanterie con la donna da cui è attratto (la Munro), regalandole un orsacchiotto ed invitandola ad una romantica cena. Un chiaroscuro inquietante che convince pienamente solo per via del contesto e dell’età del film, dato che rimarrà come archetipica per molti altri lavori successivi (e per un remake più recente, tra l’altro).

    Alcune sequenze di “Maniac” appaiono un po’ prevedibili per il pubblico moderno, tipo la “cronaca della morte annunciata” dell’infermiera bionda, che per qualche incomprensibile ragione preferisce, a fine lavoro, andarsene in giro in solitaria su una strada desolata invece di accettare un passaggio dalla collega. Un vero colpo di genio, tanto più se effettuato sessanta secondi dopo aver letto la notizia del serial killer che sta massacrando donne. In fondo li perdoniamo: stavano “solo” girando un horror negli anni 80.

    Presente inoltre qualche breve momento di riflessione, che serve a spezzare sequenze che – in circostanze differenti – sarebbero diventate un po’ noiose. “Maniac” soffre di qualche problema di ritmo, nonostante la sua durata di soli 83 minuti, nonostante il crescendo finale. Interessante, poi, l’analisi della fobia della solitudine da parte del protagonista, e qualche suggestione filosofico-esistenzialista tirata un po’ con le pinze (“Non c’è modo per cui tu possa possedere qualcuno per sempre, anche con una fotografia: non c’è modo“: panta rei, insomma).  Tenendo conto che si tratta di uno dei primissimi film ottantiani a realizzare completamente quello che sarebbe diventato un vero e proprio genere – lo slasher a tinte erotiche – c’è comunque da togliersi il cappello e apprezzare, se si vuole, il risultato per quello che è e per il periodo in cui uscì.

    Azzeccatissima la minimale colonna sonora elettronica di Jay Chattaway, uno degli elementi più in risalto di una pellicola datata, non troppo brillante nella dinamica e che vive i momenti migliori nel delirante ed inaspettato finale (degno di un racconto di Poe o Lovecraft). Un film imperdibile per i cultori dei vari Venerdì 13 e Henry pioggia di sangue, con il quale “Maniac” presenta svariati punti di contatto, a cominciare dalla prospettiva ossessivamente incentrata sulla mentalità del protagonista. Al di là del valore storico, pertanto, credo si tratti di un poco più che discreto b-movie che potrebbe, a conti fatti, risultare una piacevole sorpresa per qualche spettatore.

  • Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Un gruppo di amici in vacanza su uno yacht si schianta su alcuni scogli ed arriva in uno strano paese di pescatori, Inboca. Presto scopriranno le reali origini degli abitanti del posto…

    In due parole. Ispirandosi al celebre racconto lovecraftiano “La maschera di Innsmouth” – che diventa “Inboca” – Gordon ne tira fuori una (a suo modo) notevole rielaborazione in chiave cinematografica, sfruttando al meglio gli stereotipi ed i topos caratteristici di questo genere di letteratura. Molto deriva anche da un altro classico dello scrittore quale “Dagon“, ovviamente, ed il risultato si lascia guardare con grande naturalezza. Il problema è, semmai, che il film non sorprende più e sembra ricalcare stereotipi abusati o comunque visti e rivisti.

    “Non avrei mai voluto vedere quella scena…”

    Ispirandosi ai due succitati racconti dello scrittore di Providence, si può dire che Stuart Gordon sia riuscito, una volta tanto, a rendere la letteratura lovecraftiana da straordinaria ad ordinaria: tale è la spontaneità, in effetti, che attraversa l’intera pellicola – oltre alla trattazione mai forzata o troppo letterale – che il pubblico si dovrebbe lasciar guidare in modo piuttosto ovvio all’interno di essa. Forse troppo normale, tutto sommato, considerando le atmosfere lovecraftiane che ben poco si adattano, alla fine, un po’ a qualsiasi riduzione cinematografica (il termine “riduzione” non è casuale, in queste circostanze).

