Salvatore

  • La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    Secondo il regista Jean-Marie Straub, La classe operaia va in paradiso fu la “pellicola infame”, da mandare al rogo senza mezzi termini. Sui “Quaderni piacentini”, il film venne accusato di un imprecisabile revisionismo da Goffredo Fofi. Ad oggi, molta gente si interroga ancora su quel che rimane della classe operaia, sul suo significato, assimilandola spesso e volentieri al lavoro degli sfruttati di ogni ordine e grado – o peggio, declassando la questione come vetusta, utopistica o superata.

    Il film di Petri, come spesso accadde nella sua filmografia, provocò divisioni politico-sociali laceranti, facendo perno su un registro neorelista: i personaggi sono tipi comuni, che potremmo aver conosciuto nella nostra vita, e che si battono – disillusi – per un obiettivo più che per un ideale. Al centro del film c’è la figura di un operaio vittima di un incidente sul lavoro, interpretato da Gian Maria Volontè, che si ammazza di lavoro a cottimo “per queste quattro lire vigliacche“, come dirà lui stesso in seguito.

    L’individuo è uguale ad una fabbrica… de merda!

    Lulù Massa è, in altri termini, un operaio conformista e sostenitore del lavoro a cottimo (formula che prevede di essere pagati non in base al tempo, bensì alla produttività), il che gli permette di tenere uno stile di vita al di sopra delle proprie aspettative. Nel frattempo, i gruppi extra-parlamentari, all’ingresso della fabbrica in cui lavora, contestano le modalità di lavoro in fabbrica, evidenziando contraddizioni di forma e di modi con i sindacati.

    Come spesso avviene nei film di Petri, l’ambientazione è radicata in una città ed un dialetto specifico, che qui è Milano (anche se la fabbrica si trovava a Novara, in realtà) mentre in La proprietà non è più un furto era Roma. La fabbrica è rappresentata come un ambiente alienante e prevaricante, con alcune inquietanti figure di cronometristi addetti a misurare i tempi di lavorazione dei singoli operai, e mettere pressione a quelli che non si adeguano. Inutile sottolineare che Lulù viene preso come modello esemplare di produttività dalla dirigenza, attirandosi l’odio di tutti gli altri colleghi.

    Diretto da Elio Petri e scritto dallo stesso assieme ad Ugo Pirro, La classe operaia va in paradiso è il dramma di un uomo solo, spinto a lavorare a ritmi infernali per via della situazione difficile che vive in casa, con una donna divorziata ed il figlio che si trova, suo malgrado, costretto a mantenere. Un uomo che cadenza la propria vita sul lavoro senza badare a null’altro, perdendo interesse anche per il sesso per via dei ritmi produttivi della fabbrica che lo sfiniscono. Non è un caso, a tale riguardo, che l’unico all’appello all’”amore” per gli operai sia quello che ne accompagna l’ingresso in fabbrica: trattate la vostra macchina con amore.

    Fino a che un giorno, maneggiando i soliti macchinari, si taglia un dito: la circostanza viene presa come caso limite per indire finalmente uno sciopero. E prendere finalmente consapevolezza del proprio precariato, ma il film non si limita a cullarsi nell’assunto bensì, realisticamente, lo porta alle ulteriori conseguenze.

    Si affianca a Lulù la figura premonitrice di Militina (“io sono diventato matto in fabbrica“), un ex compagno di lavoro attualmente rinchiuso in manicomio, che evoca da vicino il compagno dell’anarchico Bonifacio, che ha seguito la stessa sorte in Chi lavora è perduto. Militina dice la verità, sia pur in pochi momenti di lucidità, sulla condizione alienante degli operai e sull’avidità dei padroni: ed è il punto di partenza del cambiamento di Lulù. Che improvvisamente, da stakanovista puro, diventa un operaio ribelle; e nel farlo risulterà paradossalmente inviso sia ai colleghi (che fondamentalmente non gli danno troppo credito) che gruppi extraparlamentari (che considerano il suo incidente sul lavoro solo opportunisticamente) che ai padroni, che usano il suo licenziamento come “arma” per intimidire tutti gli altri.

