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  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.

  • Giallo all’italiana: “Cosa avete fatto a Solange?”

    Una ragazza di un collegio cattolico londinese viene ritrovata uccisa sulla riva di un lago; un professore (Fabio Testi) si trovava lì in barca assieme ad un’altra alunna, con cui ha intrapreso una relazione clandestina, e la ragazza sostiene di aver visto una lama infierire sul corpo di una vittima. Presto i sospetti convergono inevitabilmente sul protagonista, ma la realtà è decisamente più complessa di quanto possa sembrare…

    In due parole. Giallo all’italiana accattivante e di buona presa sul pubblico, che rivede vari sterotipi del genere senza mai eccedere in sangue o violenza esplicita; buon ritmo, anche se tirato un po’ per le lunghe, basata sull’ambiguità di svariati personaggi apparentemente puliti (quando non perfettamente candidi) che nascondono in alcuni casi orribili segreti. La trama mostra apparentemente qualcosa in comune con “Non si sevizia un paperino” ma, a ben vedere, si tratta solamente di suggestioni. In definitiva uno dei migliori gialli all’italiana (assieme a “Mio caro assassino“) uscito durante il periodo d’oro del genere.

    Dallamano firma complessivamente un buon giallo, che possiede come principale difetto il titolo che gli è stato appioppato in italiano, decisamente poco efficace e che rischia di far pensare ad una trashata di terz’ordine senza capo nè coda. Eppure si tratta di un thriller nostrano decisamente ben riuscito, con buone interpretazioni sia di Fabio Testi che dell’irreprensibile (e al tempo stesso affascinante) Karin Baal, nei panni di una moglie in crisi matrimoniale. A tal proposito bisogna premettere che quest’ultimo personaggio viene sviluppato con le giuste differenze rispetto ad altre circostanze sceniche simili: non può che venire in mente, a riguardo, la crisi della coppia de Quattro mosche di velluto grigio. Questo per dire a chiare lettere che questo film non ricade nel “già visto” o “già sentito”, e questo sia a livello di trama – un soggetto ispirato al romanzo The Clue of the New Pin di Wallace – che di messa a punto scenica. “Cosa avete fatto a Solange“, che è anche la domanda fatidica da porsi nel momento clou della pellicola, rielabora sapientemente gli stereotipi del genere, confinando pero’ solo in parte il senso di noia che pervade lo scorrimento della storia nella sua parte centrale.

    Nulla pero’, a ben vedere, è scopiazzato, gratuito o senza alcun mordente, a cominciare dall’individuazione dell’assassino – che è quanto di meno scontato possa venire in mente allo spettatore – a finire con la caratterizzazione sempre azzeccata dei personaggi. Le varie ninfette protagoniste, ambigue quanto basta, finiscono per essere la vera chiave di volta della storia, la quale si propone in tutta la sua interezza solo a pochissimi minuti dalla fine sfruttando una sorta di “finale ad incastro” emulo di un meccanismo giallistico da manuale. Nulla che si possa realmente criticare, quindi, per quanto riguarda questa pellicola, che vede tra le interpreti le giovani Christine Galbo e la Kamille Keaton (pronipote del grandissimo Buster) che molti ricorderanno per il successivo (e controverso) “I spit on your grave” (anche in quel caso con un titolo italiano stramboide come “Non violentate Jennifer“). A completare il “pasto” si presentano diverse scene di nudo femminile, ripetuto e forse un po’ ostentato in vari momenti (brevi) della pellicola, probabilmente più per renderne appetibile la visione che nella reale consapevolezza di stare (re)inventando qualcosa. Senza che questo voglia minimamente sminuire una pellicola solida ed interessante, “Cosa avete fatto a Solange” rimane come un oggetto cinematografico di culto ancora oggi quantomeno per gli appassionati del genere.

  • La morte dall’occhio di cristallo appare tra Lovecraft e Boris Karloff

    Stephen (Nick Adams) arriva nella cittadina di Arkham per incontrare la propria compagna, ma il solo nome della villa di lei suscita una reazione isterica da parte dei cittadini. Molto presto usciranno fuori dei misteriosi segreti che hanno letteralmente contaminato l’ambiente…

    In due parole. Ispirato al celebre “Colore venuto dalla spazio” di H. P. Lovecraft (e rifatto in modo decisamente più incisivo, in tempi recenti, dall’italiano Zuccon), è un film piuttosto riuscito di per sè, pur senza veri e propri sussulti e nonostante la presenza dell’immenso Boris Karloff. Da vedere, più che altro per devota curiosità.

