Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • The Lure: e nessuno visse felice e contento

    The Lure: e nessuno visse felice e contento

    Grazie alla Disney e a un errore di traduzione nell’Odissea, in cui “penna (intesa come piuma)” venne confusa con “pinna”, le sirene sono comunemente conosciute come esseri metà donna e metà pesce, che da sempre esercitano su noi comuni mortali un romanticismo non indifferente. Figure affascinanti che negli anni sono state raffigurate come bellissime e dalle code iridescenti, sulle cui squame si riflettevano miriadi di gocce d’acqua che davano vita a innumerevoli giochi di luce quando colpite dal sole.

    Rappresentano quell’attrazione innegabile per il mare aperto, la cui vasta immensità è tanto terrificante quanto intrigante.

    Grazie a questa narrativa si sono spesso ignorati gli aspetti più empi di queste creature: cattive, doppiogiochiste e cannibali; consapevoli della loro bellezza e della loro capacità di incantare gli uomini da utilizzare le proprie doti canore per ingannare gli uomini, troppo deboli per resistere al loro fascino, al fine di annegarli e cibarsene. In altre narrazioni sono state raffigurate come esseri marini antropomorfi visivamente brutti e terrificanti, che nulla avevano da spartire con la bellissima ragazza narrata da Andersen e che anni dopo ci regalò l’indimenticabile Ariel nel lungometraggio animato targato Disney.

    Proprio alla storia de La Sirenetta si è ispirata la regista polacca Agnieszka Smoczynska per il film The Lure del 2015, presentato al Sundance Film Festival e attualmente disponibile su Netflix. La pellicola, confezionata come un musical, assume, man mano che si progredisce nella storia, un aspetto sempre più horror e dark, e racchiude più sottotesti. Il primo è quello relativo all’infanzia della regista, la quale ha dichiarato di essersi ispirata alla propria infanzia vissuta nei nightclub dove lavorava sua madre; mettere in scena la propria esperienza nascondendola all’interno di un’altra storia le ha permesso di raccontare ciò che ha vissuto in maniera più naturale, senza doversi trovare faccia a faccia, effettivamente, con questa realtà. Il secondo sottotesto invece si snoda attorno alle sirene, alla loro esistenza e al loro corpo. Non sarà difficile individuare critiche alla società e alla cultura performativa e sessista odierna, nonostante il film sia ambientato negli anni ’80. E proprio in una fredda notte in cui si respira a pieni polmoni l’aria grigia tipica dell’immaginario degli ex regimi sovietici le sorelle sirene protagoniste, Golden e Silver, si spingono fino alle rive della Vistola per attirare un gruppo di musicisti che sta suonando e convincerli, con il loro canto, a portarli con sé sulla terraferma per riuscire a banchettare con i loro corpi. I tre – padre, madre e il figlio Mietek – sono completamente affascinati dalle voci delle sirene che decidono di includerle nei loro spettacoli nel nightclub in cui lavorano in veste di coriste; Golden e Silver ruberanno sempre di più la scena, arrivando a diventare l’attrazione di punta del locale, ma alla loro ascesa e venerazione da parte degli spettatori corrisponderà il declino della vita personale.

    Sono le luci stroboscopiche e i lustrini del night a fare da controparte “sirenesca” di The Lure: un aspetto immediato che colpisce delle protagoniste è infatti quello di non essere le classiche sirene fiabesche, ma creature acquatiche, la cui lunghissima coda verdognola priva di pinne ricorda quella delle poco affascinanti anguille. Un dualismo lampante che colpisce subito lo spettatore e lo rende cosciente del fatto che le sirene non sono completamente umane e belle. Un dettaglio, questo, che non mancherà di sottolineare Mietek a Silver: spintasi originariamente, come abbiamo visto, insieme a Golden in superficie esclusivamente per un tornaconto personale, la sirena cambierà presto idea quando imparerà a conoscere il giovane, di cui si innamorerà sempre di più. Per ottenere il suo amore, Silver è pronta in ogni modo a mettere in discussione se stessa, la propria natura e il rapporto con la sorella, ma Mietek le dice chiaramente che la vedrà sempre e soltanto come un pesce e non come una vera donna. Questo è solo uno dei casi in cui le due sirene saranno sottoposte alle continue aspettative degli esseri umani, rappresentanti di una società fagocitante e crudele che spreme tutta la bellezza e la vitalità da coloro che considera “pezzi da novanta” unici e inimitabili, per poi abbandonarli a se stessi una volta che questi non le servono più perché incapaci di rispondere ulteriormente a quelle aspettative. Chi cerca di adattarsi, come Silver, finisce per perdere di vista la propria identità e i propri obiettivi; chi invece tenta in ogni modo di restare integro e fedele a se stesso, come Golden, viene visto come un elemento di disturbo che va necessariamente annientato per riportare l’ordine.

