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  • Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Un giallo-horror di vecchia scuola degno di Edgar Allan Poe, accompagnato da un’inquietante nenia suonata con il piano…

    In breve: un Fulci in gran forma produce uno dei suoi migliori lavori in ambito thriller (che fa coppia con “Non si sevizia un Paperino).

    Si è detto a più riprese che Lucio Fulci ha espresso il meglio della propria arte durante la prima fase delle sue produzioni, ovvero quelle che partono dagli anni 60 per arrivare ai primissimi 80: venti anni di cinema anarchico, lontano dalle classificazioni di genere e che rifiutava orgogliosamente le imposizioni da cinema “commerciale”. Il regista diresse horror violentissimi, gialli inquietanti, gangster-movie, western ma anche commedie satiriche e film di Franco e Ciccio, riuscendo quasi sempre nell’intento artistico di farsi notare, di colpire, di scandalizzare la critica come parte di pubblico. “Sette note in nero” è probabilmente uno dei migliori film mai girati dal compianto regista romano: la storia è quella di Virginia, una sensitiva che da ragazzina, stando a Firenze, aveva previsto – in una specie di allucinazione – il suicidio della madre in Inghilterra. Diversi anni dopo è diventata architetto, ed è fresca di matrimonio con Francesco – impegnato uomo d’affari londinese. Un’ affascinante Jennifer O’Neill interpreta la parte di Virginia, il cui “terzo occhio” continua ad avere, anche in età adulta, visioni inquietanti e non sempre decifrabili con facilità: un po’ come accadrà – qualche anno dopo – al professor Johnny Smith ne “La zona morta“. Questa caratteristica, assieme ad una complessa rete di distorsioni ed incomprensioni temporali, costituisce l’autentico colpo di genio del film, soprattutto nelle “stilettate” finali. Durante un viaggio in macchina Jennifer ha un momento di “buio” e vede uno specchio rotto, i dettagli di una stanza ben arredata (ripresa con un “taglio” tipicamente argentiano) ed uno zoppo che mura una donna anziana: come ne “Il gatto nero” di E. A. Poe, anche qui c’è una vittima umana nascosta all’interno di un muro. Sapendo di non essere ascoltata da nessun altro, decide di rivolgersi ad un amico, ex spasimante e para-psicologo (Marc Porel, il prete di Non si sevizia un paperino). Tornata nella villa del marito, che è lontano da casa per lavoro, scopre che al suo interno molti dettagli combaciano perfettamente con quelli della sua visione: il senso di smarrimento e deja-vu è reso qui in modo davvero magistrale da uno dei migliori Fulci di sempre. Lo specchio rotto, il quadro e tutti gli altri dettagli combaciano pero’ fino ad un certo punto: qualcosa è accaduto, qualcosa deve ancora accadere, e in questo puzzle horrorifico i pezzi si incastreranno perfettamente soltanto nello splendido finale. Un film sceneggiato in modo superbo, ottimamente interpretato dal cast, piuttosto simile nella sua dinamica a “Non si sevizia un paperino” con quel pizzico di sovrannaturale che poi sarà marchio di fabbrica della produzione horror fulciana. Con il suddetto lavoro “Sette note in nero” condivide comunque il senso morboso di inconfessabilità del delitto, il continuo “non detto” che aleggia all’interno dell’opera e la favolosa fotografia da incubo di Lucio Fulci. Un classico in ogni senso, certamente da rivedere e riscoprire oggi dopo oltre trent’anni.

    Il tema di Sette note in nero è stato ripreso recentemente da Tarantino per la “riscossa” di Beatrix Kiddo (Kill Bill).

  • The hitcher: La lunga strada della paura, regia di Harmon

    Mentre si trova alla guida di una lussuosa Cadillac Seville, il giovane Jim da’ un passaggio ad un misterioso autostoppista, dando inizio ad un terrificante incubo su strada…

    In breve. Probabilmente uno dei migliori thriller anni 80 in assoluto: risente solo parzialmente dell’età che possiede, e (soprattutto avvalendosi della superba interpretazione di Rutger Hauer) riesce a colpire e coinvolgere fino all’ultimo fotogramma. Da non perdere.

