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  • La puntata di South Park sulla pandemia è imperdibile

    The Pandemic Special (episodio 1 della stagione 24) è stata trasmessa in Italia qualche mese fa, un’unica volta, sul canale Comedy Central, dopo essere uscita il 30 settembre 2020 negli USA. Ed era anche ovvio che sarebbe uscita fuori, a ben vedere: raccontare come venga gestita l’emergenza sanitaria a South Park, in un clima di assoluto caos, era un’occasione da non lasciarsi sfuggire e che ben si sposa, per quanto sembri scontato riconoscerlo, con il mood generale della serie.

    La puntata è impreziosita da vari riferimenti cinematografici: su tutti, il momento in cui i bambini della scuola vengono messi in quarantena (si sospetta che Butters abbia preso il virus), è accompagnato dalla celebre colonna sonora di Essi vivono. Tutto è grottesco nella gestione della pandemia, a South Park: dall’atteggiamento dei ragazzi che guardano con scetticismo la didattica a distanza (Cartman che finge di avere problemi di connessione), passando per l’atteggiamento della polizia che freme per poter attuare misure repressive, a finire con l’atteggiamento delle famiglie, preoccupate quanto sospettose del distanziamento. Al centro della vicenda c’è Randy Marsh (il padre di Stan), che è entrato nel commercio di mariujana legale e che, dato il periodo, sta proponendo un’offerta speciale per venderla.

    Mentre ascolta le ultime notizie dal TG, si rende conto di essere stato il potenziale veicolo di infezione del coronavirus: quando è andato in Cina a fare bagordi con Mickey Mouse, infatti, ricorda di aver fatto sesso sia con un pipistrello che con un pangolino. A quel punto si convince di essere stato il paziente zero, e resta in bilico tra due scelte: non dire nulla, e lasciare che la pandemia dilaghi, oppure svelare mediante analisi del DNA quello che ha fatto, pur di trovare una cura. La puntata focalizza inoltre le consuete contrapposizioni tra posizioni che sono tipiche (quanto grottesche) anche nel nostro paese, spesso evitando le contrapposizioni scontate (mask contro no mask) e declinandole in maniera da farle sembrare ridicole (chi usa la mascherina contro chi, al contrario, la indossa tenendola abbassata, a mo’ di pannolino).

    Nel farlo, gli autori esprimono un punto di vista ben chiaro, sferrando un attacco molto diretto contro l’ex presidente Trump, che viene accusato (senza troppe allusioni) di sguazzare nel clima repressivo imposto dalla pandemia. Lo vediamo chiaramente in un momento: il Presidente USA (che poi è il signor Garrison nella sua ennesima personificazione di altri personaggi) non si vede per tutta la puntata, se non per un momento in cui parla al telefono con uno dei bambini della serie: il suo ruolo sarà brutale, quando determinante in negativo, solo in seguito.

    Quando il pangolino oggetto delle ricerche, dal quale si potrebbero trarre informazioni utili per il vaccino, viene finalmente ritrovato (e consegnato alle autorità addirittura da Cartman, il personaggio più egoista della serie), Garrison irrompe capovolgendo l’esito della storia in un twist forse tra i più clamorosi, quanto amari, mai visti in South Park. Il messaggio è lì, dirompente ed esplosivo, per quanto implicito: il presidente non ha alcun interesse a trovare un rimedio alla situazione.

    Tra le perle contenute in questa puntata, è impossibile non citare la canzone di Cartman che interpreta a modo proprio la quarantena: niente più obblighi scolastici, niente più imposizioni, restano solo abbuffate e videogame.

    Dove vedere la puntata su internet

    Al momento la puntata in questione non sembra reperibile on demand su nessun canale, ma è disponibile gratuitamente, con audio e sottotitoli in inglese, sul sito ufficiale della serie:

    https://www.southparkstudios.com/episodes/yy0vjs/south-park-the-pandemic-special-season-24-ep-1

  • Disicanto: Groening colpisce ancora

    Disincanto è la nuova sitcom di Groening che sta spopolando su Netflix, e che propone una ennesima collezione di personaggi grotteschi e surreali. Un lavoro che arriva alla sua terza stagione (da circa un mese anche in Italia su Netflix), nasce nell’estate del 2018 ed arriva da noi solo in seguito, e sul quale vale la pena di spendere qualche parola.