    Dopo aver passato in rassegna vari simboli del consumismo (tra cui un libretto di azioni, vari utensili da cucina ed un zio Paperone gonfiabile), Lulù si chiude in casa, finchè non vanno direttamente i sindacalisti a trovarlo: sono riusciti a farlo riassumere. Per quanto si senta tirato indebitamente in ballo e sfruttato ad ogni livello, accetta di tornare al suo vecchio impiego. Nella scena finale, durante il lavoro in catena di montaggio racconta un sogno, in cui ha visto il Militina sfondare un muro a testate, il che assume valenza evidentemente simbolica. Ma gran parte del discorso, tuttavia, viene travisato o mal percepito dai compagni di lavoro, perchè i macchinari producono troppo rumore e la maggioranza delle sue parole non è nemmeno udibile agli altri.

    Lulù è un personaggio fuori da ogni schema: se all’inizio nega la propria condizione precaria, in seguito presenta un risveglio di coscienza, che si rivela tragicamente quasi del tutto inutile. Il problema sollevato dal film, a questo punto, non è tanto sulla falsariga di chi non partecipa alla lotta, semmai risiede nell’indifferenza dei padroni e, per estensione, delle istituzioni. E c’è naturalmente il suo personaggio, sballottato tra un iniziale conformismo (suo e della compagna) nell’imitare i modelli consumistici che li stanno distruggendo, a finire con una rivolta confusa, rabbiosa quanto sostanzialmente strumentalizzata da tutti gli altri. Valeva per la condizione operaia dell’epoca, ma potrebbe valere – per estensione – in molti altri ambiti lavorativi di oggi: il problema, forse, è anche la presenza di numerosi epigoni del primo Lulù, per i quali non esiste alcun problema e si deve solo lavurà. Oggi, magari, li avremmo chiamati con un termine molto di moda come “negazionisti“.

    E adesso, adesso cosa sono diventato? Lo studente dice che siamo come le macchine. Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso! Io propongo subito di lasciare il lavoro. Tutti! E che non lascia il lavoro è un crumiro e un faccia de merda!

  • Il grande capo: una satira pungente sulle aziende di informatica (L. von Trier, 2006)

    In crisi finanziaria con la società per cui lavora, Ravn assolda un attore per interpretare il ruolo di un fantomatico “super-capo”, e rimettere ordine nelle relazioni tra i dipendenti…

    In breve. Un Von Trier – diverso dal solito – abbandona per un attimo i toni lugubri e seriosi, e produce una commedia satirica sui paradossi di un’azienda informatica. Lavoro scorrevole e di buon livello, con vari siparietti memorabili.

    Quello che si nota da subito in questa commedia di von Trier è il tono sublimamente regolato: una via di mezzo tra una commedia americana arguta ed un documentario-verità dai toni frammentari. Non era facile trovare un equilibrio in questi fattori, ma il regista sembra esserci riuscito appieno.

    Guardando Il grande capo si vedono soggetti fuori campo, inquadrati male o dal viso “tagliato”. Dietro ciò esiste una singola scelta registica inventata dal regista quale Automavision: in pratica si piazza la macchina da presa normalmente, e in post-produzione un algoritmo stabilisce un’impostazione casuale per riprese e suono. Questo metodo si riflette sia sul sound del film che sul crop delle immagini, che appariranno più volte “riprese in modo strano” contribuendo a dare al lavoro un che di “vissuto” o realistico al lavoro, al limite del documentaristico, senza mai scadere nel fine a se stesso per via dell’ottimo ritmo che la commedia fine dall’inizio.

    La storia de Il grande capo vuole raccontare con registri ironici le vicende di un individuo che si trova in un contesto totalmente estraneo alla sua natura, e che farà di tutto per nascondere la propria identità, saggiando le proprie capacità di improvvisazione. L’ispirazione fu tratta dai rapporti tra il regista ed il suo ex produttore Vibeke Vindeloev, che colpì von Trier perchè dotato di particolare savoir-faire nel comunicare coi propri attori. Nell’intreccio del film, un attore teatrale – l’egocentrismo all’ennesima potenza, secondo la rappresentazione satirica del regista – viene pagato dal boss di un’azienda di informatica (benvoluto da tutti quanto occultamente affarista) per fingersi a sua volta il “grande capo”. Il tutto, se da un lato costruirà dei rapporti di necessità in bilico tra attrazione ed ostilità, servirà nel frattempo a Ravn a svincolarsi dalle proprie responsabilità; e se all’inizio l’attore si troverà impacciato con gergo, ritmi e modus operandi aziendali, presto inizierà a calarsi nella parte, esercitando su tuti il fascino magnetico del big boss, fino ad arrivare alle più imprevedibili conseguenze.

