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  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Un giornalista viene ritrovato apparentemente morto dentro un parco: in realtà è ancora vivo, ma non riesco a muovere un muscolo pur avendo ancora la capacità di pensare.

    In breve. Il primo film di Aldo Lado (Chi l’ha vista morire?, L’ultimo treno della notte) è probabilmente uno dei più sorprendenti che abbia mai girato: segue la struttura di un giallo argentiano e riesce, soprattutto, ad accarezzare l’horror più incisivo senza inutili eccessi.

    Film decisamente interessante e poco valorizzato dalla critica, che tendenzialmente lo capì poco (le recensioni sul Davinotti, ad esempio, sono discordanti e quasi tutte impietose). Introdotto da una tagline piuttosto classica (When things are not what they seem, ovvero quando le cose non sono quello che sembrano) che sembra dire pochissimo di per sè (le apparenze decostruite diventeranno un classico del cinema horror, da Society in poi), ma che rivela un impianto molto originale. Qualcosa che all’epoca deve avere molto sorpreso il pubblico, che si trovano di fronte una realtà surreale e spaventosa: il protagonista è apparentemente morto, ma riesce ancora a pensare. Si scoprirà che questo stato catatonico è stato indotto da una serie di circostanze, per le quali molta critica arrivò a parlare di vera e propria fanta-politica.

    Dead? I’m dead? Can’t be. I’m alive. Can’t you tell I’m alive? I’ve got to make them see. You! Listen to me! Look at me! Can’t you hear me? Maybe it’s a nightmare. I’ll try to wake up. I’ve got to move. Yeah, a finger. Ca’ Can’t! I must! Don’t leave me like this. Help me! HELP ME!

    Vedere Greg Moore portare la propria compagna (Mira) ad un party in cui sono tutti ricchi, potenti ed anziani non potrà che far pensare al succitato cult di Brian Yuzna, tanto da suggerirne una potenziale ispirazione. La trama si sviluppa come un flashback dei ricordi del giornalista, intervallati dai tentativi di un amico chirurgo che cercherà in ogni modo di rianimarlo. Riuscirà Gregory a svegliarsi prima che la sua ora arrivi definitivamente? Lo scopriremo solo nell’ultima scena, quella che probabilmente ha consacrato la fama di questa opera prima di Lado, a mio modo di vedere, come uno dei migliori film di genere giallo-thriller.

    Esiste un piccolo mistero sulla scelta del titolo, dato che non è esplicitato quali siano le “bambole di vetro” (il titolo originale è The Short Night of the Butterflies, ovvero La corta notte delle farfalle, le farfalle – che, si dice nel film, “non volano più“, uno degli indizi per ricostruire l’enigma). A meno che non si voglia pensare alle bambole di vetro come alle ragazze tenute in stato catatonico e sostanzialmente controllate dalla setta, per quanto questa cosa non sia forse sufficentemente rimarcata dall’intreccio (a parte Mira, solo un’altra ragazza dimostra esplicitamente di aver subito questa sorte: l’americana presentata a Gregory durante il party, poco prima che la sua compagna scompaia nel nulla).

    C’è da sottolineare la parvenza rivoluzionaria dello spaventoso quid della trama, ovvero la capacità di tenere il cervello attivo di una vittima, dandogli esternamente la parvenza di morto. Il non-morto cerca disperatamente di comunicare con l’esterno ma non riescono a sentirlo, e questa cosa viene schiaffata in faccia allo spettatore dopo qualche minuto di film: uno spaventoso stato catatonico che evoca, almeno in parte, il soldato tenuto in vita forzatamente protagonista di E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo.

  • Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    La moglie del ragionier Ugo Fantozzi non ha notizie del consorte da diciotto giorni: si scopre che è stato murato vivo all’interno del proprio ufficio.

    In breve. Il capostipite di una saga che ha fatto la storia del genere: sfruttando uno stile parodistico e grottesco, che deve moltissimo allo slapstick ed al paradosso, il romanzo di Villaggio diventa un film semplicemente leggendario.