    È bene tenere presente due aspetti: non siamo al top della rappresentazione del sottogenere (che avviene, ad esempio, in capolavori come “Il seme della follia” o “La cosa” di John Carpenter) e non dobbiamo dimenticare che Gordon è pur sempre l’artefice di una trasposizione di un altro classico della letteratura horror quale “Il pozzo e il pendolo” piuttosto arbitraria e, obiettivamente, neanche troppo azzeccata. Nei limiti della cinematografia del regista, dunque, che ha conosciuto probabilmente un unico vero picco con “Re-animator” (altro racconto lovecraftiano rappresentato molto liberamente), “Dagon – La mutazione del male” è un horror di discreto livello, con alcuni momenti di buona tensione ed una ricostruzione delle atmosfere lovecraftiane più che degna.

    Si tratta ovviamente di un b-movie che da’ molta importanza all’involucro dei mostri mutanti e poca, come spesso accade, alla sostanza del solitario di Providence, ma valutando il film in quanto tale si resta soddisfatti anche se, a dirla tutta, non proprio entusiasti. L’odore di umido-marcio arriva a permeare la pellicola fin dalle prime sequenze, giocando nel contempo sul consueto (ed azzeccatissimo) senso di “antico incubo diventato realtà” che non tarderà a disvelarsi.

    Un film fuori dalle righe per il periodo stesso in cui è uscito – gli anni 80 erano finiti da un pezzo – e, proprio per questo, da gustare ancora oggi. Dagon, a suo modo, non può essere annoverato tra i film propriamente brutti, anzi; presenta spunti di originalità che hanno, al limite, il difetto di rimanere tali. Il film non sorprende mai, ed è questo il suo limite più sostanziale: per un lavoro come quello di Lovecraft e, soprattutto, a confronto di film come From Beyond, sempre di Gordon, ci aspettavamo forse qualcosa di più.

  • Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Il pensionato Seligman trova Joe, sanguinante e semisvenuta, in un vicolo vicino casa propria: la donna accetta di andare a casa dell’uomo per raccontargli come sia finita lì.

    In breve. Interminabile excursus sull’erotismo e le sue ossessioni, raccontato dal punto di vista di una ninfomane: c’è spazio per considerazioni varie sul genere umano, sui suoi rapporti e sui rispettivi (e spesso discutibili) comportamenti. Per un pubblico adulto, e soprattutto non superficiale.

    Lanciato con un chiarissimo (per chi conosce il regista, quantomeno) “Forget about love“, Nymphomaniac è un trattato nichilista e spassionato sull’erotismo, forse tra i film più controversi del regista danese (e che, per questo, probabilmente sarà davvero capito e rivalutato solo tra qualche secolo anno). Del resto, già conosciamo le sue folli – nel senso migliore del termine – incursioni di genere, oltre alla sua innata capacità – o forse esigenza – di trovare un aspetto “scandalizzante” (ovviamente dal punto di vista dei soliti tromboni) in quasi ogni sua opera.

    Anche in quelle apparentemente più innocenti, come Dogville, figurarsi ora: il dualismo morte ed erotismo è il vero protagonista. Corpi che inizialmente scoprono la sessualità, prima con entusiasmo, poi con massimo ardore e in seguito, inevitabilmente, arrivando a consumare un’agonia straziante, mentre il corpo si logora, si contorce e si ferisce. L’amore ha poco a che fare con questo processo che evoca la dipendenza da una droga, e questo è chiaro soprattutto se conosciamo la tendenza cinica e beffarda del regista nei confronti dei facili sentimentalismi.

    In Nymph()maniac Von Trier racconta la storia di Joe, un’anti-eroina archetipica per un film del regista danese poichè, per sua stessa ammissione, non ha alcuna intenzione di salvarsi (rinuncia all’ambulanza fin dalle prime scene, ed evoca alcuni tratti della Justine di Melancholia). Il film racconta, con un montaggio anti-causale o seguendo lo stream of consciousness della protagonista, la storia della sua vita: la scoperta di essere ninfomane, le prime esperienza con il sesso, l’apice dell’erotismo, la sperimentazione di varie perversioni, l’inizio del degrado (e qui termina la prima parte del film), la crisi dei sentimenti, il declino, l’attrazione morbosa verso il sadismo (le sequenze più crude sono probabilmente qui), la successiva rinascita, il trauma inaspettato poco dopo.

    Un viaggio interminabile, quindi, per un film di quasi 5 ore di durata, che sembrano addiritture poche, tutto sommato, rispetto a quanto e come viene raccontato. Nymphomaniac si troverà, come molti altri film di Von Trier, nelle condizioni ideali di visione avendo l’accortezza (se si può) di non leggere nulla a riguardo, prima di guardarlo.