    Il grande capo” è una commedia intelligente, divertente e godibile nel rappresentare nevrosi ed ansie dei personaggi: non c’è tempo e modo per analisi ed introspezioni psicologiche perchè, ricorda il regista, la cosa essenziale è godersi lo spettacolo, ed uscire dal cinema con la “coscienza a posto”. Una parentesi di livello, e tutt’altro che fine a se stessa, per un regista senza dubbio più funzionale a registri differenti, ma che si fa apprezzare lo stesso nel marasma di commedie leggere in circolazione (quelle che divertono pure, magari, ma che difficilmente sono originali e genuinamente spassose come questa).

    Il divieto ai minori di 14 anni, di fatto, sembra più figlia di un preconcetto su von Trier che altro: il motivo, di fatto, pare essere legato all’unica scena di sesso che si vede nel film, peraltro neanche esplicita – quanto apertamente grottesca.

  • Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    “…al mondo non si fa quello che ci piace, solo e soltanto quello che si deve“. È questa probabilmente la summa del film di Alberto Antonini “Seguendo il sangue“, un thriller estremamente surreale a forti tinte horror, che deve moltissimo dell’impianto scenico alle opere più spaventose di David Lynch. (altro…)
  • Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Dunwich è il nome di un piccolo villaggio inglese della contea di Suffolk; nell’immaginario lovecraftiano che richiama il film, si fa riferimento all’orrore di Dunwich, una forza invisibile aliena che si manifesta agli esseri umani dopo molteplici presagi, nella forma di un mostro ciclopico dalle fattezze di una testa umana ingigantita. È il mostro che potrebbe, peraltro, a sua volta aver ispirato le caratteristiche de La cosa di John Carpenter, e su cui si è creato un vero e proprio archetipo del genere, a cominciare dalla presenza di un libro proibito scritto in crittogrammi, che scatenerà il villain infernale del titolo. All’interno di questo luogo, ancora oggi, vive la famiglia Whateley, di cui sono sopravvissuti solo due componenti che vengono visti, a causa di inquietanti precedenti, con grande sospetto dalla comunità cristiana del luogo. Tanto più che un loro avo, anni prima, sembra che sia stato assassino per via di alcuni esoterici culti a cui si dichiarava adepto.

    Parliamo di un film del 1970 storicamente poco amato dai fan dello scrittore, sul quale pero’ (da appassionato lettore delle sue opere) mi permetto di rilanciare e proporre una lettura diversa del film, con il quale certa critica a mio paree è stata poco appropriata. Tanto per cominciare un racconto di Lovecraft al cinema in genere è soggetto a più o meno libere intepretazioni, se vogliamo “licenze” registiche quasi sempre sgradevoli per i fan letterari: da Dagon a Re-animator, passando per Il colore venuto dallo spazio e Quella villa accanto al cimitero. La vergine di Dunwich , al contrario, sembra insolitamente coerente con il racconto, a cominciare dai personaggi e dalle atmosfere. L’orrore è pura idea, suggeriva Lucio Fulci in una celebre e citatissima intervista: e probabilmente questo film è un po’ la concretizzazione di quella frase. Il mostro che si manifesterà nel film, infatti, è una causa invisibile ed intangibile, di cui vediamo gli effetti ma non cogliamo la presenza, e viene brillantemente filmato come un villain in soggettiva, mantenendo una coltre di mistero, mai risolta, sul suo reale aspetto (tranne nel finale, solo per qualche secondo). Tanto del racconto di Lovecraft, coerentemente con lo script del film, è incentrato sull’ossessione frustrata dell’io narrante nel definire, senza riuscirci, la forma del mostro.