    L’ispirazione visiva di Disincanto parte dai Simpson ma anche da Futurama, dal quale si eredita un fortissimo mood satirico, spesso collegato con la realtà recente (Make DreamLand Great Again, ad esempio). Ad un’analisi più approfondita, più dai paradossi e dal gusto per l’assurdo tipico del secondo, con la differenza fondamentale che l’ambientazione è quasi del tutto fantasy. Ed è già questo abbastanza insolito, dato che difficilmente si vedono in giro versioni parodistiche di questo genere (che di solito omaggia – e deve molto – all’horror e alla fantascienza, al limite). Groening sembra quindi aver deciso di mollare il modello Simpson, e di declinare Futurama in maniera leggermente diversa: il mondo di DreamLand è dominato da elfi, principesse e animali parlanti, ma l’universo di Disincanto é puramente immaginario e decisamente compatto, come lo sarebbe quello de Il signore degli anelli.

    La storia è interamente svolta in un universo magico, epico quanto demenziale e con alcuni valori portanti invertiti (esempio: gli scienziati sono una specie di stregoni, gli esorcisti sono invece materialisti) altri, invece, intatti (società patriarcale, razzismo, sessismo, discriminazione delle minoranze), popolato di creature fantastiche (elfi, maghi, sovrani, giullari, orchi e così via). Un mondo tutt’altro che perfetto o ideale: esso è vittima, suo malgrado, delle psicosi e dei drammi esistenziali moderni, con figure di sovrani autoritarie quanto goffe, figlie ribelli, elfi bonaccioni e beoti ed un singolare demone-ombra (Luci) che caratterizza il lato ribella della protagonista (una principessa che beve, rutta e fa razzìe di ogni genere).

    Un mondo incantato (o disincantato, per meglio dire) oggetto di parallelismo con quello che conosciamo, e che avrebbe potuto far parte (senza l’apporto anticonformista di Groening) dell’universo classico della Disney. Esso viene declinato in senso cinico e materialista, per quanto mai sgradevole né eccessivo e, in breve, all’insegna di un sostanziale equilibrio narrativo. Questo va a vantaggio della fruibilità della storia, al netto di qualche momento di fiacchezza che poi, più o meno dagli ultimi episodi della seconda serie (Elfo, Luci e Bean che vanno all’inferno) riprende più vigorosamente quota.

    In Disincanto (ovviamente nomen omen significativo) si narra della storia della principessa Bean, avulsa ad un matrimonio di convenienza che il padre vorrebbe imporle, e dedita al vizio del gioco d’azzardo, dell’alcol e delle risse nei locali. La sua storia si intreccia con quella dell’elfo di nome Elfo, alienato e sensibile personaggio: lavora come addetto alla catena di montaggio, e si trova intrappolato in un mondo in cui le persone pensano a incartare regali (e, da buoni elfi, a gioire senza motivo).

    In questo, la frase da lui pronunciata nel primo episodio “Cantare mentre si lavora non è la felicità, è malattia mentale” sarebbe stata perfetta nelle digressioni distopiche di Terry Gilliam (Brazil), ma tra le principali influenze del lavoro è impossibile non citare Fritz The Cat: un film di animazione per adulti realmente di culto, ancora oggi inarrivabile – e dal quale si derivano, seppur in modo molto più frenato, varie allusioni sessuali e satiriche di cui la serie è cosparsa. Nella terza serie, ad esempio, si ironizza a più riprese sull’essere MILF della madre di Bean (la Regina Dagmar), rappresentata come una versione più fitness e molto più cinica della figlia.

    In tal senso Disincanto  ricostruisce un modo nuovo di comunicare, sempre sulla base dei classici stilemi di Groening, che sono sempre equilibrati e sostanzialmente godibili, al netto di qualche lungaggine narrativa. È impossibile non notare, peraltro, come Turanga Leela potrebbe essere il personaggio che ha ispirato la figura della principessa anticonformista, mentre l’Elfo sembra ripreso direttamente (sia nelle fattezze che nei maltrattamenti che subisce) da Bart Simpson.

    Di contro, Disenchantment non sembra avere dalla sua il dono della sintesi, con episodi singoli più lunghi della media di questi casi: questo sia rispetto alle produzioni classiche di Groening sia, ad esempio, rispetto alle sintesi cristalline di South Park, mentre rimane superiore narrativamente a qualsiasi episodio dei Griffin. Probabilmente, in altri termini, come potenziale lungometraggio avrebbe reso ancora meglio.