    L’incontro di Joe incontro con Seligman – archetipo maschile di colto, pacato ed un po’ tontolone “maschio medio” – diventa da un lato seduta psicoanalitica vera e propria (per la gioia degli esperti in materia, of course: a più riprese Von Trier sembrerebbe evocare il primo Cronenberg, quantomeno dal punto di vista dell’approfondimento dei personaggi e delle rispettive perversioni), dall’altro è un modo originale per raccontare una storia che, di per sè, non è altro che un incredibile concentrato di esperienza sessuali della protagonista.

    La stessa Joe che, fin da piccolissima, racconta di aver sempre avuto un’insana attrazione per queste tematiche, tanto da sfregarsi con qualsiasi cosa fosse utile a stimolarla sessualmente (fin da ragazzina), e da chiedere esplicitamente il primo rapporto al suo vicino di casa – di punto in bianco. Nymphomaniacopera omnia dell’ossessione dell’erotismo dai tratti patologici, e anche qui il parallelismo col canadese Cronenberg non sfigura, sebbene solo dal punto di vista “mentale” – nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbe diventato un’opera insulsa; con Von Trier di mezzo non può essere così. L’impresa prefissata è quella di rendere significativo un film dai fortissimi tratti erotici, spesso esplicitamente pornografici ma mai, in effetti, gratuiti o non funzionali alla storia. Von Trier delizia il proprio pubblico con montaggi frenetici, narrazione anti-causali, scritte sullo schermo che esaltano determinate scene ed un repertorio di personaggi immenso e davvero complesso da catalogare.

    A contribuire al fascino della storia deve certamente aver contribuito il cast (Udo Kier, Uma Thurman, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård e Willem Dafoe, solo per citarne alcuni), ma ovviamente è il tipo di storia raccontata ad essere un terreno molto fertile per le provocazioni di Trier. La ninfomania, argomento su cui molti propendono a fare facili (e poco divertenti) battute, viene qui trattata con lucidità e freddezza, per meglio contestualizzare il catalogo di “tipi” umani che probabilmente avremo incontrato anche noi nella nostra vita, e capirne meglio motivazioni e disagio. Un film forse – unica vera pecca – troppo lungo per le intenzioni medie che manifesta ma, a ben vedere, girato magistralmente e, per questo, non certo da biasimare. Le considerazioni da fare saranno tante e, tra un atto di sesso ed un’ennesima perversione mostrata – sono poche quelle che Von Trier non ha preso in considerazione – c’è spazio per la riflessione serie e, naturalmente, per l’inatteso ed imprevedibile finale della vicenda.

    Un twist che è tutto un programma, per quanto è pervaso di pessimismo antropologico, oserei scrivere, da manuale.

  • La casa dalle finestre che ridono: il thriller all’italiana low budget che ha fatto scuola

    Capolavoro di horror gotico all’italia di Pupi Avati, ambientato in un suggestivo paese italiano che diventa teatro di orrori sepolti nell’inconscio collettivo.

    Stefano è un maestro di restauro, interpretato da Lino Capolicchio, che viene inviato in una chiesetta di uno sperduto paese padano – molto dettagliata la ricostruzione dei luoghi fatta sul Davinotti online, a tal proposito – al fine recuperare un prezioso dipinto raffigurante il martirio di San Sebastiano. L’autore dell’opera è un pittore del posto, morto anni prima e apparentemente suicida, alla cui storia il protagonista inizia ad interessarsi. Con lo svolgersi di una intricatissima trama si verrà a scoprire di una misteriosa “casa dalle finestre che ridono“, così chiamata per le finestre bizzarramente dipinte con caratteristiche labbra, la quale nasconde imprevedibili verità. L’autore dell’opera è il defunto Buono Legnani, artista maledetto e soprannominato “Pittore di Agonie”, dato che amava ritrarre le persone pochi istanti prima della loro morte, usando il proprio braccio come tavolozza dei colori. Il passato dell’artista sembra essere macchiato da torbidi e morbosi segreti. Stefano si troverà coinvolto in un’atmosfera maligna e perversa, nella quale in definitiva niente (e soprattutto nessuno/a) è quello/a che sembra.