    Il mega-direttore galattico. Le Allucinazioni Mistiche. La mega ditta dal nome impronunciabile, ItalPetrolCementThermoTextilPharmMetalChemical. La mitica partita a calcetto Scapoli vs. Ammogliati, in un campo di calcio pieno di dossi e pozzanghere. Le vacanze a Courmayeur con l’amore impossibile, la signorina Silvani. E poi la Contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il ragionier Filini, il geometra Calboni.

    Personaggi e tormentoni che hanno costruito un immaginario che nasce, letteralmente, in questo film – ma che per la verità Villaggio aveva già formalizzato in un triplice romanzo. Un successo straordinario, già all’epoca, rimasto impresso nella coscienza (non solo linguistica) di moltissimi italiani: fantozziano è diventato ufficialmente un aggettivo, per intenderci. Fantozzi esce nelle sale il 27 marzo 1975 e da allora diventa un cult assoluto, anche grazie ai numerosi passaggi nelle TV commerciali negli anni successivi.

    Il taglio registico di Salce è molto influenzato dal personaggio del libro, che Villaggio ha interpretato per molti anni – quale prototipo di dipendente umile, deriso dai superiori e dai colleghi, impacciato con le donne ed assegnatario delle peggiori umilazioni. Come se non bastasse, Fantozzi in questo film diventa pure comunista, conoscendo l’incubo del mobbing (in un periodo in cui, probabilmente, nessuno l’avrebbe chiamato così) e finendo per incontrare il Mega-Direttore in persona – con la sua poltrona in pelle umana e la metafora forse più bella di tutto il film: un vero e proprio acquario, nel quale i dipendenti più meritevoli hanno il privilegio di nuotare liberamente.

    Se molte delle trovate di questi (ma anche dei successivi) film di Fantozzi sono surreali, lo si deve alle scelte anarchiche di Villaggio e del regista, che non perdono occasione per proporre al pubblico i classici slapstick del cinema muto (cadute rovinose, soprattutto), ma anche – per non dire soprattutto, se vediamo il film da adulti – dialoghi leggendari che il pubblico ha assimilato e imparato a memoria negli anni, neanche si trattasse di un classico della letteratura in chiave pop. Perchè Fantozzi, soprattutto qui (un po’ meno nei seguiti, progressivamente meno innovativi) inventa un nuovo tipo di comicità: fisica o corporale, certo, sicuramente efficace e debitrice della satira graffiante e del grottesco puri, il che per molti verso potrebbe richiamare quello (più esasperato e colto, se vogliamo) che proponevano i Monty Python (il parallelismo potrebbe avere senso con Il senso della vita, ad esempio, che uscì quasi dieci anni dopo). Se le disavventure di Ugo Fantozzi fanno già ridere di per sè, la sua storia è tragica: è la storia che fa parte del vissuto ed in cui è possibile quasi sempre identificarsi, tra le frenesie psicotiche della vita di ogni giorno (Fantozzi che prende l’autobus al volo sulla Casilina pur di timbrare in orario), i compromessi dettati dal conformismo e dalla convenzione, il grottesco instillato da personaggi che fanno ridere, ma anche commuovere (Fantozzi che prende le difese della figlia, ferocemente derisa dai colleghi, per poi esprimere loro “i più servili auguri” di buon anno).

    A quel punto potremmo addirittura scomodare Arthur Schopenhauer, nel descrivere un film che nei suoi frammenti è fortemente comico, ma nel suo complesso è un vero e proprio dramma: La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.

    Allora prenderò l’autobus al volo!
    No Ugo, l’autobus al volo no! No Papà!
    Sì, saltando dal terrazzino guadagnerò almeno 2 minuti!
    No Ugo non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto!
    Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

    Incluso tra i cento film da salvare nel 2008, fu distribuito dalla Cineriz in doppio cut: uno di 103 minuti, e l’altro di 98. Se non l’avete mai visto o non lo ricordate troppo, è il caso di tornare sul pianeta Terra e provvedere all’istante.

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.

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