    Quel formato invece, alla lunga, rischia di stancare (nelle prime due stagioni), per quanto si tratti di una serie pensata per i fan dell’autore e caratterizzata dallo stile che ci saremmo sempre aspettati, quindi abbastanza da prendere per quello che è. Che la serialità sia un pregio o un difetto rimane, pertanto, un po’ dubbio: la critica è stata discorde a riguardo, ma devo riconoscere che sono più le cose che non convincono (eccessiva lunghezza della narrazione, un finale di stagione che mira all’incompiutezza “artistica” ma che, alla fine, non si capisce troppo se si tratta di un finale) che quelle che funzionano (tutti i siparietti in chiave satirica / anti-Potere sono eccellenti). Ad ogni modo è una serie da scoprire, e dalla quale provare a farsi coinvolgere, fermo restando la mia sostanziale avversione alla serialità che, ormai, domina nel mondo della produzione americana – come fosse un requisito senza il quale sia impossibile proporre la realizzazione di qualsiasi cosa.

    E se il cinema indipendente continua a regalarci orgogliosamente perle (ed altrettante porcate autoreferenziali) delle Settima Arte di massimo due ore alla volta, siamo costretti nostro malgrado (e senza nulla togliere) a visionare le ennesime operazioni del genere che, alla lunga, rischiano di saturare il mercato e appiattire la produzione. L’originalità dell’intreccio, ad ogni modo, costituisce un forte punto a favore dell’operazione, soprattutto a confronto della saga dei Simpson che, ormai da anni, sembrano aver perso qualsiasi mordente.

  • I 14 corti horror più brevi di sempre

    Siete amanti della sintesi? Riuscireste a credere che possano esistere corti horror che durano pochi minuti, se non addirittura secondi? Se non ci credete, questa lista è quello che vi farà cambiare idea per sempre. Ovviamente il fatto che siano i più brevi non sempre comporta che siano i migliori, ma sicuramente l’approccio è apprezzabile e lascia vivido l’interesse nello spettatore.

    Noi vi sfidiamo a guardarli tutti di fila: secondo noi il migliore è l’ultimo, anche perchè – ci crediate o meno – dura circa 10 secondi!

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    Lights out

    Un corto sulla paura del buio che colpisce anche gli adulti, con un tocco di ironia nera che non guasta.

    Red Girl

    Forse non perfetto nel finale, si segnala per un’idea notevole quanto migliorabile. Da segnalare, comunque, per la buona capacità di sintesi.

    Love Hurts

    Horror intimista e allucinato, forse prevedibile quanto dotato di un notevole doppio twist. Da non perdere…

    The black hole

    Un originale corto sull’idea di buco nero, un modo per collegare punti fisici non direttamente connessi, e qui espresso attraverso uno stratagemma semplice ed efficace.

    Emma

    Uno dei corti più famosi sul web per la sua brevità, forse eccessiva quanto efficace nel suo concepimento.

     

    Night terrorizer

    Il tema del doppio e dell’autolesionismo ricorre, tra realtà ed immaginazione, in questo breve ennesimo corto ambientato in una camera da letto.

    The drawing

    Notevole per l’idea e per come viene sviluppata: questo soprattutto perchè vengono usate due tecniche differenti all’interno dello stesso corto, con risultati oserei dire davvero splendidi. Da non perdere neanche questo!

    Clickbait

    Last bus home

    Bedfellows

    The moonlight man

    NUN

    The mirror

    Balcony

    Terrificante, inaspettato quanto surreale nelle conclusioni: forse uno dei migliori corti usciti negli ultimi anni.

  • Fumo nei film: un dettaglio che fa ancora discutere

    Film famosi: o per usare un gioco di parole forse banalotto, film fumosi. Secondo l’OMS la metà dei film holywoodiani presenta scene in cui un personaggio fuma come minimo una sigaretta, e per questa ragione dovrebbe essere vietato ai minorenni. Problem solved? Non proprio, o quantomeno: perchè si da’ tutto questo potere al cinema, quando effettivamente sembra sempre più chiaro il suo ruolo prevalente di sostanziale intrattenimento? Si sopravvaluta anche il potere della censura, probabilmente, partendo da buonissime intenzioni – questo senza dubbio – ma rischiando di addentrarsi in un “campo minato” in cui i film vietati, forse a maggior ragione, verrebbero comunque visti dai minorenni. E, molte volte, tanti film osanni nella storia vengono ricordati più per l’eco mediatica che suscitano pochi fotogrammi in cui qualche personaggio inala del fumo, che per il film o per il suo valore storico.

