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  • Gran Torino: un film profondo che vale la pena riscoprire

    Gran Torino: un film profondo che vale la pena riscoprire

    Un’eccellente opera che eredita qualcosa del Clint vecchia maniera, e rielabora un personaggio di spessore per un film indimenticabile.

    Un’altra grande pellicola di un regista di enorme intelligenza, che si esplica attraverso una trama fittissima di dettagli, rappresentando realisticamente la miseria e la sofferenza di un uomo troppo vecchio – e troppo solo – per combattere contro un mondo ostile: tutto questo è, in estrema sintesi, Gran Torino, opera di Clint Eastwood uscito in Italia nel febbraio 2009. La trama racconta di un reduce della guerra in Corea (Walt Kowalski), rimasto vedovo, che si vede tartassato da familiari indifferenti e parassiti: la giovane nipote, ad esempio, ambisce ad avere null’altro che la Gran Torino custodita nel garage del nonno. L’autovettura diventa simbolo dell’immobilismo del personaggio: cinico all’estremo, fieramente misantropo, incattivito dalla guerra, diffidente verso le superstizioni che un giovane ed ingenuo prete cerca di inculcargli, e soprattutto biecamente razzista. Una descrizione molto poco politically-correct, che da un lato fa capire da cosa “fugga” il personaggio, ma dall’altro rende fin troppo scontato associare la figura al Clint western, guerriero solitario che si fa giustizia da solo. Walt, che è in cattive condizioni di salute, ha deciso di rimanere ostinatamente solo, mentre la famiglia di uno dei figli cerca di chiuderlo in ospizio: trova così il tempo ed il modo di socializzare con una famiglia asiatica (precisamente Hmong), superando l’ostilità iniziale e mostrando l’animo nobile derivante delle sue esperienze. Alla fine arriverà a capovolgere il proprio odio per prendere le difese dei due giovani ragazzi di famiglia, Sue e Thao, continuamente tormentati da una baby-gang di cui è capo il loro cugino maggiore.

    Sebbene la rappresentazione delle gang sia abbastanza stereotipata, essa ricorda vagamente quanto suggerito da Spike Lee in “Fa’ la cosa giusta“: tuttavia il “fight the power” si trova ad essere completamente ribaltato negli assunti, per mostrare, più che reali implicazioni sociali, il clima insostenibile in cui alcuni deboli si trovano a soccombere, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Eastwood sviscera il disagio della solitudine da più sfaccettature, e le prepotenze della crudele gang in questione compaiono, alla fine, “solo” come un macabro surplus. Un film che, peraltro, riesce a tenere viva l’attenzione dello spettatore per ben due ore senza sbavature, senza pecche e con diversi dettagli aggiuntivi: tra di essi l’educazione tradizionale, la ribellione disperata della pecora sul lupo, l’importanza della figura paterna e la cupa rassegnazione che questo mondo necessiti sempre e comunque di eroi.

  • Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Tra le numerose analisi che sono state fatte su questo capolavoro nichilista di Pier Paolo Pasolini da tempo sono convinto che la parola chiave del film sia più Salò, che aiuta storicamente a contestualizzare la violenza rappresentata, che Sodoma (che è un richiamo al limite biblico). Sodoma è una città menzionata nell’Antico Testamento, principalmente nel Libro della Genesi. Insieme a Gomorra e ad altre città, Sodoma è stata distrutta a causa della sua empietà e della sua depravazione morale. Ne potrebbe rappresentare, al più, l’aspetto simbolico, il significato che si è voluto dare alle ben note violenze e depravazioni rappresentate, le quali – vale la pena di ricordarlo nella premessa, a nostro avviso – sono in effetti una rappresentazione degli abusi della gerontocrazia e del patriarcato entrate da mesi nel dibattito pubblico.

    I ragazzi che vengono imprigionati non hanno speranza, fin dall’inizio: viene premesso che si tratta di deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti. E quella morte assoluta, simbolica e reale, esprime il paradosso che Pasolini stesso ebbe a dire: i giovani non capiranno questo film, quelli d’epoca benintenso, e probabilmente neanche quello di oggi (ci viene da aggiungere).

