Blog

  • Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Susy (Brigitta Boccoli) si trova in Egitto, assieme al padre archeologo ed alla madra giornalista; avvicinata da uno strano personaggio, riceve un ciondolo che si rivela, dopo poco tempo, alquanto pericoloso.

    In breve. Il messaggio di fondo è che certi segreti, come da tradizione lovecraftiana, non andrebbero violati da nessun essere umano. Un horror poco noto del grande terrorista dei generi, con pochi mezzi (effetti speciali molto artigianali) e discreta sostanza: tutto sommato, piuttosto intrigante quanto autenticamente b-movie.

    Ambientazione inizialmente egizia e successivamente – come da titolo – nella famosa città USA al giorni d’oggi: Manhattan Baby di Lucio Fulci, oltre a riprendere l’idea archetipica dell’orrore proveniente da luoghi oscuri ed esotici, si ispira in parte alle idee contenute in due pilastri dell’horror settantiano: “L’Esorcista” di Friedkin ed il “Il Presagio” di Donner. Pur senza la spettacolarizzazione fisica e psicologica di questi due cult movie, l’uso dell’innocente presenza di un ragazzino (in questo caso una ragazzina) come strumento, burattino infido nelle mani del maligno è piuttosto riuscita. Questo nonostante un ritmo rallentato nella metà del film, e degli effetti speciali non esattamente holywoodiani.

    Si tratta di un film che risente ovviamente del periodo in cui è uscito, e che giudicare oggi come datato appare scontato – e in parte secondario – rispetto alle idee sviluppate: il soggetto è affidato a Dardano Sacchetti ed Elisa Briganti, la coppia di artefici di piccoli capolavori di cinema off-limits, quali Zombi 2, Quella villa accanto al cimitero e, naturalmente, la creazione – assieme ad Umberto Lenzi – del personaggio di “Er Monnezza”. Non è un mistero che Sacchetti sia stato enormemente valorizzato da Fulci, e questo si nota in parte – e nonostante una pochezza di mezzi a volte troppo evidente – anche in “Manhattan Baby“, una storia veramente suggestica e con un discreto sottotesto storico abilmente ricostruito. Il celebre finale, poi, che finisce per evocare le fobie de Gli uccelli di Hitchcock, non soltanto lo cita, ma lo rielabora in chiave fulciana: solo il grande maestro romano, infatti, avrebbe potuto mostrare la soggettiva della vittima mentre viene massacrata dai becchi dei volatili, con tutto il cinico realismo che accompagnava molte delle sue sequenze più truci. Un film non indispensabile in mezzo alla sterminata filmografia di Fulci, ma probabilmente uno degli ultimo veri film diretti dal regista.

    Musiche, come sempre di grandissimo livello, a cura di Fabio Frizzi.

    Locandine: imdb.com

     “Le tombe sono dei morti”

  • Faster, pussycat! Kill! Kill!: il Russ Meyer che piace a Tarantino

    Il re dell’eccesso del cinema exploitation ci da’ dentro con donne formose e aggressive, auto in corsa e violenza di strada: Tarantino e Rodriguez applaudono e ringraziano.

    Hai uno strano modo di divertirti…

    Il trio protagonista di “Faster pussycat…” è espressione estrema ed archetipica di sessismo, violenza e cinismo. La spietata Varla (Tura Satana, deceduta a febbraio 2011), la frivola Billie (una Lori Williams da capogiro) e la romantica Rosie (Haji) finito il turno di lavoro sono in giro per il deserto con le proprie auto: incrociata una coppia di giovani, Varla sfida il ragazzo ad una corsa automobilistica.

    Dopo aver perso la gara, il giovane ha una collutazione con la sfidante e viene brutalmente ucciso, mentre la sua fidanzata viene sequestrata. Mentre il trio sta ancora escogitando cosa fare della sopravvissuta incrociano un vecchio misogino da cui si fanno ospitare. Nel frattempo la ragazzina cerca più volte di scappare, e familiarizza con il figlio apparentemente ragionevole del burbero padrone di casa.

    “Tu sei per me una ragazza malata! Ricorda che ero abbastanza sana mezz’ora fa, o la pensi diversamente quando non sei in posizione orizzontale?”

    Russ Meyer sa il fatto suo: gira con maestria, caratterizza con cura anche i personaggi secondari ed accompagna il tutto con un costante tocco di ironia. Probabilmente è un’affermazione scontata, ma bisogna dare atto al regista che, probabilmente in modo inconsapevole, ha gettato le basi di Kill Bill, Grindhouse e Machete, tanto per citare tre cult recenti. “Faster, pussycut” è un b-movie ante-litteram, con tutti i limiti del caso.

    Quindi si tratta di un film intrinsecamente valido, con l’importante rivoluzione dettata da tre ragazze come assolute protagoniste dell’intreccio, quindi decisamente avanti per l’epoca in cui è stato girato, in barba a convenzioni e moralismo. Impossibile non notare la grossa pecca del doppiaggio italiano (secondo me non proprio impeccabile): questo fa perdere un po’ dell’efficacia delle battute delle tre protagoniste, e così – ad esempio – alcune allusioni di tipo sessuale diventano spaventosamente inefficaci.

    Nonostante questo, “Faster, pussycat! Kill! Kill!” è un film da godere e riscoprire: godimento puro per gli occhi di chi apprezza le forme femminili, ma anche per lo spirito pioneristico senza compromessi dei suoi personaggi.

  • I love you Baby Reindeer, sent by my iPhone

    Quando una serie tv diventa in brevissimo tempo un cult è perché sa toccare le giuste corde con perizia. Perché è perfettamente figlia del suo tempo. Un tempo sgrammaticato e iperconnesso. Proprio come Martha Scott, la stalker del comico Donny Dunn, che diventa per lei Baby Reindeer, Piccola Renna.