    The hitcher” – titolo difficilmente traducibile in italiano ma che è da intendersi come “chi intoppa”, “chi lega” – è uno dei più celebri (e memorabili) film thriller degli anni 80, uscito peraltro in un periodo caratterizzato principalmente da produzioni horror o slasher “pure” (Hooper, Cunnigham, Bava). Una storia ambientata quasi interamente su strada (molto road movie, quindi), immersa in scenari tipici come i deserti sconfinati degli Stati Uniti, le centrali di polizia e le stazioni di servizio malfamate. Evocazioni parziali di un mondo impazzito e sconnesso, di autovetture impazzite sulla falsariga di Brivido di Stephen King, del clima di diffidenza instaurato tra gli esseri umani, privati completamente della componente sovrannaturale per favorire quella di azione, sempre con un sano pizzico – anch’esso tipicamente eighties – di irrazionalità.

    “Perchè gli hai dato un passaggio? Ero stanco… mi avrebbe aiutato a stare sveglio.”

    Rutger Hauer – “John il cavaliere” (John Ryder) – è una sorta di archetipo di villain immerso in un contesto meramente thriller, e già dalle sequenze iniziali si presenta allo spettatore come una sorta di Nightmare, un “uomo da incubo” a tutti gli effetti, un crudele demone ex machina  che attanaglia il povero Jim in una spirale senza via d’uscita. Il motivo per cui agisce rimane il principale motivo di interesse della storia, ed in questo è indispensabile dare un enorme credito al regista Robert Harmon che ha saputo selezionare accurtamente tempi, modi e montaggio complessivo del lavoro. L’atmosfera claustrofobica del film, del resto, a cominciare dalla celebre sequenza iniziale – con l’autostoppista che “gioca” con il malcapitato come se fosse un burattino – è diventata uno stereotipo consolidato da road movie, citato in svariate pellicole ed almeno un paio di cortometraggi – tra cui L’autostoppista (ne I nuovi mostri). Un’atmosfera di quelle unica, meramente cinematografiche e romanzate, che vive di se stessa e ne rimane orgogliosa, a patto di accettare il patto di farsi coinvolgere dalla storia così come è (nella realtà, per capirci, non vedremmo troppi autostoppisti chiedere passaggi in maniera così disinvolta: ad esempio potrebbero chiamare, che so, il soccorso stradale).

    Il suo fare beffardo, cinico e privo di scrupoli, rispecchia una sorta di lato oscuro, e serve a lasciare il pubblico in bilico tra un incubo in piena regola ed uno dei più vividi sogni ad occhi aperti mai concepiti da un uomo. Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto ad una semplice dualità tra il ragazzo dalla faccia pulita ed il cattivo con il sorriso da joker: “The Hitcher” si espande in svariate direzioni, introducendo vari (e convincenti) protagonisti e diramando la trama in altrettanti versanti. Essi servono ad arricchire la trama del film, il quale possiede uno sviluppo decisamente imprevedibile e si arricchisce di infinite sequenze sia thriller (il ragazzo arrestato dalla polizia, la lotta tra protagonista ed antagonista) che puramente da “horror anni 80″ (le morti inspiegabili, il dito tagliato all’interno delle patatine, il simbolismo che diventa evidente nel finale).

    Un film da rivedere ancora oggi in versione rigorosamente originale, tenendosi alla larga dal remake se non dopo – eventualmente – aver gustato anche solo l’interpretazione superba di Hauer.

  • Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Durante la ricorrenza del centenario della nascita della tranquilla cittadina di Antonio Bay (21 aprile), una misteriosa nebbia avvolge le navi di passaggio e le case dei singoli abitanti. Al suo interna sembrano celarsi dei misteriosi esseri che uccidono utilizzando spade ed uncini…

    In breve. “The fog”, film in parte sopravvalutato ma discretamente interpretato: un’ interessante digressione di vecchia scuola b-movie da parte di un buon Carpenter, che firma soggetto, musiche e regia. Avvolgente e lento – almeno nelle intenzioni – come un racconto di E. A. Poe (a cominciare dalla citazione iniziale), il suo sostanziale limite si rileva nell’intreccio stesso, ben costruito ma piuttosto scarno e troppo tirato per le lunghe.