    Spiegare il significato di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” a un ragazzo di oggi può essere delicato, dato il contenuto estremamente adulto e disturbante del film. Bisogna tener conto della sensibilità e dell’età del ragazzo. Tuttavia, in termini generali, si potrebbe dire che il film di Pasolini affronta temi molto profondi e oscuri riguardanti il potere, la corruzione e la degenerazione umana.

    Il film parla di quattro fascisti che assumono un controllo totale su un gruppo di giovani, utilizzandoli per soddisfare i loro desideri più perversi. Può essere interpretato come una critica alla malvagità e alla brutalità del potere, mostrando come coloro che detengono il controllo assoluto possano abusare in modo orribile delle persone più vulnerabili.

    Inoltre, il film può far riflettere sui concetti di degrado morale, perdita di umanità e sulla capacità delle persone di compiere azioni malvagie quando detengono il potere totale su altri.

    Per spiegare questo film a un ragazzo, potrebbe essere utile enfatizzare l’importanza della responsabilità, della compassione e dell’empatia. Si potrebbe discutere dell’abuso di potere e delle conseguenze dell’oppressione sugli individui, incoraggiando una discussione sull’importanza di promuovere una società basata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.

    Tuttavia, a causa della natura estremamente adulta e disturbante del film, è essenziale valutare se sia appropriato o meno per l’età e la maturità del ragazzo in questione. Potrebbe essere più adatto concentrarsi su temi più leggeri e accessibili, in modo da garantire una comprensione appropriata e una discussione che sia adatta al suo livello di età e comprensione.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma” è considerato uno dei film più controversi e provocatori nella storia del cinema per la sua rappresentazione cruda e disturbante della violenza e della depravazione umana. Pasolini ha voluto creare uno sguardo critico sulla società e sul potere, ma la natura estrema del film ha portato a una vasta gamma di reazioni, spesso negative, da parte del pubblico e della critica.

    Pier Paolo Pasolini venne assassinato prima dell’uscita di questo film: Pino Pelosi è indicato come responsabile, viene arrestato, ritratta varie volte la propria versione e non fu mai chiarito se l’omicidio sia avvenuto per sua manu o per colpa di altri sconosciuti presenti sul posto.

    Salò

    La città di Salò fu sede del governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un regime fascista di Adolf Hitler ,durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di ambientare il film durante questo periodo storico specifico è intenzionale e significativa: Salò è diventata nota per essere stata la sede del governo fascista dopo che Mussolini venne destituito e arrestato nel 1943. Durante questo periodo, l’Italia era divisa in zone controllate dai nazisti e da altre forze alleate, e la RSI operava come una sorta di enclave fascista.

    Pasolini ha ambientato il suo film in questo contesto storico per mettere in luce l’abuso di potere, la corruzione e la degenerazione morale del regime fascista. L’orrore del film è l’orrore del potere abusante che non deve tenere conto di nulla e di nessuno. La rappresentazione delle perversioni sessuali si ispirano a De Sade, come note, e rendono la sessualità un inferno, un sinonimo di abuso, tanto marcato e spinto all’estremo che diventa difficile guardare una seconda volta Salò dopo averlo vista la prima. Ma non bisognerebbe perdere d’occhio la localizzazione storica: la scelta di usare Salò come sfondo per la storia è simbolica della disgregazione etica e della decadenza umana sottolineate nel film, nonchè del fatto che il fascismo continua a serpeggiare tra di noi.

    Il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è stato diretto dal regista italiano Pier Paolo Pasolini ed esce nel 1975, poco dopo la morte del regista. Viene sequestrato quasi subito, è oggetto di infinite polemiche e divieti, fino alla sua riabilitazione e restauro successivo.

    Trama

    Il film è ambientato durante la Repubblica Sociale Italiana del 1944, durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Quattro potenti fascisti, noti come “Il Presidente”, “Il Magistrato”, “Il Vescovo” e “Il Duca”, organizzano un regime sadico e depravato in una villa isolata, dove rapiscono giovani uomini e donne per soddisfare i loro desideri sessuali e per esercitare il loro totale controllo su di loro. Questi prigionieri sono sottoposti a abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche estreme.