    Un cult recentemente rieditato in DVD per il suo 25° anniversario dall’uscita, ricco di contenuti speciali ed approfondimenti, trasmessi sulle televisioni commerciali più volte negli ultimi anni in edizione uncutLa casa usata per le riprese – e che da’ il nome al film – si trovava a Malalbergo, nei pressi di Bologna, e stando a IMDB è stata demolita poco dopo la fine delle riprese. Gran parte del film si incentra sul martirio di San Sebastiano, figura iconica della cultura cristiana, spesso rappresentato nel cinema (da Carrie di Brian de Palma a Sebastiane) e generalmente simbolo di sopportazione della sofferenza, di coerenza estrema con i propri ideali. Nel film di Avati è un simbolo di una strana religiosità dai tratti pagani, che evoca sacrifici umani compiuti di nascosto dalla popolazione del posto – vagamente sulla falsariga della psicosi collettiva, realmente accaduta, che ha reso celebre i Diavoli della Bassa modenese.

    Il film di Avati è clamoroso perché anticipa di diversi decenni quello che poi avremmo chiamato folk horror, l’orrore legato alle tradizioni popolari e ai culti segreti che ha avuto massima espressione con film come Oltre il guado, The Vvitch, Antlers e Road to L. del resto la parte horror è centellinata – quando arriva è sempre sostanziale: le coltellate alle vittime il pubblico sembra quasi doverle subire fisicamente – sia pure trattandosi pur sempre di un film a basso budget, che non consentiva l’utilizzo di effetti speciali troppo elaborati. Eppure il lavoro di Avati funziona, impressiona, appassiona e continua a funzionare dopo anni, rientrando nel novero dei film di culto per i quali l’etichette B-movie sembra stare anche un tantino stretta.

    Una certa critica e parte del pubblico avevano subito notato la singolare ambientazione italiana per un film che, in generale, ci saremmo aspettati nel New Jersey o nel Texas. Ma ci troviamo – inaspettatamente per il genere – tra Comacchio e Minerbio, in Emilia Romagna, e di per sè la storia del film nasce da un fatto di cronaca che Avati ricorda e rielabora: la tomba di un prete che si scoprì contenere il corpo di una donna. La cadenza di tutti i personaggi in tal senso vuole essere inequivocabile,e caratterizza un’ambientazione che parla di noi e dell’insospettabile oscurità di certo folklore nostrano (si veda, ad esempio, l’Almanacco dell’orrore popolare di Camilletti e Foni).

    Spiegazione del finale (spoiler)

    Assistiamo sulle prime alla fuga di Stefano, che sembra riuscire a sfuggire alle due sorelle assassine che non hanno risparmiato dal martirio la povera Francesca. Ma il twist narrativo è in agguato: nessuno, in paese, sembra disponibile ad aiutare Stefano, che si aggira tra strade deserte e case con le finestre chiuse. L’unica persona che apparentemente dalla sua parte sembra essere l’imprenditore che gli ha finanziato il lavoro, che si limita a chiamare la polizia e rimane barricato in casa. A Stefano non resta che rivolgersi al prete del paese, che lo accoglie in modo apparentemente amorevole per poi rivelare l’orribile verità: la seconda sorella – quella che non si è mai vista in viso – è in realtà proprio lui. Stefano si ritrova nuovamente in trappola, pronto per la macabra evocazione del martirio di San Sebastiano. Avviene quindi ciò che Merenghetti chiama “il finale sospeso”: vediamo l’esterno della chiesa e sentiamo le urla di aiuto di Stefano, sentiamo le sirene della polizia evidentemente in arrivo mentre viene ripreso un altro con una mano che si appoggia allo stesso. Saremo curiosi di sapere cosa succede adesso ma partono i titoli di coda, e l’immagine si congela. La trovata di Avati è in questo caso quella di suggerire un’ambiguità: le autorità sono complici dell’orrore oppure no? Riuscirà Stefano a salvarsi una seconda volta? Detta in modo più coerente con gli standard narrativi della TV generalista, la polizia arriverà in tempo per salvarlo?

    Una certa antropologia pessimista – forse anche una certa critica politica e sociale – suggeriscono che non ci siano speranze per il protagonista, ma al tempo stesso il prodotto rimane potenzialmente “commerciale” proprio perchè nulla esclude che possa avvenire un salvataggio con tanto di colpo di pistola che ferma le assassine proprio nel momento clou dell’ennesimo delitto.