    Banalmente, ad esempio, in Casablanca si fumavano Chesterfield senza filtro. Senza ovviamente mettere in discussione la qualità del film per questo, proprio per quello che abbiamo premesso, la polemica riecheggia periodicamente, anche in un periodo come quello che viviamo, in cui le news in tempo reale sicuramente non mancano. Anche in una pellicola leggera come Grease, del resto, erano parte integrante di un giovane adulto, che scopre e si fa affascinare dalle relazioni sentimentali, interpretato da John Travolta (che, nonostante tutto verrebbe da dire, riusciva a ballare divinamente senza avere il fiatone, nonostante il fumo). Il Wolverine di Hugh Jackman era sempre con un immancabile sigaro, cosa del resto coerente con il personaggio fumettistico da cui è tratto. Il Joker di Phillips, per citare un altro esempio molto popolare negli ultimi tempi, tanto discusso quanto amato dal pubblico, esprime le proprie nevrosi con una sigaretta spesso inquadrata in primo piano. Certo, forse sono tramontati i tempi dei personaggi “fumatori incalliti” come quelli interpretati da Humphrey Bogart, ed oggi sicuramente questa cosa si vede molto meno che in passato: e quando si vede, è quasi sempre associata (almeno lato Holywood) a personaggi malvagi o veri e propri villain. Un esempio ulteriore per tutti: “l’uomo che fuma” era il cattivo senza volto, inafferabile ed infido, protagonista della primissima serie di X-Files. Non aveva nemmeno un nome: era semplicemente il cattivo assoluto della storia, una sorta di Innominato Tabagista.

    Possiamo identificare almeno due filoni di film che coinvolgano tabagismo e derivati, inclusa la possibilità ulteriore di riscontrare, a momenti, pellicole sui semi di canapa online: una prima scia, in pratica, che cita apertamente il riferimento nel titolo (pensiamo ad esempio al cult anni ’90 Smoke) ed una seconda che invece non lo fa, e nonostante questo il fumo assume una valenza simbolica, incidentale o addirittura sensuale in alcuni casi (la travolgente Sharon Stone di Basic Instinct, con il suo epico Need I say more? durante l’interrogatorio). In parallelo, poi, possiamo identificare un secondo filone cinematografico (prevalentemente si tratta di commedie) che arriva ad ironizzare sul problema (e la cosa probabilmente non farà ridere l’OMS neanche un po’), come i vari film con personaggi che usano la marijuana ma anche altri per cui, come nel caso di Phillips, il fumo non è il clou dell’intreccio ma fa un po’ parte della caratterizzazione fortemente nevrotica del personaggio.

    E allora come risolvere la questione? Perchè una questione c’è, ed urta le sensibilità di tantissime persone ancora oggi. Vorremmo cavarcela con uno stereotipo classico di questi casi, partendo dal semplice presupposto che impedire ai personaggi dei film di fumare troppo esplicitamente rende, nella medesima ottica, altrettanto discutibile un film come Il serpente di fuoco o Easy Rider (gli anti-eroici biker di quel film non erano sicuramente dei santi, in tal senso: privarli delle sigarette li renderebbe forse meno efficaci come personaggi) quasi non presentabile, da mettere addirittura al bando. Vogliamo davvero questo? Ed ammesso che lo volessimo, risolveremmo così facendo qualche problema sanitario reale? Pensare che il pubblico sia portato a farsi condizionare in modo indiscriminato da qualsiasi cosa veda sullo schermo è una cosa che mi spaventa da sempre, e spero vivamente che non sia davvero così.

    Confondere il personaggio con l’interprete, del resto, è uno degli equivoci più diffusi alla base di molte sterili polemiche che mi è capitato di sentire. Il cinema – un po’ come il teatro e l’arte più in generale – è un universo di fantasia che può discutere e ribaltare il senso del reale (esempi banali e noti ai più: Matrix e Inception), e che, al netto di sacrosante considerazioni sui pericoli indotti dal fumo, andrebbe lasciato intatto, proprio perchè non è censurando o occultando i dettagli che si risolve alcun problema reale. Certo, molti personaggi sono emblematici e, per questo, rischiano di diventare un esempio negativo: ma applicando la stessa logica, a questo punto varrebbe pure non trasmettere più CSI Scena del crimine per evitare emulazione di delitti? È un piccolo, innocente paradosso ma probabilmente meno strumentale di quello che potrebbe sembrare a prima vista.