    Il film è diviso in quattro parti, ognuna corrispondente a una delle quattro passioni umane principali: la sodomia, il sadismo, il necrofilia e l’omaggio finale alla volontà dei signori.

    Cast principale

    Il cast del film include attori come Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle e Aldo Valletti nei ruoli dei quattro fascisti. Tra gli attori principali ci sono anche Hélène Surgère, Caterina Boratto e Elsa De Giorgi, che interpretano le figure femminili coinvolte nella storia.

    Alcune locandine del film

    Narrazione

    Il film è basato sul romanzo del Marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini ha usato il racconto del marchese nel contesto politico dell’Italia fascista, utilizzando la storia per commentare su vari aspetti della società, inclusi il potere, la corruzione, l’abuso e la violenza.

    La pellicola è estremamente controversa per le sue rappresentazioni esplicite e crudeli di violenza sessuale, tortura e umiliazione. È stata oggetto di censura e divieti in molti paesi per lungo tempo a causa della sua natura estremamente spaventosa.

    Produzione

    Il film è stato girato in diverse location in Italia, tra cui una villa nella città di Bologna. La realizzazione è stata caratterizzata da un budget limitato e da condizioni difficili durante la produzione.

  • Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Titolo: Fantozzi

    Anno di uscita: 1975

    Cast Principale:

    • Paolo Villaggio come Ugo Fantozzi
    • Milena Vukotic come Pina Fantozzi
    • Gigi Reder come Ragionier Filini
    • Anna Mazzamauro come Signora Silvani
    • Plinio Fernando come Geometra Calboni
    • Liù Bosisio come Signora Calboni
    • Renato Scarpa come Mariangela Fantozzi

    Regia: Luciano Salce

    Produzione: Giovanni Bertolucci e Ugo Tucci

    Stile: “Fantozzi” è un film italiano che appartiene al genere della commedia. Il suo stile è caratterizzato dall’umorismo surrealista e dalla satira sociale. Il film prende di mira le dinamiche dell’ufficio e della vita familiare in Italia, presentando il protagonista, Ugo Fantozzi, come un antieroe che affronta una serie di situazioni ridicole e imbarazzanti.

    Sinossi: Il film racconta la storia di Ugo Fantozzi, un impiegato italiano medio che lavora in un ufficio governativo. Fantozzi è costantemente sottoposto a umiliazioni e disavventure nella sua vita lavorativa e familiare. Dal rapporto difficile con il suo capo, il dottor Filini, alle incomprensioni con sua moglie Pina, Fantozzi è costantemente in balia di situazioni comiche e assurde.

    Curiosità:

    • “Fantozzi” è il primo film della popolare serie di film basati sul personaggio di Ugo Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio. La serie ha avuto numerosi sequel.
    • Il personaggio di Fantozzi è diventato un’icona della cultura comica italiana, rappresentando l’antieroe per eccellenza.
    • Il film è stato un grande successo al botteghino italiano e ha contribuito a consolidare la popolarità di Paolo Villaggio come interprete di Fantozzi.
  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • Perchè “Halloween II” di Rob Zombi è un horror incisivo e accattivante

    Apparentemente morto nel capitolo precedente, il crudele villain con la maschera inespressiva Michael Myers è tornato sulle scene.

    In breve. Molto simile al primo episodio, ne costituisce un prosieguo naturale e funziona, a conti fatti, solo in parte. Non esente da difetti, ma certamente dignitoso.

    Secondo episodio del reboot di Halloween di John Carpenter, che segue direttamente – e senza troppi preamboli – l’ottimo capitolo precedente girato da Rob Zombie: era francamente difficile bissarne le qualità (sempre soggettive, ovviamente, ma a mio parere è inequivocabile ci siano), ed il nostro regista riesce solo in parte nell’impresa. Lo fa, peraltro, impreziosendo la pellicola con spunti onirico-surreali del tutto assenti dal feeling generale della saga (la visione del cavallo e della madre di Michael, entrambi in bianco), che servono soprattutto a spezzare quella che, in mano ad altri registi, avrebbe rischiato di diventare monotonia. D’altro canto, pero’, si evidenzia il lato isterico e spaventoso della psiche di Laurie, che ignora di essere sorella di Micheal Myers ed accentua, per questo, il proprio lato più oscuro. Se in generale poteva essere uno spunto interessante, in certi momenti questo sembra un po’ monocorde.