    La vergine di Dunwich fin da subito si permea di un alone di mistero: vediamo senza preamboli una ragazza sofferente a letto, assistita da quello che sembra un medico, in presenza di altre misteriose – e non meglio specificate – figure. È poi la volta della comparsa del protagonista, il sinistro Wilbur Whateley, in visita alla Miskatonic University alla ricerca del libro proibito dei morti: il Necronomicon.

    Il Necronomicon è il libro inventato, o pseudo-biblia, citato in più racconti lovecraftiani, scritto dall’arabo pazzo (Adbul Alhazred, molto probabilmente un gioco di parole con All Has Read, lett. “ha letto di tutto”) espressione dei rituali indispensabili per evocare i Grandi Antichi (gli “Anziani”, come vengono citati nel doppiaggio italiano), creature mostruose oltre che divinità aliene.

    Wilbur sembra essere ossessionato da questo libro, che vorrebbe freneticamente consultare o trafugare: si definisce uno studioso di scienze occulte, con obiettivi non esplicitati ma, al tempo stesso, con le idee chiare. La versione uncut del film, per la cronaca, è quella con alcune parti non doppiate (e sottotitolate), ed è in grado di esplicare molti dei dettagli necessari a cogliere il senso della storia raccontata. Tra le scene tagliate, ad esempio, emerge una sostanziale (e purtroppo consueta) arbitrarietà nel montaggio italiano: l’intero macabro rituale da parte di Wilbur, ad esempio, con tanto di riferimento a Yog-Sototh, è da gustare nella sua interezza, ma a quanto risulta il pubblico italiano dell’epoca ha potuto vederlo solo in parte.

    Originariamente annunciato come film assegnato a Mario Bava, venne poi girato da Daniel Haller, il quale conferisce un’atmosfera sinistra e occulta, oltre ad un fantasioso uso della fotografia, all’intero film. In tal senso il lavoro è molto lovecraftiano, abile a costruire un climax di tensione che poi, ovviamente, sarà destinato a crescere sul finale. La scelta registica è quella di non esplicitare la mostruosità del racconto, mantenendo una sostanziale fedeltà al mood di sospensione che lo caratterizza, il che è forse la caratteristica più appagante del film stesso – a differenza di altri epigoni dello scrittore di Providence che quasi sempre, anche senza malizia a volte, finivano per buttarla sul trash.

    L’orrore invece qui si svela progressivamente in forma di demoni-satiri grotteschi ed inquietanti, conferendo ad alcune sequente una sorta di allucinazione (da parte della protagonista femminile) dai caratteri prevalentemente horror-psichedelici. La musica di Les Baxter, in tal senso, è una scelta molto adeguata, e sembra anticipare – e potrebbe avere ispirato – quelle create da Fabio Frizzi per molti dei film fulciani più celebri, ovvero la cosiddetta Trilogia della Morte: L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero.

    Vale la pena spendere qualche parola anche sul finale del film, che è di natura dichiaratamente ciclica: viene infatti ufficializzata la provenienza aliena della famiglia Wilbur, e mentre Nancy viene aiutata a scendere le scale del “giardino” in cui stava per completarsi il rituale di evocazione, la regia evidenzia che sia incinta di Wilbur, a voler evidenziare che la sua stirpe continuerà a propagare il male sulla terra. Questo, peraltro, spiega il perchè del suo interessamento verso la donna: poter dare continuità alla propria famiglia.

    Non sono poche le differenze con la versione letteraria, e quelle più rilevanti che ho trovato sono le seguenti:

    • la storia è ambientata negli anni 60, mentre nel racconto eravamo nel 1928;
    • parte dell’intreccio è una metafora della sessualità ritrovata (assente nel racconto), ed è incentrata su una vaga sessuofobia della protagonista (da cui la sua verginità), e sulla potente attrazione e condizionamento che Wilbur esercita nei suoi confronti;
    • Wilbur ha un ruolo differente, tant’è che nel racconto muore (nel tentativo di rubare il libro dei morti), ed è lì che si evidenzia la sua natura aliena; inoltre la sua relazione con il nonno è rappresentata in modo differente, rispetto al racconto;
    • c’è la figura di una donna sopravvissuta ad uno dei rituali magici precedenti, ormai impazzita e invecchiata precocemente, assente nel racconto ma decisamente azzeccata e affascinante;
    • i due assistenti uomini del professor Armitage, nel film, sono sostituiti da due donne, probabilmente per facilitare l’intrigo amoroso il quale, a sua volta, finisce per fungere da MacGuffin della storia;
    • gli Antichi sono rappresentati come streghe danzanti dalla forma umana, scelta forse semplicistica che farà rabbrividere (in senso negativo) i fan dello scrittore;
    • lo stesso mostro di Dunwich, dall’effetto ben più apocalittico nel racconto, nella versione cinematografica appare più ridimensionato, probabilmente per motivi di budget;
    • il mostro viene “allevato” da nonno e nipote in una soffitta esclusa dall’accesso di chiunque altro: nel film è una sorta di elegante palazzo gotico, nel racconto una umile fattoria. Vedremo a lungo solo una semplice porta che vibra, in omaggio all’essenzialità simbolista tipica degli horror del periodo.

    Per quello che valgono questo genere di confronti, ed in relazione al fatto che Lovecraft difficilmente avrebbe apprezzato il cinema in toto, emerge che la rilettura proposta nel film è più che accettabile, offrendo più di uno spunto degno di nota. Non credo del resto che esista un solo film nella storia del cinema che abbia potuto riprodurre in modo fedele un romanzo o un racconto, per cui tanto varrebbe porre la questione in termini differenti.

    Al netto di qualche interpretazione arbitraria (il Male lovecraftiano, a cominciare dai titoli, viene visto come una sorta di generico “demone satanico”, probabilmente per esasperare la contrapposizione con gli abitanti cristiani e non proprio di larghe vedute), il film è ricchissimo di suggestioni, simbolismi e scenari dal sapore esoterico, con un uso sapiente della fotografia – soprattutto nelle sequenze più orrorifiche – senza dimenticare che il mostro da rappresentare, originariamente, era quasi sempre invisibile e per questo, sostanzialmente, nel film viene rispettato.

    Su tutti, a parte gli archetipi classici del genere, ne La vergine di Dunwich emerge una componente di horror psichedelico molto originale, quasi innovativa per l’epoca e sfoggiata nella sequenza in cui una delle assistenti del professor Armitage apre la porta che custodisce la mostruosità, e vive il contatto con il mostro come una specie di allucinazione caleidoscopica fatta di urla disperate ed immagini colorate e convulse, che potrebbe quasi essere tratta da Il serpente di fuoco, il film su un trip da LSD diretto dallo stesso Roger Corman che qui è solo produttore, ma che forse non avrebbe sfigurato alla regia.

    E anche la metafora amorosa e sessuale alla base dell’intreccio, da cui trasuda una sincera sensualità mai fine a se stessa (Sandra Dee non volle apparire nuda, per cui ricorse ad una controfigura per scene che, ad oggi, non risulterebbero certo pornografiche), sembra sposarsi perfettamente con il clima del film, che evoca per certi versi il feeling degli “amori impossibili”, tipici della letteratura gotica a partire dal Dracula di Bram Stoker.

  • Hard Candy: il thriller di David Slade stravolge le regole del genere

    Jeff e Hayley si conoscono in chat, e decidono di incontrarsi per la prima volta: tra di loro ci sono diciannove anni di differenza d’età.

    In breve. Thriller minimalista a tinte forti, girato in un asettico “appartamento degli orrori”. Da vedere, al netto di qualche lungaggine, di qualche nota pretenziosa e a patto che la violenza insistita (mai esplicita, ma intuibile) non vi risulti insostenibile.

    Hard candy rientra nel thriller claustrofobico come probabilmente tanti ne sono stati girati, ma con caratteristiche che lo rendono un unicum. Si tratta di un film dalle tinte decisamente cupe, girato in soli 18 giorni e quasi del tutto all’interno di un appartamento. Ci sono due soli personaggi, a differenza dei tre che popolano ad esempio La morte e la fanciulla, e interessante parallelismo (almeno in termini di tema principale) con l’opera di Polanski. Su tutti, il senso del dubbio che accompagna un processo giusto o sommario, indefinibile nella sua essenza e con un senso di risoluzione che lascia probabilmente più interrogativi che altro. L’idea di Slade è quella di interrogarsi su un inquietante what-if: cosa succederebbe se chi si prefigura come predatore non fosse realmente chi dice di essere? E se il predatore fosse invece la vittima?