  • Rabbits: cosa rappresentano i conigli per David Lynch?

    In a nameless city deluged by a continuous rain… three rabbits live with a fearful mystery.

    L’uso figurativo degli animali nei suoi film è stato più volte esplicitato da David Lynch: anche nell’ultimo corto proposto su Netflix, WHAT DID JACK DO?, che mostra l’interrogatorio del regista ad una scimmia – ma forse soprattutto nella web series da lui diretta dal nome Rabbits, per certi versi un vero e proprio oggetto di culto e di mistero. E, neanche a dirlo, si concentra su dei conigli.

    La web series, di genere orientativamente horror surreale / thriller, è disponibile nel canale ufficiale Youtube del regista, anche se apparentemente manca uno degli episodi che lo comporrebbero. La sua composizione narrativa è basata su un contrasto evidente: la storia, che tratta tematiche violente e conflittuali, è intervallata da applausi e risate registrate tipiche, invece, della leggerezza delle sitcom e delle serie TV.

    Interpretato da Scott Coffey, Laura Harring, Naomi Watts e Rebekah Del Rio, Rabbits è composto da 8 mini-film in tutto, ambientati in una “città senza nome” nella quale piove in continuazione, e tre conigli antropomorfi vivono dentro uno “spaventoso mistero”. Intrigante, senza dubbio, ma è il caso di approndire un po’ meglio il senso ed il contesto dell’opera.

    Nel suo film Inland Empire (2006), peraltro, David Lynch ha riutilizzato alcuni filmati di Rabbits e filmati inediti con i medesimi personaggi della serie, in modo apparentemente de-contestualizzato. L’unica cosa che sappiamo dall’inizio è che il capofamiglia – o caponiglio-famiglia, se volessimo esibire un neologismo che suona, se non altro, divertente – racconta di avere un “terribile segreto” da nascondere. Emerge un primo aspetto interessante, anche solo da qui: in alcune fasi più tragiche e tese della storia, Lynch ha inserito le risate pre-registrate delle serie TV tipo Friends per satireggiare, presumibilmente, la spettacolarizzazione delle tragedie immerse nel tubo catodico, ormai radicato su internet e non solo sui canali TV tradizionali. In seconda istanza, poi, i coniglietti sembrano rappresentare in modo grottesco la famiglia di uno dei personaggi (Devon, o Billy), cosa che riusciamo ad intuire dal tono e dal contenuto di alcune telefonate.

    Cosa significano quei conigli?

    Essendo una serie di corti focalizzati programmaticamente su un “mistero“, è impossibile dare una risposta netta a questa domanda. La prima idea che mi sono fatto, tuttavia, è che il tutto volesse essere una sorta di metafora dell’ingabbiamento sociale determinato dalla vita familiare, cosa che emerge soprattutto in relazione ai conflitti violenti che i personaggi vivono tra loro. Il tutto mediante l’immagine di “conigli in gabbia”, intrappolati in quella dimensione domestica dalla quale faticano ad uscire ed in cui, soprattutto, sono presenti silenzi interminabili e laceranti (che complicano forse più di tutti la visione dell’opera).

    Esiste anche una seconda possibile interpretazione, peraltro, forse anche più “paracula” ma che spiega buona parte del cinema di Lynch: pensare che non si tratti di narrazione bensì di evocazione di sensazioni, sentire, feeling generale teso a provocare una sorta di disorientamento al pubblico. Se molte teorie autorevoli sono emerse a riguardo – e non mancano le fan theory più fantasiose, peraltro – nessuna ha mai davvero convinto, trattandosi comunque di un intreccio dalla natura vaga e che lascia, più che altro, un profondo senso di straniamento nel pubblico. L’elemento sitcom (le risate e gli applausi registrati) sono la cosa che rimane più impressa anche al pubblico non abituato a vedere Lynch, per quanto poi sia un film (credo) apertamente dedicato solo ed esclusivamente ai loro fan.

    Caratteristiche della serie

    L’occhio di Lynch sull stanza in cui girovagano i conigli, presi da faccende domestiche varie, ha due caratteristiche: è distante (non ci sono mai primi piani), anzitutto, ed è girato con camera fissa. È un po’ come se si volesse trasmettere la sensazione di essere a teatro, il non-luogo per eccellenza, se vogliamo, nel quale tipicamente assistiamo a commedie e tragedie ivi delimitate, peraltro quasi sempre dal vivo e con gli attori davanti a noi.

    Immagine di copertina: Copyrighted, Collegamento

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