    Il nightclub dove le sirene si esibiscono, grazie al tripudio di luci, colori, costumi, effetti scenografici e glitter, non rappresenta altro che la maschera ipocritamente affabile che la società corrotta indossa tutti i giorni, con il fine di ingannare con false promesse le persone che tentano di inserirvisi; non è dunque un caso che una delle prime canzoni del musical sia totalmente incentrata sui sogni, grandi e piccoli, concreti e frivoli, che Golden e Silver vogliono realizzare sulla terraferma. Qui, purtroppo, troveranno soltanto emozioni e sentimenti con la data di scadenza; bugie e inganni; ipocrisia dilagante che non vede l’ora di farle a pezzi e venderle come carne da macello al migliore offerente, attraverso una sessualizzazione spinta all’eccesso dei loro corpi unici e straordinari.

    In questo clima frustrante e asfissiante crescono sempre di più l’illusione, incarnata da Silver, e il risentimento, proprio invece di Golden. Il primo a venire meno è il loro legame di sorelle: ognuna arriva a vedere nell’altra una minaccia ai propri obiettivi e ai propri sogni, che fino a poco tempo prima condividevano. L’assenza del loro equilibrio personale in quanto unica e solida certezza non può che lasciare spazio a un effetto valanga destinato a peggiorare sempre di più, fino all’epilogo tremendamente tragico e privo di qualsiasi tipo di speranza.

  • Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Alex DeLarge è un giovane londinese che trascorre le giornate tra risse e stupri, accompagnato da una banda di degenerati degni compari: arrestato, viene sottoposto ad un esperimento di rieducazione (“la cura Ludovico”, fortemente promossa da un candidato ministro) dagli esiti imprevedibili.

    In breve. Il saggio di ultra-violenza cinematografica per eccellenza: senza dubbio tra i migliori film di sempre.

    Considerato ai primi posti nella classifica dei più controversi film mai girati (secondo posto, l’Entertainment Weekly nel 2006), rientra in numerose classifiche, tra cui quella di essere al 70° posto come miglior film in assoluto. In realtà “Arancia Meccanica” dovrebbe rientrare tra i primi dieci di diritto: l’arte cinematografica di Stanley Kubrick, virtuoso regista stra-citato quando discusso e impossibile da imitare, si esprime infatti in una delle sue migliori creazioni.

    Arancia meccanica – noto con vari titoli a seconda degli stati: The Orange From Hell, Paklena Pomorandza, Paklena Naranca, Paklena Masina, Machine from hell, tutti titoli che evocano “Un’arancia ad orologeria” che doveva far riferimento, nelle intenzioni dell’autore Anthony Burgess, ad un essere umano trasformato in una macchina – racconta una storia realistica in un’Inghilterra distopica. Lo fa sfruttando una singolare reinvenzione del linguaggio, in una propria, inequivocabile dimensione, aderente al romanzo da cui è tratto e riletta in grande stile. Ciò avviene a partire dai presupposti scenografici, che immaginano un’ambientazione bizzarra (attuale quanto futuristica, diremmo: ci sono libri e vinili, ma si capirà di non essere nel 1971), tra colori sgargianti e tecnologie vintage, per focalizzare una storia di “ordinario degrado”, come tante ne potremmo sentire in cronaca – che diventa successivamente grottesco puro. Nel farlo, Kubrick si affida ad un linguaggio puramente rivoluzionario, sfruttando il cinema per esprimere le contraddizioni dei metodi autoritari di educazione e, al tempo stesso, mostrando altrettante perplessità su quelli più aperti in voga in quegli anni. Se da un lato potremmo quindi intravedere le derive del cinema poliziottesco (che rappresentava sempre più spesso eroi comuni che giustiziano da soli i delinquenti, soddisfando la sete di sangue di certo pubblico reazionario), Arancia Meccanica si pone in una posizione sostanzialmente contrapposta, tutt’altro che ideologica o “per partito preso”.