    Il livello di splatter è prevedibilmente alto anche qui, con una sorta di seguito naturale delle vicende narrate in precedenza, e che mi pare opportuno vedere prima, per evitare che molti dettagli scorrano troppo velocemente senza comprenderne il senso. In questo Zombie è ancora una volta magistrale: il suo horror è rapido (in certe scene d’azione, forse troppo), diretto, essenziale e ricco della giusta dose di gore, che viene spiattellata in modo inesorabile ad un pubblico che, forse quasi esclusivamente, lo ama per questo motivo. Già Zombie aveva sfatato il tabù dell’intoccabilità dei classici, facendo togliere la maschera a Myers (una cosa impensabile, ai tempi dell’uscita), arricchendo la trama di un certo senso onirico e simbolico (sul cavallo bianco ed il suo significato ci sono varie interpretazioni), rielaborando la storia come se fosse un soggetto proprio – ed in effetti lo è: probabilmente la sua è anche l’unica strategia per dare dignità al concetto, perlopiù travisato, del fare un remake.

    Un problema di fondo di questo film è anche legato alla sua indistinguibilità dalla miriade di seguiti anche precedenti: non si tratta di Halloween II degli anni ’80 (quello che Carpenter sceneggiò e fece girare ad un esordiente Rosenthal), ovviamente, per quanto addirittura alcune scene siano simili (Myers nell’ospedale, ad esempio). Soprattutto – per certi versi – la rilettura della saga proposta dal regista, pur validissima nel suo esordio, in questa sede sembra smarrire un po’ di mordente, nonostante i tributi (vari horror classici ed uno al Rocky Horror Picture Show, con le tre ragazze vestite da Magenta, Columbia e Frank-n-further), riuscendo di meno a sorprendere e riavvolgendosi a spirale su idee già note, sia pur con l’apparizione improvvisa ed inquietante della madre di Michael, sempre accompagnata dal figlio da ragazzino. Alcune sequenze onirico-surreali rimangono sopra le righe, se non altro, ed è anche curioso come Loomis, la storica figura del dottore che aveva curato Myers, diventi quasi un personaggio negativo, avido e privo di scrupoli nel cercare di vendere il proprio libro. Alla base del film, la taglineFamily is forever“: Myers cerca ancora una volta la propria famiglia, per potersi ricongiungere ad essa.

    A quanto pare il regista decise di girare il seguito (cosa che inizialmente si sarebbe rifiutato di fare, a suo stesso dire) solo per evitare che la visione complessiva ne risultasse alterata da qualcun altro, buttandosi a capofitto nell’impresa che sa ancor più di kolossal, con questo secondo episodio. Il film stavolta è girato a 16mm in 1.85:1, a differenza del precedente remake che era invece in 2.39:1 (che per motivi tecnici Zombie ha dichiarato di non amare troppo). Di fatto non sembrano sussistere troppe differenze a livello di dinamiche d’azione e di omicidi, come è facile immaginare, senza contare che non sono neanche trascorsi troppi anni dal precedente (appena due): Myers diventa un’ombra che si aggira per uccidere nei modi più brutali, questa volta (dettaglio considerevole) comparendo in più occasioni senza maschera. Il Faerch che interpretava il giovane Myers, peraltro, viene qui sostituito da un altro interprete abbastanza somigliante, probabilmente perchè all’epoca sarebbe sembrato più grande rispetto al film precedente. Nota considerevole sul film, peraltro, è legata al fatto che alcuni attori interpretano più ruoli diversi: Jeff Daniel Phillips ad esempio è sia Howard Boggs che Uncle Seymour Coffins, mentre Dick Warlock ne interpreta addirittura tre.

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