    Uno dei tantissimi esempi di horror vagamente archetipico e nella media del genere, dal quale i registi degli anni futuri attingeranno in parte: il presentarsi di alcune situazioni come la coppia che lotta contro l’entità ostile e la mentalità bigotta delle generazioni precedenti, produce un film certamente di un qualche valore storico benchè privo di spunti che facciano gridare al miracolo. Certamente filmare il “colore” di Lovecraft non era facile – piuttosto suggestive, a tale riguardo, le immagini iniziali e finali – e nonostante si possano condividere le considerazioni di Zuccon sull’argomento resta una sostanziale insoddisfazione dopo aver visto questo “Die, monster, die!“. La bellezza di Suzan Farmer riesce a farsi notare più della trama stessa, piuttosto esile di per sè e nonostante qualche sprazzo notevole: su tutti, non tanto la pianta rampicante aggressiva (stereotipata forse già allora) quanto la scoperta dello “zoo infernale” fatto di orridi animali deformi (quelli sì, usciti dai peggiori incubi lovecraftiani).

    Del resto solo qualche accenno di tensione, quattro provinciali ostili e la contrapposizione tra l’atteggiamento gretto di alcuni ed il progressismo di altri non riescono a fare di questo film un Vero Film Horror. Troppo poco, insomma, per gridare ad un miracolo o ad un film davvero degno di ntoa, senza per questo trascurara la prestazione sopra le righe dell’inquietante Karloff, padre-padrone autoritario e sicuro di sè, che non vorrà sentire ragioni fino alla fine. La mutazione delle persone in mutanti verdognoli, inoltre, richiama anch’essa qualcosa di già visto in altre sede, ed è talmente poco curata da rischiare di divenire fonte di ispirazione per un episodio dei Simpson.

    La morte dall’occhio di cristallo” è così: non un brutto film, sia chiaro, per quanto prendere o lasciare sia ad esclusiva scelta della spettatore.

  • La casa nera: un horror sociale esplosivo e tagliente

    Brandon, un ragazzino afroamericano di classe sociale disagiata, si lascia convincere da un amico della sorella (Leroy) a commettere un furto in una villa: il gesto è deprecabile, ma le sue motivazioni sono nobili: necessita dei soldi per pagare le cure alla madre, gravemente malata (e la sanità privata negli USA non lascia margine, per questo). Inquietanti presenze si nascondono all’interno della lussuosa abitazione, mentre i padroni di casa sono completamente fuori di testa…

    In breve. Craven un po’ sottotono rispetto alla media, forse, comunque artefice di un lavoro intrigante, con molta tensione al proprio interno e piuttosto diretto. Il tono da favola horror che caratterizza la pellicola rischia di essere frainteso, da parte di qualcuno del pubblico, come mera superficialità e colorazione semplicistica: rimane comunque un buon film con poco splatter e permeato di aspra critica sociale. Finale che più catartico non si può.

    Sostanzialmente si tratta di una favola nera, un racconto che potrebbe essere stato adattato da una storia classica di orchi malvagi e che, per certi versi, dinamiche e battute facili richiama le avventure per ragazzi alla Goonies. Questo ovviamente non deve assolutamente farvi credere che si tratti di un film per famiglie, dato che di scene piuttosto spaventose ce ne sono in abbondanza e, di fatto, sono i rapporti tra i personaggi che riescono già a risultare paurosi di per sè. Da un lato, infatti, una famiglia povera di afro-americani, di cui il più giovane figlio si lascia convincere dalla “cattiva compagnia” di turno a compiere un furto per pagare le cure alla madre, malata di cancro. Dall’altro, in un conflitto magistrale che avvince lo spettatore, una coppia di coniugi razzisti – in realtà si tratta di fratello e sorella – emuli della strega cannibale di Hansel & Gretel, rapiscono ragazzini e li fanno crescere di stenti come se fossero degli animali, arrivando a mutilare quelli che non considerano “figli perfetti”. Unica notevole eccezione è la giovane ed insicura Alice (sic, come quella nel Paese delle Meraviglie), totalmente succube dell’autorità dei due adulti, fornita di una candida cameretta ma costretta a subire vessazioni ed umiliazioni continue.