    Arancia meccanica vive in un clima strano, un’Inghilterra straniante e distopica, fatta di colori vivaci e luce diffusa: un possibile parallelismo di ambiente potrebbe ricondursi a ciò che avviene in certa letteratura cyberpunk. Il futuro (perchè è qui che si colloca la storia di Alex) non è fatto da tecnologie alettanti o astronavi nello spazio, bensì da paure urbane, violenza gratuita, alienazione, droghe e sesso violento. Componente sessuale, qui, funzionale e caratterizzante (al netto di polemiche moralistiche, sostanzialmente inutili), in grado di perdere qualsiasi attrattività per lo spettatore, diventando mera esibizione di vuoto, spettacolarizzazione cruda e brutale. Qualsiasi esagerazione visuale, del resto, fa vedere da cosa parta Alex, fino a definire una parabola su cosa diventerà: questo sembra essere il punto. In questa narrazione la grandezza di Kubrick si declina anche nel non lanciare alcun esplicito messaggio moralistico o di monito, come faceva ad esempio tantissima exploitation (da questo film molte scene sono state ispirate o imitate, spesso con risultati e filosofie ben diverse), bensì nel mettere lo spettatore di fronte ad un paradosso (senza uscita?): laddove la rieducazione del selvaggio Alex sembri doverosa o necessaria, improvvisamente il ragazzo è diventato un’ameba incapace di difendersi, vittima di un feroce contrappasso nonchè strumentalizzato a fini politici.

    Il soggetto del libro fu assegnato (nell’ordine) a Mick Jagger dei Rolling Stones, a Ken Russell, a Tinto Brass e finalmente a Stanley Kubrick, che si prese l’incarico di girarlo vedendo in Malcom McDowell l’unico possibile interprete del protagonista. Ne risulta un film emblematico, solidissimo nel suo concepimento, a sottolineare un’idea precisa di cinema kubrickiano, perfezionista fino all’estremo: Kubrick non solo girò ogni scena numerose volte (incluse quelle più obiettivamente difficili da gestire per gli attori), ma fece anche distruggere dal proprio assistente tutto il girato non utilizzato. Non solo: temendo che i cinema che proiettavano il film lo manipolassero prima della proiezione, si accontentò di un budget di poco più di 2 milioni di dollari (un budget da b-movie, per l’epoca) pur di mantenere il controllo sul materiale, curando personalmente le campagne pubblicitarie del film, il trailer e (pare) mandando, poco prima delle proiezioni, nuove copie integrali ai principali cinema, in modo da assicurarsi che il film fosse sempre proiettato per intero.

    Sembra incredibile a pensarci oggi, ma Arancia Meccanica venne girato con un budget ridicolo rispetto alla grandiosità che sarebbe riuscito ad evocare, diventando un’icona pop, di genere, di cinema impegnato e quant’altro, ed è questo un ulteriore motivo di pregio per una delle pellicole più autenticamente distopiche mai realizzate. Un film determinato da una selezione di riprese ossessive, dove nulla è lasciato al caso, e da gesti meccanici, coreografici (Alex che danza nelle scene più violente, così come è in grado di diventare mansueto e farsi coccolare dalle autorità, è uno spettacolo ineguagliabile): in una parola perfetti proprio perchè provati e ripetuti fino all’inverosimile. Basti pensare (senza entrare nei dettagli) che solo il finale venne ripreso ben 74 volte, prima di pervenire alla versione definitiva.

    Arancia meccanica è quel tipo di pellicola autoriale controversa, lontana dalla tradizione di genere ma che, in parte, al cinema più popolare strizza l’occhio: è un film per cui è impossibile dire se sia drammatico, distopico, grottesco o che altro, che viene arricchito da elementi aggregabili che sarebbero diventati codificatissimi sotto-generi. Il racconto di ordinario degrado urbano, il cinema decadente, un certo tipo di recitazione straniante e ostentata – le spiazzanti home invasion, l’infame tradizione del revenge movie, sono tutti elementi richiamati nel film con gradazioni differenti.

    Un personaggio, quello di Alex, emblema del ragazzo difficile in cui è impossibile immedesimarsi, dall’innata crudeltà esaltata da un carattere passionale (stupratore e aggressivo, quanto amante del “Sommo Ludovico Van” Beethoven), per cui alla fine si proveranno sentimenti contrastanti. Le sequenze sembrano avvenire in luoghi caratterizzati da un mix bilanciato di grandiosità e complessità (il teatro abbandonato, le statue di Allen Jones del Korova Milk Bar, il centro di rieducazione che non è che una profondissima sala cinematografica), a finire dal modo di parlare dei personaggi, che evocano quello del libro di Burgess con il loro strano e suggestivo modo di esprimersi (il “nadsat”, un mix di slang russo ed inglese) e di chiamare le cose (il “latte più” alla mescalina). Del resto, è proprio il linguaggio a condannare Alex, in quanto la segnalazione alla polizia della sua presenza viene presa sul serio per “quello strano modo di parlare”.