  • Donnie Darko: paradossi, alienazione, viaggi nel tempo

    Problematiche sociali, viaggi nel tempo ed incomprensioni per l’incredibile storia di Donnie.

    In breve. Film splendido, enormemente sottovalutato: più discusso che visto, assolutamente da riscoprire.

    La storia di un adolescente americano contro un mondo che cerca di propinargli felicità a buon mercato. Se preferite, la parabola dell’incomprensione generazionale, dell’isolamento dell’individuo, del rifiuto dei dogmi, degli insegnamenti stereotipati per intraprendere la lunga – e non certo indolore – strada per costruire pratiche di vita a misura d’uomo, vivibili e reali. Il personaggio di Donnie, interpretato da un Jake Gyllenhaal ancora non noto come lo diventerà poi in seguito, è un po’ il simbolo di un qualcosa di archetipico: il nerd crepuscolare (cit.9 che viene isolato e represso dalla realtà, e sembra lasciarsi guidare nelle sue considerazioni dalla mistica e minacciosa figura di Frank. Personaggio dalla spiccata propensione alla ribellione contro il mondo esterno, ma sostanzialmente di indole buona si risveglia in un campo da golf con dei numeri scritti sul braccio: 28:06:42:12., che avviano un vortice di mistero e speculazioni di ogni genere non solo sul suo personaggio, ma anche sull’andamento della storia stessa. Rientrato a casa, infatti, si scopre che il ragazzo soffre di sonnambulismo, ed il caso ha voluto che uscendo da casa di notte sia scampato ad una morte orribile: il reattore di un aereo, del quale non si capisce la provenienza, è precipitato giusto nella sua stanza. Nel frattempo Donnie inizia a soffrire di allucinazioni, e vede Frank,un uomo che calza un grottesco costume da coniglio che sembrerebbe colui che gli ha salvato la vita.

    Scritto e diretto da Richard Kelly, Donnie Darko è un film ricco di suggestioni ed accenni quasi mai espliciti, che in altri contesti avremmo potuto definire puramente lynchiani. Di fatto, è uno dei tanti film basati sulle realtà alternative, una multi-narrazione che – alla lunga – potrebbe diventare ostica per molti spettatori, e potrebbe al tempo stesso affascinarne almeno altrettanti.

    Spiegazione del film

    L’idea di fondo, alla fine, è che gli stessi personaggi si muovano dentro almeno due realtà alternative, in cui la sliding door o elemento decisivo in favore dell’una o dell’altra sembra rappresentata dal reattore che si schianta sull’appartamento di Donnie, di cui verranno poi mostrate due possibilità (in un caso Donnie si salva perchè sonnambulo, nell’altro viene ucciso). Molti elementi dell’intreccio sono rimasti volutamente vaghi o indefiniti, e nessuno ha mai fatto chiarezza, mentre probabilmente chiunque guarderà il film si potrà fare un’idea precisa e molto personale.

    Probabilmente l’idea del regista è proprio quella di fornire degli spunti di riflessione, e che ogni spettatore possa farsi una propria idea in merito. Come in parte della produzione lynchiana più recente, è da focalizzare la figura del coniglio (che si ispira, a quanto pare, al film di animazione La collina dei conigli) come metafora della condizione umana, repressa tra mille vincoli e rappresentazione animalesca ed istintiva dell’uomo.

    Ma certo… il coniglio non è come noi. Non ha storia, libri, fotografie, non prova rimpianto o tristezza… e poi, mi scusi professoressa, a me piacciono i conigli, sono carini e arrapati, e quando uno è così è probabile che sia felice! Non si sa chi è, non si sa che cosa viva a fare, vuole solo fare sesso, quanto più sia possibile, prima di morire.

    C’è di tutto all’interno di Donnie Darko, a ben vedere: la teoria dei Wormhole (il reattore che precipita dallo spazio sembrerebe arrivare da lì), alcuni richiami alle teorie dell’astrofisico Stephen Hawking sui viaggi nel tempo, la creazione e dipanamento di varie dimensioni parallele, la curva spazio-temporale e la sua alterazione (e la possibilità di passarci all’interno) e così via.

    Da vedere almeno una volta nella vita in versione uncut (quella del DVD).

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