    Vedere “La casa nera” oggi (anche in vista di un’imminente riedizione in DVD anche in Italia) è un’esperienza consigliata per il pubblico generalista, ed un must per i fan di Craven: un film forse non eccelso, classicamente da seconda serata sulle televisioni commerciali, di buon livello e con tanto di finale ottimistico. Una cosa, quest’ultima, che potrebbe risultare piuttosto weird per chi sa bene quanto sia allergico all’happy end Wes Craven, e costruita con impeccabile abilità narrativa. Di fatto ci troviamo sulla media del genere: scene di sangue appena sopra la soglia del sopportabile, buon livello di tensione e a livello di contenuti l’ex professore regista non le manda a dire. Infarcendo la trama di elementi di polemica politico-sociale – e, aggiungerei, di critica ferocissima al capitalismo ed al razzismo, feroci quanto dalla facciata rispettabile – il regista di Nightmare ha proposto una piccola perla nel suo genere che richiama lo spirito del cult Society di Yuzna, pur essendo quasi del tutto privata della componente più gore.

    Di fatto “People under the stairs” – titolo originale e decisamente più suggestivo dell’anonima “casa nera” della versione italiana – è un frammento di cil che l’ horror americano non sarebbe mai più stato: uno scorcio di buon cinema del terrore anni 80, a quel tempo ormai agli sgoccioli, sporco, venato di humor nero, forse semplicistico per certi versi ma morboso al punto giusto, capace sia di focalizzare l’attenzione su aspetti seri (su tutti, le conseguenze e le motivazioni di un’educazione repressiva, cosa che peraltro avviene anche ne “L’ultima casa a sinistra“) che, come accennavo poco fa, tiene lo spettatore saldamente inchiodato alla poltrona. E quando i due rapinatori rimangono intrappolati nella casa che avrebbero voluto scassinare, con un feroce rottweiler alle calcagna, è un’esplosione di orrida claustrofobia a cui sarà difficile rimanere indifferenti.

    Curiosi, a mio avviso, i parallelismi che si possono proporre tra “La casa nera” e Pulp Fiction (che uscirà tre anni dopo): a cominciare dalla ristrettezza dell’ambiente interno/cantina dell’armeria del film di Tarantino, località in cui i personaggi si trovano quasi per caso, a continuare con la sensazione di trappola mortale che coinvolge direttamente gli spettatori, passando per lo spiccato realismo della violenza e, come se non bastasse, per la tuta nera indossata dal maniaco padrone di casa, identica a quella dello storpio torturatore di Marsellus Wallace. Certo l’omaggio potrebbe essere del tutto casuale (e sarebbe stato fatto da Tarantino nei confronti di Craven, ovviamente), ma resta il fatto che Ving Rhames interpreti sia il sadico Wallace che il povero Leroy, rimanendo quantomeno come richiamo visuale suggestivo tra due pellicole, al netto, piuttosto diverse tra loro.

    Forse Craven ha badato troppo all’aspetto socialmente critico, rischiando così – come mai avviene nei lavori di Romero – di far perdere mordente alla trama, mentre di per sè l’ ossessione per il messaggio politico non è neanche troppo originale per il cinema di questo tipo: senza che stia qui a snocciolare esempi, la critica alla famiglia pseudo-buonista la troviamo già in Hooper a più riprese, e proponendola negli anni 90 si rischia di scivolare pericolosamente nel già visto. Buona, comunque, l’idea di trasporre l’incubo quasi esclusivamente dal punto di vista del giovanissimo protagonista, il che conferisce un tono avventuroso alla pellicola il che, a livello di intrattenimento, di sicuro non guasta. Immancabile, infine, l’omaggio a Nightmare esplicato nella preghiera pronunciata dai due terribili protagonisti.

  • Ultimo mondo cannibale: l’insostenibile visionarietà del genere cannibalico

    Un gruppo di persone si reca nella giungla di Mindanao per una ricerca petrolifera: l’accampamento è di fatto deserto, e tutte le persone che erano lì sono state uccise dai Manabu…

    In breve. Un cannibal italiano classico ed iper-violento: visione destinata ai patiti del genere ed ai cinefili più incalliti. Serve una buona dose di predisposizione mentale a vederlo, oltre ad un (in)sano gusto voyeuristico.

    Disgustato dai consueti caroselli televisivi, e col sonno che tarda ad arrivare, mi decido a vedere il mio primo cannibal movie: sarà “Ultimo mondo cannibale” di Ruggero Deodato (1977), regista di culto che pare ami parecchio insistere sui dettagli truculenti ed inserire molti inserti documentaristici (animali uccisi realmente) nelle sue opere. Valore storico da premettere: pare che sia il primo cannibal italiano degno di questo nome. Stasera… forse pensieri negativi di troppo, delusioni che si affacciano nei ricordi senza un vero perchè. Ok, devo darmi una scossa. Questo, molto sinceramente, mi sono detto qualche minuto prima di visionare il film in questione per giustificare in qualche modo una visione che, per la cronaca, se non avessi un blog che parla di cinema difficilmente avrei fatto assieme ad amici e parenti.