    Sappiamo già che ciò che si narra è ispirato a fatti realmente accaduti e che la stalker reale, guarda un po’, sta pensando di citare in giudizio l’autore/attore Richard Gadd, perché con la sua opera sarebbe lui a vestire ora i panni dello stalker.

    Non voglio tediare nessuno con un’inutile sinossi a rischio spoiler, vorrei invece offrire qualche considerazione che mi proviene dalla mia professione, che è quella di psicologa.

    Raccontando la sua storia nuda e cruda, senza lesinare i retroscena e le sottostorie ancor più nude e più crude, Richard Gadd fa ciò che ogni buon psicologo del 2020 esorta caldamente a fare per trovar salvezza. E cioè “Essere vulnerabile”. E infatti la salvezza la trova eccome, sia come essere umano, sia come professionista dello spettacolo, a cominciare dai palchi di stand up comedy per finire in bellezza con una tra le più gettonate serie targate Netflix.

    Essere vulnerabile, leggi anche “mostrarsi in tutta la propria vulnerabilità”, lo salva e lo riscatta dalle dipendenze: quella da sostanze e quelle affettive. Si smarca così da un losco figuro abusante (e non vi dico altro) e si smarcherà pian piano dalla morsa venefica, eppure anche morbosamente godibile talvolta, della sua stalker. Insomma, se non ho più paura dei miei segreti, se sono disposto a parlare con chiarezza delle mie scelte più discutibili, se riesco a confessare ai miei genitori chi sono davvero, sono libero. Libero dalle minacce, libero dai sensi di colpa, libero dai rimorsi. Libero da chi mi tiene in pugno e vorrebbe inguaiarmi. Forse anche libero da me stesso. Questa è una delle più grandi lezioni che ci offre Baby Reindeer.

    Ma Richard Gadd va oltre. Si mostra così vulnerabile da cercare nei suoi stessi atteggiamenti e comportamenti quei fattori che hanno reso possibile l’aggancio della vittima al suo stalker. No, non si tratta di victim blaming, c’è differenza. Scaricare la colpa sulla vittima è operazione bieca e manipolatoria: non è la stessa cosa di analizzare cosa nel nostro fare (o nel nostro non fare)  contribuisce a innescare e mantenere una relazione malsana. E lui questa analisi la fa e ce la porge senza sconti. Si mette in discussione fino in fondo. Anche qui una lezione per niente banale.

    E per niente banale è la centralità della tecnologia in tutta questa storia. Si parte dalle email per passare agli sms e ai lunghissimi e innumerevoli vocali che Martha manderà quotidianamente al suo Baby Reindeer, che passerà quasi tutto il suo tempo ad ascoltarli e a catalogarli, anche – ma non solo!- per trovare qualcosa di utile per incriminarla. Baby Reindeer è una visione coinvolgente, ben scritta e recitata assai credibilmente, che ci mette in guardia da come può cambiare la vita in una sera soltanto, offrendo un tè alla persona sbagliata.

  • Quei bravi ragazzi: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale

    Il film narra la storia di Henry Hill, un giovane italoamericano che entra a far parte della mafia italoamericana di New York negli anni ’50. Seguiamo la sua ascesa all’interno dell’organizzazione, le sue connessioni con i suoi compagni criminali Jimmy e Tommy, e la sua relazione tumultuosa con la moglie Karen. La narrazione mostra come la vita criminale inizialmente sembri affascinante e redditizia, ma poi si trasformi in un vortice di violenza, tradimenti e paranoia.

    Cast Principale

    • Ray Liotta nel ruolo di Henry Hill
    • Robert De Niro nel ruolo di James “Jimmy” Conway
    • Joe Pesci nel ruolo di Tommy DeVito
    • Lorraine Bracco nel ruolo di Karen Hill
    • Paul Sorvino nel ruolo di Paul Cicero

    Produzione

    Il film “Quei Bravi Ragazzi” è stato diretto da Martin Scorsese e rilasciato nel 1990. Il regista ha lavorato con una squadra talentuosa e un cast eccezionale per portare alla vita l’adattamento cinematografico del libro “Wiseguy” di Nicholas Pileggi.

    Curiosità

    • Joe Pesci vinse l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il suo ruolo nel film.
    • Il personaggio di Tommy DeVito, interpretato da Joe Pesci, è basato su un vero membro della mafia, Thomas DeSimone.
    • Martin Scorsese fa un breve cameo nel film come malvivente che dà una delle pistole a Tommy.

    Spiegazione Finale

    Avviso spoiler

    Nel finale del film, la tensione all’interno della mafia raggiunge il suo culmine. Jimmy teme che Henry possa tradirlo alle autorità, quindi decide di eliminare Henry. Jimmy convince Henry a fare un’ultima attività criminale, ma in realtà sta organizzando il suo omicidio. Henry si rende conto dell’inganno quando si trova in un luogo isolato insieme a Tommy. Quest’ultimo viene ucciso da Jimmy, dimostrando l’imprevedibilità e la brutalità dell’ambiente criminale.

    Henry decide di collaborare con il governo e testimoniare contro i suoi ex colleghi, cercando di ottenere un nuovo inizio lontano dalla criminalità. Il finale del film ritrae Henry con una nuova identità e una nuova vita, testimoniando in tribunale contro i suoi ex complici. La scelta di Henry di tradire la sua famiglia mafiosa riflette il conflitto tra il suo desiderio di proteggere la sua famiglia biologica e la sua affiliazione alla famiglia criminale.

    In questo modo, il finale del film sottolinea la fragilità delle relazioni all’interno della mafia, l’ineluttabilità della violenza e il prezzo delle scelte criminali.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.

Exit mobile version