    Seduti attorno al fuoco, un gruppo di ragazzini di Antonio Bay ascolta una storia di pirati seduta attorno al fuoco: con questa atmosfera suggestiva inizia “The fog“, un film horror che omaggia la scuola anni 50, e che vive di suggestioni molto classicheggianti. Prima di tutto, e non poteva che essere così, le atmosfere di H. P. Lovecraft, a cominciare dall’oscurità incombente sulla piccola cittadina, continuando con le solite presenze malefiche non umane sfumando poi su un sepolto senso di colpa, legato ad un misfatto collettivo che si scoprirà soltanto alla fine. Del resto nell’introduzione ci ricorda, con le parole di Poe, che “tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno“, quasi a voler sottolineare le illusioni e le suggestioni di un mondo senza memoria storica, senza passato e (forse) senza futuro.

    Il formato anamorfico, utilizzato ostinatamente dal coraggioso ed indipendente regista, e concepito per dare maggiore dignità alla pellicola, visto oggi finisce quasi per fare tenerezza: i pirati fantasmi rimangono per tutto il film poco più che un’ombra, ed il livello di azione e di sangue è piuttosto vago e indefinito. I mostri, privati del proprio oro dall’avidità degli abitanti cento anni prima (etteparèva), vengono commentati dalla suadente voce di Stevie (Adrienne Barbeau), speaker radiofonica (a volte) fuori campo, che potrebbe aver parzialmente ispirato Fulci, Fragasso e compagnia in Zombi 3. Questo espediente serve a mantenere il film parzialmente affascinante anche al giorno d’oggi, anche se bisogna riconoscere che la faccenda è tirata un po’ troppo per le lunghe, annoia in più di un tratto e potrebbe risultare facilmente soporifera per il pubblico di oggi: assolutamente inadatto, quindi, a chi si aspetta colpi di coda e thrilling intenso. Qui è come se Carpenter si sia crogiolato troppo nelle proprie idee, finendo così per sfornare un prodotto gradevole soltanto per gli iper-appassionati. Buono, comunque, il livello della regia, capace di rappresentare un doppio o triplo livello di vicende in contemporanea, senza mai creare confusione ed unendo vari punti con intelligenza ed efficacia. Peccato per gli effetti speciali, davvero troppo essenziali: qualche oggetto in movimento, qualche ombra indefinita, qualche orologio che si spacca e delle automobili che si avviano senza guidatore sono un po’ pochino per parlare di un horror corposo. E questo rimane vero, purtroppo, anche contestualizzando il tutto al periodo di uscita di “The fog“…

  • Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.

    Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebbero usciti negli anni settanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.

    Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.

    La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.

    Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.

    E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.

    Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).

    Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)

    Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.

    Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come  Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.

  • Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Da sempre attento alle evoluzioni delle nuove tecnologie, agli effetti della macchina sull’uomo e sul suo comportamento sociale, in molti suoi film David Cronenberg ha analizzato (secondo i canoni dell’estetica cyber-punk, per quello che riguarda la prima produzione) il rapporto tra scienza e umanità.

    Un rapporto ancora oggi attualissimo, è destinato a modificare i nostri modelli di comportamento, sopprimendo ogni istinto primordiale a vantaggio di un’esistenza regolamentata da tempi di produzione, scadenziari elettronici, in definitiva: un copione prestabilito. Ed il punto cruciale sta proprio in questo: il regista si guarda bene dal demonizzare la tecnologia, piuttosto mostra di volerla conoscere a fondo, mentre l’incubo di un condizionamento totale nell’agire quotidiano aleggia su di lui. E, alla lunga, dal 1983 (anno di uscita del film) su di noi.

