La cura del benessere: un film che è più forma che sostanza

Lockhart è un giovane broker di Wall Street, inviato in una remota clinica svizzera per portare via l’amministratore delegato Pembroke: è in gioco la chiusura di un affare dai tratti dubbi, e l’azienda ha necessità di avere una sua firma. Una volta sul posto, Lockhart si renderà conto che c’è qualcosa di strano nell’aria: tutti i pazienti sembrano stare benone, nessuno ha voglia di andare via e l’atmosfera è inebetita quanto innaturale…

In breve. Crea presupposti inquietanti, ma li risolve e li tiene in piedi solo in parte: fa credere di voler andare in una precisa direzione, e caratterizza con cura la narrazione contrapponendo il carattere cinico di un broker di New York con le manie di onnipotenza di un carismatico medico. In seguito la storia si perde in meandri imprecisati, risultando fiacca e godibile solo in parte. Sarebbe un buon film, ma l’impressione è che manchi il dono della sintesi e che si creda nella narrazione fino ad un certo punto.

La cura del benessere segna il ritorno all’horror di Verbinski dopo 14 anni dal remake di The Ring, ed avrebbe tutto per segnare una riscoperta del regista e produttore americano; cosa che purtroppo avviene solo in parte, o non avviene per nulla. Il film funziona splendidamente dal punto di vista visivo, ed è abile a costruire le classiche atmosfere “a orologeria” tipiche dei migliori horror: da un momento all’altro, infatti, ti aspetti che si scopra l’arcano, che venga fuori l’anomalia che caratterizza la clinica. La ricerca non sarà pienamente soddisfatta: anche quando si iniziano a scoprire le varie verità della storia, non c’è abbastanza perchè la narrazione possa davvero decollare.

Del resto La cura del benessere eredita quasi tutto da atmosfere già note in film precedenti: dal Cronenberg delle origini (quello ossessionato dalla medicina e dal body horror) ad alcuni scenari claustrofobici alla The experiment, fino a quelle più blockbuster e ottantiane di Sorvegliato speciale di John Flynn – con la differenza che qui sembra sopravvivere solo l’enfasi narrativa, senza che il film riesca ad arrivare ad un punto vero e proprio. Verbinski punta il dito contro l’avidità di certa parte della società, ma siamo lontani dai fasti degli horror politici di culto e, in definitiva, non si capisce dove voglia andare a parare. Non c’è dubbio che “La cura del benessere” non sia un brutto film, e che la maggioranza delle critiche lette – alcune delle quali inutilmente crudeli, almeno quanto la scena “dentistica”, probabilmente omaggio a Il maratoneta – sia legato al sentimento di frustrazione del recensore nei confronti di un lavoro con buone interpretazioni ma dal feeling imprecisato, dal genere dubbio e con troppi elementi incerti. Il vero problema di questo film di Verbinski  non è tanto nella classificazione, del resto, quanto negli elementi apparentemente contraddittori che inserisce: parte come uno dei più spaventosi thriller ambientati in una asettica clinica, con tanto di personale medico con atteggiamento da SS ed infermiere algide e sinistre, per poi perdersi in una conclusione banalizzante e fiacca (per non dire peggio). Se il registro fosse rimasto coerente con l’inizio, sarebbe andato tutto bene (come avviene, ad esempio, nel pregevole The Ward): ma in questo caso il cambio di registro è troppo brusco ed imprevedibile, quasi a rendere innocua la narrazione stessa.

Vediamo pazienti morire o risorgere, allucinazioni che sembrano realtà, idee neanche malvagie di per sè (le anguille simbolo della rigenerazione, i corridoi labirintici, i personaggi ambigui, l’acqua purificante: sarebbe potuto essere un buon film satirico contro la medicina omeopatica, probabilmente), senza contare gli oscuri riferimenti ad una lugubre mitologia di circa 200 anni prima, e la figura della giovanissima Hannah, estremamente affascinante da ogni punto di vista. Nonostante questi elementi – che poi sono quelli tipici dei migliori horror – il feeling nichilista (che è quello che caratterizza la prima ora di film) viene fatto fuori, in favore di conclusioni confuse, sequenze da torture porn forse avvenute solo nella mente di chi le ha subite, improbabili sequenze da cine-fumetto e fughe rocambolesche alla Indiana Jones, che lasciano semplicemente spiazzati e fanno venire il dubbio che, nel frattempo, possa essere iniziato un film diverso. Verbinski dirige bene, meglio di quanto potrebbe sembrare dalla lettura di una qualsiasi critica, ma fa sollevare più di un sopracciglio sia per la durata del lavoro (oltre due ore non esattamente funzionali a quanto viene raccontato) che per una serie di trovate “ibride” che non contribuiscono a far capire allo spettatore che tipo film abbia visto. Un po’ come se, guardando il cruento A serbian film, uscisse all’improvviso fuori un supereroe a risolvere la situazione (mi rendo conto che l’immagine è improbabile, ma raffigura nel modo più fedele possibile il sentimento di spiazzamento che mi ha accompagnato).

A Cure for Wellness non è un brutto film, e si guarda bene dall’esserlo: ma non è nemmeno il prodotto mainstream che molti hanno riferito. Questo suo “non essere” è il suo problema di fondo, soprattutto per via di un paio di sequenze simbolico-allegoriche tipicamente da b-movie, costruite per creare un diversivo alla trama, ma su cui devo ancora comprendere il senso rispetto alla storia (ad esempio, l’infermiere che si fa distrarre in maniera poco ortodossa dalla collega mentre dovrebbe tenere d’occhio il paziente, iniziando a masturbarsi in cambio di una goccia di vitamine – sic). Cose che, insomma, non sono affatto da mainstream e che normalmente negli horror amati dal “grande pubblico” (ammesso che ce ne possano essere) non si vedrebbero mai; così come alcuni passaggi che appaiono poco logici, poco consequenziali e, in certi momenti momenti, una ripetizione sconnessa di sequenze, che poco o nulla dicono dal punto di vista narrativo. La cura del benessere finisce pertanto per confluire – esattamente come l’onnipresente acqua dalle proprietà benefiche, o presunte tali – in uno sfocato mix di sentimenti, stili e attitudini che probabilmente vorrebbero piacere a tutti, ma finiscono per stonare e non piacere a nessuno. Del resto i riferimenti impliciti alla cinematografia di genere anni 70 ed 80 sono difficili da precisare, per quanto la citazione più spudorata (non sappiamo quanto volontaria) sembrerebbe essere in omaggio a Rabid – Sete di sangue: come in quel film, anche lì un personaggio viene ricoverato in una clinica dalla dubbia natura, e si trova coinvolto suo malgrado fino a scoprire la realtà.

Il climax viene costruito nel modo più intenso possibile, ma si sfalda strada facendo: e allora, in casi del genere, la valutazione deve per forza di cose rimanere sospesa.

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