Il finale di ”Hardware” di Richard Stanley raccontato nel dettaglio (spoiler alert)

Richard Stanley non è mai banale: regista di Hardware (ma anche tra gli altri, di una particolarissima versione de Il colore venuto dallo spazio), si è sempre posto al genere con approccio autoriale. Affrontando temi complessi, mai banali, per cui il pubblico tende ad essere particolarmente critico e intollerante: questioni sociali e di genere, splatter, cyberpunk, Lovecraft, e chi più ne ha ne metta. Afferma da sempre di ispirarsi a Dario Argento e Mario Bava, ed ha infarcito la sua opera più famosa (Hardware – Metallo letale) di citazioni cinematografiche per i più colti, da Psycho a Suspiria. Tutto questo a dispetto delle apparenze, in effetti, che vedevano in Hardware un rehash di Terminator in salsa Blade Runner, cosa che potrebbe anche essere – ma che poi non è: ce ne accorgiamo guardando in particolare gli ultimi venticinque minuti di film (se servisse dirlo, SPOILER ALERT da qui in poi).

Siamo ad un punto di svolta della trama: Jill si è accorta che si ritrova nell’appartamento il feroce androide MARK 13 (riferimento biblico a colui che, al momento dell’apocalisse, non risparmierà la carne di nessuno), Moses non può intervenire perchè, come Shades (in trip da acido al momento dell’emergenza), si trova lontano da casa. Jill affronta con decisione il mostro meccanico prima nascondendosi nel frigorifero, poi trovando vari modi per hackerare o ingannare gli infrarossi della macchina. Arriva Moses che aggredisce a colpi di mitra l’androide, facendolo volare dalla finestra e prendendosi fastidiosamente i meriti per averlo sconfitto. È evidente la critica al modello maschilista imperante già all’epoca, e va dato atto alla regia di aver scelto una protagonista donna sulla falsariga di un omologo capolavoro come Alien di Ridley Scott.

L’inizio della sequenza psichedelico-allucinatoria di Hardware.

Non finisce qui: MARK 13 risale dalla finestra, fa saltare Jill nella finestra inferiore ed inietta il veleno a Moses, che prima si convince di essersi salvato poi inizia ad avere le allucinazioni. È questo probabilmente il momento clou dell’opera: le allucinazioni di Moses sono un mix dei suoi ricordi, dei suoi pensieri, del suo desiderio di essere padre, di proteggere Jill, di salvare l’umanità. Non è semplicemente una fase introspettiva dell’opera: sono ricordi che fluiscono all’interno di MARK 13, che – in ottica post umana o accelerazionista – si scopre assorbire i ricordi delle sue vittime, analogamente a La cosa che assimilava le forme delle sue prede. MARK 13 non è solo un robot assassino: è un robot che sostuituirà l’uomo su larga scala. Ce ne accorgiamo quando Jill sfoggia il colpo di scena finale: da terminale riesce ad entrare dentro la macchina e sembra sentire le voci delle vittime (il guardone mentre canta poco prima di morire, le parole di Moses e via dicendo). Questa mossa di puro hacking non è neanche risolutiva, e l’azione si sposta nella doccia in cui avevamo visto le effusioni tra i due amanti. A quel punto l’unica cosa rimasta è quella di aprire il rubinetto dell’acqua, il che provoca un corto circuito al dispositivo che finalmente, a quel punto, può spegnersi.

Beffa finale: MARK 13 è stato sconfitto per nulla, perchè sentiamo una voce alla radio che annuncia che governo ha deciso di produrre su larga scala i MARK 13. Ufficialmente “per creare nuovi posti di lavoro”, un ritornello che si è auto-avverato sinistramente anche da noi durante la prima campagna elettorale di Forza Italia, per chi se lo ricorda. Nella realtà il governo sembra aver intenzione di riservare all’umanità lo stesso trattamento dei personaggi della storia, in modo da ridurre l’impatto ambientale dell’uomo (morale ironica o grottesca, e questa è).

Un avvenieristico videocitofono, così come immaginato da Stanley nel 1990.

Nell’ultima sequenza vediamo il Nomade incamminarsi nel deserto, probabilmente in cerca di altre città in cui ripetere quello che ha già fatto: reperire nuovi pezzi di MARK 13 e farli riassemblare a qualcun altro, sfruttando la loro rispettiva ingenuità. Il cielo è luminoso e senza una nuvola, e Moses aveva ribadito più volte nel film che non piove da molto tempo: sappiamo pero’ che i MARK 13 si disattivano con l’acqua, come abbiamo scoperto nella sequenza precedente. L’acqua è l’elemento vitale: è il momento in cui inizia l’amplesso tra Jill e Moses ed è l’unico modo per mandare in blocco la macchina. Pertanto solo la pioggia, il rispetto per l’ambiente in cui viviamo, possono salvarci dall’estinzione. L’idea della produzione di massa di androidi killer sarebbe dovuta essere sfruttata per l’inedito sequel “Hardware 2: Ground Zero“, mai uscito per problemi di diritti e che, a questo punto, sembra improbabile possa mai uscire.

Il computer di cui vediamo più volte la tastiera nel film, per inciso, è il simbolo dell’alfabetizzazione informatica nel Regno Unito: il BBC Micro di metà anni Ottanta.

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