    Io penso che noi crediamo che la nostra vita sia fisicamente relativamente stabile, ma non lo è. Il nostro corpo è un uragano: muta costantemente, è solo un’illusione che si tratti dello stesso corpo da un momento all’altro. Per questo diventa ancora più urgente la questione dell’identità. (D. Cronenberg, intervista con Enrico Ghezzi, 1988)

    Se c’è una cosa che è vitale in Cronenberg, del resto, e che testimonia il suo non-essere tecnofobo, è l’atteggiamento è l’ossessione per il corpo umano. Sullo schermo, mentre il film va avanti, vediamo un orrore certamente schizofrenico ed allucinatorio, ma al tempo stesso tangibile, intrinseco nella carne umana. Un orrore che potrebbe stare a metà tra la della rivolta dei cadaveri di Romero e la fusione uomo-macchina di Tetsuo. Videodrome rappresenta probabilmente la massima espressione della poetica del regista canadese.

    La tecnologia, simbolo stereotipato del progresso e dell’evoluzione umana, arriva a fondersi nella pelle, diventa tutt’uno con l’intero uomo e le sue illusorie certezze di conoscenza assoluta. Il direttore della stazione televisiva Canale 83 (Max Renn, aka James Woods) è un uomo cinico e convinto di sapere dove sta andando. Le sue certezze, le sue convinzioni, il suo stesso scetticismo verso il tubo catodico (afferma più volte di non credere a ciò che vede sullo schermo) viene smontato dal peggiore degli incubi. In esso non esiste più umanità, non esiste alcun contatto fisico e corporale, esiste soltanto una realtà virtuale che ci lobotomizza e ci riduce a numeri per il grande schermo.

    Quello spettacolo di morte, quello “snuff” realizzato con pochissimi mezzi, quella rappresentazione pura di violenza non è altro che una metafora della sua stessa vita. Pessimisticamente, della vita di un numero crescente di noi. La stessa sessualità, prima vissuta da Max con gelida indifferenza, diventa uno strumento di dipendenza e di morte progressiva, scandita dall’illuminazione di un tubo catodico.

    Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion)

    Il professor O’ Blivion (nomen omen dichiaratamente riferito alla condizione di essere completamente dimenticato, ovvero spersonalizzato) dichiara apertamente, a circa metà del film, il manifesto di Videodrome: il potere di controllo delle menti si esplica nel momento in cui la televisione impone la propria realtà. Se il tubo catodico mostra violenza, non fa che pubblicizzare un lato oscuro dell’animo umano, ovvero quello puramente distruttivo represso da un’apparente civilizzazione. Per cui non è colpa della televisione se viviamo nella violenza: semmai è un mezzo che mostra e ci ricorda le nostre ossessioni primordiali. Con risultati spesso devastanti.

    Ultimo punto fondamentale è il disorientamento in cui vive il protagonista dopo la prima visione dello snuff-movie: la portata delle immagini è talmente pesante che invece di esserne turbato e cercare qualcosa di edulcorato, si abbandona a fantasie erotiche sado-masochistiche, immagina di fare sesso nella stanza delle torture appena vista, ivi sogna di somministrare dolore fisico alla propria compagna. Più semplicemente, non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, il pensiero dall’azione. E poi, di quale realtà si parla se non quella percepita dai sensi? Quella realtà tremendamente soggettiva che egli riconosce fin troppo bene, ma che (tragicamente) non sempre gli altri sembrano disposti a comprendere. Da qui nasce un paradosso che vede da una parte l’alienazione totale dell’individuo, che vive isolato e, per riprendere un’immagine cara ad una certa sci-fi, con dei televisori al posto della testa.

    Nell’epoca del Grande Fratello, scimmiottato periodicamente in terrificanti programmi televisivi in cui “persino” dei personaggi di spettacolo mostrano la propria corporeità, la poetica di Cronenberg suona ancora attuale. La stessa idea di socialità, di sessualità, il modello comportamente imposto alla massa è oggi scandito dalla televisione e dalle mostruosità che rivela giorno dopo giorno. E si tratta di uno spettacolo che dovrebbe essere vicino alla vita di tutti noi, in cui ognuno di noi dovrebbe (secondo la volontà dei produttori) riconoscersi. Un modello di omologazione culturale che distrugge mentalmente ogni individuo e soffoca la sua stessa sessualità in agglomerati illusori di pixel.