    Vale la pena di raccontare, peraltro, ciò che accadde durante e dopo la famosa scena dello stupro, accompagnata in modo straniante da “Singing in the rain“: la cosa venne improvvisata sul set dopo 4 giorni di prove, e l’idea era quella di non banalizzarla o renderla troppo convenzionale. Kubrick fu talmente entusiasta del ciak definitivo da essere disposto a pagare 10,000 dollari per ottenere i diritti sul brano. Ma non solo: in seguito pare che Gene Kelly (protagonista del film Cantando sotto la pioggia, 1952) abbia evitato il povero McDowell durante una festa, dicendosi disgustato dall’uso che l’attore aveva fatto di quella canzone sognante e ottimista.

    Dopo una prima porzione di film incentrata su nefandezze di ogni genere, Alex – tradito dai compagni che diventeranno i suoi futuri aguzzini – diventa il detenuto 655321, alienato ed oppresso dall’autorità, sottoposto ad un durissimo regime carcerario ed alle prediche della religione e dell’autorità militare. Da qui scaturisce un ipocrita interesse per i testi sacri (che poi non è che immedesimazione in cruenti e dissoluti centurioni), ma soprattutto per la Cura Ludovico: un brain-wash a tutti gli effetti, che passa per la sottoposizione incessante ad immagini violente, allo scopo di purificarsi. A questo punto è la svolta: Alex è disposto a svendersi ed adeguarsi ai canoni imposti dalla società (“essere buono“, per lui, è un modo come un altro per essere di nuovo libero), ma non considera cosa comporti essere privato della possibilità di scegliere (“quando un uomo non ha scelta, cessa di essere un uomo“). Così si offre – dal suo punto di vista, furbescamente – alla cura, il che lo porterà alla libertà quanto alla progressiva rovina. Una volta fuori, c’è un mondo che non aspetta altro se non potersi vendicare delle sue malefatte.

    La Cura Ludovico è forse l’emblema del cinema politico tacciato di estremizzare e brutalizzare la visione: nel vedere Alex sottoporsi a filmati violenti, qualsiasi appassionato di cinema (soprattutto se estremo o borderline) troverà un appagante parallelismo. In fondo la visione di ogni film, specie tra i più controversi, non è che una “cura Ludovico” per provare a purificarci, al netto delle strumentalizzazioni e del comportamento che la visione potrebbe indurre. In questo, Arancia Meccanica si erge semplicemente come capolavoro assoluto.

  • Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    “Enemy” è un film del 2013 diretto da Denis Villeneuve e basato sul romanzo “The Double” di José Saramago. Il film è noto per la sua trama complessa e ricca di simbolismi, che ha portato a numerose interpretazioni e discussioni tra gli spettatori.

    La trama segue la vita di Adam Bell, un insegnante di storia noioso e insoddisfatto, interpretato da Jake Gyllenhaal. Un giorno, guardando un film, Adam nota un attore che assomiglia in modo sorprendente a lui. Adam inizia quindi a indagare sulla vita dell’attore, Anthony Claire, che è anche interpretato da Jake Gyllenhaal.

    Man mano che la trama si sviluppa, emergono parallelismi e simboli che suggeriscono che Adam e Anthony potrebbero essere la stessa persona, o almeno rappresentazioni simboliche di parti della stessa personalità. Entrambi i personaggi condividono una relazione complicata con le donne nella loro vita, che a loro volta sembrano avere connessioni e parallelismi.

    Il film è caratterizzato da una forte atmosfera onirica e surreale, con una fotografia cupa e una colonna sonora inquietante che contribuiscono a creare un senso di tensione e mistero. La narrazione ambigua e aperta a interpretazioni multiple ha portato a numerose teorie e discussioni tra gli spettatori sul significato e sulle implicazioni della trama.

    In definitiva, “Enemy” è un film che sfida lo spettatore a riflettere sul concetto di identità, doppio e la natura oscura della psiche umana. La sua natura enigmatica e simbolica lo rende un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per chi è disposto ad affrontare il suo mistero.

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