    Il tutto a sottolineare un mood ossessivo ed inquietante per il primo lungometraggio di David Slade, noto anche per aver girato l’episodio interattivo Bandersnatch della serie Black Mirror. Poco budget e tanta qualità, da non perdere – seppur con qualche riserva. L’ispirazione della storia, per inciso, nasce dalla cronaca giapponese, secondo cui alcune ragazzine adescavano adulti via internet per derubarli o aggredirli, spesso mediante vere e proprie baby gang.

    È difficile parlare di questo film in termini assoluti, soprattutto perchè rifugge i meccanismi classici della narrazione, dello stesso rape’n revenge, dell’eroismo e di “togliersi un peso” – lo stesso che, solo alla fine, pervade addirittura pellicole nichiliste come The Human Centipede. Sono le specificità a farla da padrone nel lavoro di Slade: a cominciare dal tipo di riprese dettagliate, dalla fotografia magistrale ricca di primi piani, all’insistere su una recitazione fortemente drammatizzata (la sceneggiatura è scritta da Brian Nelson, americano che ha scritto molto teatro), dall’uso minimalista dei suoni e della colonna sonora, fino alla definizione di due personaggi per cui i ruoli – senza troppe sorprese, alla fine – si invertono.

    L’horror ci ha abituati suo malgrado, anche se non sempre, alle figure femminili vittime di “orchi” – alla meglio, diventavano scream queen coraggiose, violente quanto liberatorie. In Hard Candy, invece, Slade sembra prendere la storia come pretesto per mettere in risalto il problema della pedofilia, non in ottica puramente giustizialista (almeno, non del tutto) mostrando un’anti-eroina con cui può essere facile, o meno, identificarsi. Soprattutto se ci chiederemo a chi Hayley abbia scritto la mail raccontando dell’aggressione: alla baby gang di cui fa parte? Alla polizia che l’ha addestrata a dovere?

    Insomma un’ottica differnete dalla media, difficile da paragonare a qualsiasi altra cosa sia stata girata prima, e di questo ne va dato atto. Slade sembra comunque strizzare l’occhio ai revenge movie modello Prosperi e Craven, riprendendo quegli stessi eccessi – con la differenza fondamentale che, stavolta, il sadismo è di marca femminile, mostrando un adulto, con un certo bagaglio di esperienza (mite quanto insospettabile) contrapporsi ad una ragazzina dall’aria nerd, dalla natura infida e imprevedibile. Viene anche il dubbio, delle volte, di come una quattordicenne possa essere tanto attrezzata per seviziare la propria vittima, anche se qualcosa si intravede all’inizio fuoriuscire dalla borsetta (forse la pistola taser).

    Non c’è dubbio che Slade, poi, riprenda quanto era stato fatto in Funny Games, che – con le sue ville isolate ed i suoi adolescenti psicopatici pronti ad uccidere dietro l’aura del candore – presenta vari punti di contatto con Hard candy (termine, per inciso, è un modo slangato per indicare le minorenni che vengono adescate in chat). Il tutto con un aspetto importante da sottolineare: proprio come nel film di Heneke, non possiamo accertare il motivo della vendetta, o meglio lo conosciamo – ma non abbiamo prove certe. Ad ogni modo la revenge è cieca, e per questo terrorizza, e non rimane appesa inesorabilmente ad una coscienza collettiva, come avveniva ne La morte e la fanciulla. Il fatto che siano una ragazzina a torturare un adulto disorienta, ma viene comunque più volte il dubbio su chi sia la vera vittima e chi il reale carnefice.

    Se si volesse cercare un ulteriore difetto, poi, c’è da sottolineare che certi momenti sono troppo prolungati, e rischiano di risultare pleonastici: la fin troppo citata scena della castrazione, del resto, sembra raccontare di una parte di pubblico che implora per la conclusione della stessa – addirittura prima che il protagonista maschile si decida a farlo.