    Avviso: da qui in poi contiene parti rivelatrici (o spoiler) del film.

    Cronenberg è stato ospite al Festival di Roma (ottobre 2008), dichiarando:

    noi esseri umani siamo solo animali che si immaginano e hanno il desiderio di diventare diversi da quello che sono. Per far sì che ciò si realizzi ricorriamo alla religione, alla cultura. Mi interessa moltissimo questa forma di trascendenza, questo desiderio dell’essere umano di andare al di là di se stesso. Pur non programmandolo, finisco per parlarne in tutti i miei film“.

    Le sue parole contengono, a mio avviso, molte verità su Videodrome. La fragilità di Max Reinn appare nella sua completezza: cinico e spietato all’inizio, fragile e insicuro della sua realtà a causa di un segnale televisivo che lo aggredisce mentalmente. Tale “aggressione mentale” intesa come manipolazione è anche alla base di uno dei primi lavori del regista, Scanners.

    Il discorso su Videodrome visto in precedenza merita così di essere continuato. Perchè credo che sia necessario premettere, oltre che puntualizzare (per chi non avesse mai visto l’opera), cosa non è Videodrome. Questo film non è semplice exploitation per attrarre pubblico morboso e curioso, nè si limita ad usare lo splatter (presente per la verità in piccole dosi) come forma artistica che mostra

    la debolezza del corpo umano soprattutto in un momento storico, gli anni ottanta, in cui la perfezione fisica e l’edonismo erano considerati simboli di scalata sociale” (R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti).

    Videodrome non si limita a mostrare la debolezza di chi ricorre alla violenza estrema per soddisfare le proprie inibizioni e frustrazioni. Anche se il discorso, come già ne “Il demone sotto la pelle“, è di natura sessuale e tocca un tabù di oggi, peraltro, come la sessuofobìa. Per quanto verità inconfessabile, infatti, tantissima gente è attratta e spaventata dal sesso, per via della paura dell’altro, dell’incertezza, del timore di rimanerne feriti o coinvolti in un’altalena emotiva che diventa logorante per alcuni di noi. Viene in mente il feticcio ballardiano del successivo film Crash, in cui sono le automobili (simbolo della rivoluzione industriale) a diventare l’unico mezzo per eccitarsi.

    Videodrome del resto vuole mettere in crisi il modello comunicativo imposto dai mass-media, mette a nudo i pericoli insiti nell’utilizzo del tubo catodico che rischia di diventare una vera e propria arma di manipolazione di massa. Un rischio che potrebbe (teoricamente) essere evitato affidandoci ad un senso critico che deriva direttamente dai nostri organi, ma che il cupo pessimismo del regista rende utopico. Il tutto, pero’, senza degenerare in una paranoia immotivata verso la tecnologia.

    Cronenberg sa bene di cosa parla nei suoi film: ed è grande la sua capacità di inventare “tecnologia che si ibrida” col corpo umano in modo tanto credibile da spaventare di per sè senza mostrare nient’altro. Questo grazie al suo piglio diretto, sistematico nella sua follìa, ma soprattutto razionalista, correttamente informato su tubo catodico, emissione di segnali audio/video e, in futuro, pod da collegare direttamente al cervello (“eXistenZ“).

    Max Renn non diventa altro che un videoregistratore programmabile, che viene letteralmente inseminato da Videodrome attraverso l’orefizio vaginale del suo ventre e programmato come “video-parola fatta carne”. Nel finale proclama con freddezza “gloria e vita alla nuova carne” e si suicida dopo aver visto sè stesso farlo in TV: un’atto di emulazione che ricorda il paradosso di O’Blivion citato all’inizio: la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.

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