    Quando guardate “Ultimo mondo cannibale“, è da premettere: scordatevi del Macbook, del disinfettante, della doccia con temperatura regolabile, del bagno appena pulito, dei vestiti targati Nike o Armani, delle mutande firmate, della TV, del cellulare, dell’iPad, del rasoio elettrico, dei vostri amici. Che vada nell’oblio anche il vostro pudore, dato che sarà messo a dura prova. Dimenticate di essere “civilizzati”, insomma: perchè solo così quest’opera avrà un’effetto catartico su di voi, ammesso che riusciate ad arrivare alla fine (e non sarà affatto banale). Esagero? Di sicuro, non azzardatevi a vedere “Ultimo Mondo Cannibale” con l’occhio da ingenuo “modernista”, perchè vi risulterà una schifezza grottesca e senza senso. Preparatevi invece a sorbire formiche che passeggiano su ferite aperte, uomini trafitti da trappole mortali, e, non ultimi, atti di cannibalismo espliciti, di duro impatto e certamente non per tutti gli stomaci.

    A proposito, la trama: quattro persone si recano nella giungla alla ricerca di petrolio ma la legge che troveranno è, neanche a dirlo, esattamente quella della giungla. Un film che colpisce nel segno, letteralmente con il mirino di precisione, e che non lascia scampo come molti altri pari in termini di exploitation (penso a The day of the woman). Due degli uomini saranno divorati dai non socievolissimi autoctoni, gli altri riusciranno solo a perdersi nella giungla, mentre il protagonista Robert Harper (l’italiano Massimo Foschi) sarà catturato da un’altra tribù, e sottoposto ad un trattamento non propriamente a base di “the delle cinque“. Spogliato, deriso, preso a sassate, usato come orinatoio ed umiliato sessualmente, l’uomo viene rinchiuso in una gabbia e sottoposto incessantemente allo scherno dei suoi carnefici.

    Welcome to the jungle, altro che Guns’n Roses ed il loro “Appetite for destruction“: ridotto all’esasperazione e trattato come una bestia qualunque, il protagonista di “Ultimo mondo cannibale” vive le sue uniche fortune nel fatto di trovare una simpatia reciproca con un’indigena (interpretata da Me Me Lay) e nel fatto di riuscire progressivamente a comunicare con gli uomini del posto. Parentesi doverosa: ho trovato perfettamente inutili le violenze (a quanto pare verissime) sugli animali (un serpente ed un coccodrillo sventrati dagli indigeni), che non aggiungono un beneamato nulla a quanto non sia già stato visto, se non violenza fine a se stessa. Del resto Deodato è sempre stato così: prendere o lasciare. La mia non vuole essere un’opinione vuotamente buonista e detta “tanto per” prendere le distanze, anche perchè il film l’ho visto comunque come migliaia di altri spettatori (in)consapevoli: se da un lato puo’ sembrare sacrosanto ritenere che sia stupido sacrificare degli animali per un film, dall’altra bisogna riconoscere una buona volta che se le cose rappresentate ricalcavano quanto la tribù del posto faceva sul serio, bisogna addirittura riconoscere il valore semi-documentaristico dell’opera, per quanto al limite del mockumentary. Nel seguito, vediamo il nostro protagonista riuscire a fuggire, portando ovviamente con sè la signorina appena conosciuta, con la quale fa sesso open-air senza neanche accertarsi che la stessa sia d’accordo: il tutto dopo aver assistito all’ennesimo barbaro omicidio (una donna che da’ in pasto ad un alligatore il figlio appena partorito) e dopo un bel bagnetto con le sanguisughe che gli si attaccano dappertutto.

    “Ultimo mondo cannibale” ti resta crudelmente appiccicato addosso, anche dopo la visione. Si trova il tempo per qualche considerazione americaneggiante (“il problema non è soltanto arrivare all’aereo per andarcene, ma è anche arrivarci vivi!”), per alcune elucubrazioni sociali sulla catena alimentare.

    (giungla, lotta per la sopravvivenza, reminiscenze di Predator e di Arnold. Schwarznegger…)

    Il finale offre una bella “chicca” che mostra come Robert, dopo tanta sofferenza subita e dopo lo smascheramento delle proprie debolezze agli occhi degli indigeni, mostra di aver capito perfettamente la mentalità degli uomini del posto e fa l’unica cosa, per quanto orribile possa essere, che avrebbe potuto fare per uscire vivo dalla situazione pazzesca che sta vivendo. Tutto questo è “Ultimo mondo cannibale“: zenith di un genere che durerà solo qualche altro anno, per poi scomparire definitivamente, e rimanere come oggetto di culto solo per alcuni.

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