    “Solo perché una ragazzina sa imitare una donna, non significa che sia pronta a fare ciò che fa una donna”

    il meccanismo narrativo è affascinante, quanto subdolo: come in gran parte di La muerte y la doncella, non sappiamo se la vittima sia davvero responsabile, e nei panni di un invisibile avvocato Escobar, anche se lo meritasse fatichiamo a comprendere la situazione. Del resto vedere Jeff nelle mani di una teenager vendicativa (e forse poco realisticamente quasi invulnerabile) scatena un meccanismo di tensione raramente visto su schermo: basterà a fare un buon thriller? La risposta è, almeno in questa fase, che basta e avanza.

    Non c’è dubbio, poi, che molto della tensione psicologica vada a svilupparsi quando la protagonista rigira come un guanto la casa del fotografo, alla ricerca di prove della pedofilia di cui lo accusa. Prove che potrebbero esistere o meno: il messaggio di fondo è anche che ognuno possiede i propri scheletri nell’armadio, e la violazione della privacy di chiunque potrebbe portare a risultati inquietanti. Aspetto non banale che in pochi, in fase di analisi e critica, hanno osservato, a mio avviso.

    Hayley appare come un demone implacabile, scatenatore di una hybris (nel senso letterale di far “pagare le conseguenze del passato“), una vendetta feroce che, proprio come nella tradizione dell’antica tragedia greca, colpirà senza pietà e a prescindere. La cosa che potrebbe far sollevare qualche sopracciglio, del resto, è il sospetto che la vendicatrice anti-pedofila potrebbe essere una mitomane, che sta mortificando l’altro senza che lo stesso sia l’autentico responsabile. Non è chiaro, non sembrerebbe essere così, e forse poco importa: Hard Candy, per manifesto, si erge al di sopra di qualsiasi morale – e lo testimonia un finale tutt’altro che liberatorio. Questo, per inciso, non implica che non possa essere anche pretenzioso – o addirittura semplicistico – nel trattare un tema così delicato, cavalcando generalizzazioni magari improprie, troppo di “pancia” o biased.

    Hayley, in fondo, ammette di essere un “simbolo” di tutte le vittime della pedofilia, il che è una rivelazione ridondante: ci sta l’allegoria, ma ci si chiede anche perchè renderla didascalica. La narrazione A tale riguardo condivido e prendo in prestito la frase usata da Tim Brayton – in una recensione sarcastica,molto più critica della mia – dal suo sito AlternateEnding: “se un personaggio dovesse formalizzare in assoluto l’idea di rappresentare un gruppo o un classe, semplicemente non potrebbe farlo“. Il che è vero, per quanto se ne possa discutere, ed è probabilmente un limite narrativo che il film prova a sviscerare.

    Slade sembra comunque a proprio agio nell’impostare in questi termini la sua storia, che – al netto di almeno sei colpi di scena clamorosi – forma un buon film, un thriller sopra la media che vive, pero’, di un imprevedibilità diluita, spesso fine a se stessa. Ovviamente sarà importante vedere il film fino alla fine prima di esprimere qualsiasi giudizio, anche perché ribaltamenti di fronte saranno numerosi e, un po’ come nella tradizione argentiana o hitchcockiana, basta un dettaglio per ribaltare tutto. Ma resta l’idea che il bersaglio sia stato, in qualche modo, poco messo a fuoco.

    Dopo innumerevoli twist nella trama si arriva, dopo quasi due ore di film, ad un finale simbolico e angosciante – anche se pare ne esista uno più aperto ed ambiguo, ci racconta il regista nel commento audio. Hard candy è questo, un po’ come un film analogo (e altrettanto crudo) uscito l’anno prima – Mysterious Skin, per la verità forse tutt’altra storia. Blindato nella sua narrazione soffocante e minimale, caratterizzato da dialoghi molto curati e da interpretazioni di livello, minato imprevedibilmente da un’idea che non si capisce bene dove volesse arrivare. Ma in fondo, forse, va bene lo stesso.

    Hard Candy non è mai uscito in Italia (dato il tema trattato, non c’è troppo da meravigliarsene), per cui non esistono versioni doppiate, ma soltanto sottotitolate. Immagine di copertina di Bart ryker, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1906180

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