PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Un figlio scopre il padre con l’amante; la moglie decide di evirare il marito. Non riuscendoci, evira il figlio.

    In breve. Per un film del genere qualsiasi spiegazione sintetica rischia di apparire riduttiva: lo sguardo di Kim Ki-duk è impietoso e non risparmia dettagli sulle sofferenze, senza dare spiegazioni e senza un esplicito intento catartico. Uno dei film più nichilisti mai girati dal regista, probabilmente, che non rientrebbe neanche nei film prettamente consigliati per il grande pubblico. Eppure, nulla è gratuito e tutto rientra in una metafora considerevole sui tempi moderni.

    Da non confondersi con l’omonimo argentino del 1996, Moebius (trasmesso anche su RaiTre il 6 aprile del 2019) è l’ultimo film del prolifico regista coreano Kim Ki-duk, purtroppo recentemente scomparso per Covid-19 e che certamente, all’epoca, non le mandava a dire a livello contenutistico. Lo scandalo che suscitò il film per via della sua estrema crudezza di fondo è tutt’altro che ingiustificato, il tutto per quanto, in questa circostanza, la forma sembri decisamente più corposa della sostanza.

    Tanto per cominciare, perché Moebius? L’accostamento con il celebre nastro scoperto dal matematico Mobius (una struttura che si avvolge su se stessa, ottenibile congiungendo le due estremità di un nastro dopo averne girata una di 180°), si lega alla struttura narrativa avvolgente e dai tratti non lineari del film, un po’ come avviene in Strade perdute di Davide Lynch. Pensare ad esso comporta svariate suggestioni, che scateneranno particolarmente le menti degli spettatori, ovviamente quelli disposti a farsi travolgere da suggestioni molto forti.

    Moebius è la visione allucinata della vita di persone comuni, che trasformano una “ordinaria” tresca padre-figlio-amante-madre in un vortice di violenze, sopraffazione e crudeltà. Al centro della narrazione l’idea di evirazione, di privazione forzosa della parte sessuale maschile per espiare le colpe regresse, e naturalmente dei suoi risvolti tragici. In fondo, i guai peggiori del film vengono fuori dal trapianto di pene che il padre concede al figlio, diventa simbolo di una potenza virile del tutto smarrita, ed il fatto che giusto un pene assuma questo genere di valenza è tanto grottesco quanto considerevole.

    Non ci viene detto nemmeno il nome dei personaggi, e questo è quanto. Dettaglio ancora più interessante, il film è del tutto privo di dialoghi: ma questo non dovrebbe far temere velleità arthouse o da cinema d’essai, per quanto – forse solo per via dell’argomento trattato – il messaggio passi lo stesso grazie alla fisicità possente ed espressiva degli interpreti. E questo avviene in modo diretto, puri, comprensibile quasi certamente da solo quegli spettatori provvisti degli attributi (é proprio il caso di dire) per vedere il film senza distogliere lo sguardo neanche per un attimo. Dato il cinismo di Ki-duk (la sua violenza visiva, del resto, è tutt’altro che compiaciuta), ed il suo stile diretto e fin troppo privo di fronzoli (che fa sorridere, in un certo senso, a confronto con quello diluito di Hard Candy, ad esempio, film in parte analogo per contenuti e contesto), rendono la visione un “lavoro” tutt’altro che agevole.

    Il figlio, in particolare, esempio archetipico di bravo ragazzo tormentato dai bulli, diventa anche chi che paga colpe non sue e capricci dei propri genitori: il suo arresto, del resto, coincide con la sua mutazione completata, sia dal lato fisico che comportamentale, un po’ come sarebbe avvenuto nel miglior Cronenberg. Non passa istante in cui qualcuno non voglia sbirciare nei pantaloni del ragazzo, diventato quasi una sorta di fenomeno da baraccone per via del delicato intervento subito. Al tempo stesso il padre, figura in parte debole e del tutto vittima degli eventi, scopre un modo “alternativo” per procurarsi piacere, ovvero sublimando il dolore fisico, e ritenendo che ciò possa condurlo ad un orgasmo che, in effetti, non saprebbe in quale altro modo raggiungere. Una teoria disperata e crudele, non troppo dissimile da quella dei “supplizianti” di Hellraiser, a ben vedere, per quanto ovviamente non ci sia traccia dell’impianto scenico immaginifico del film di Barker. Qui il realismo è quanto di più vivido si possa immaginare, e probabilmente è questo l’aspetto realmente spaventoso e “scandaloso” in ballo.

    Il padre che viene scoperto con l’amante, la madre che vorrebbe vendicarsi sul marito per poi ripiegare sul figlio, i teppisti che aiutano apparentemente il ragazzo salvo poi coinvolgerlo in uno stupro, parlando di un’umanità persa nei palazzi anonimizzanti delle metropoli, oltre che nei suoi vicoli asfissianti. Viene in mente lo stesso regista quando affermò che “l’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno; è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile“, il che sembra chiarire parte del senso del suo film. Moebius diventa quindi un trattato dell’assurdo su un mondo incomprensibile, prepotente e spaventoso, nel quale è difficile chiarire appieno le motivazioni dei personaggi, per quanto il sesso (e non poteva essere diversamente, in questo contesto) assuma una valenza tanto preponderante da sembrare logorroica.

    C’è da aggiungere, in conclusione – perché non è certo cosa di poco conto – come questo film sia profondamente scabroso, e vada a combinare in un vortice di pulsioni erotiche una storia tanto semplice quanto terrificante per le sue conseguenze (e che a volte, vista in modo un po’ superficiale, sembra addirittura illogica o buttata lì). Il mondo di Moebius è fatto di città semidesertiche, in cui i protagonisti si sbirciano con aria smarrita, consumano sesso proibito, fugate e a volte incestuoso, e con uno sguardo impietoso su baby-gang una più tremenda dell’altra.

    Con un perenne rivoltarsi dei giovani contro le generazioni precedenti, si crea un turbine che sembra non conoscere speranza nè possibilità di reale redenzione.

  • Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    1944: cinque soldati americani vengono condannati a morte per motivi diversi in un campo nei pressi delle Ardenne; durante il tragitto si buca uno pneumatico…

    In breve. Film di guerra italiano, motivo di grande interesse e decisamente originale, con qualche inevitabile pecca.

    La storia è quella di un gruppo di disertori, durante la seconda guerra mondiale, che si trovano in Francia per essere fucilati: durante il tragitto si creerà per loro una nuova storia, ricca di avventure ed imprevisti. Una lotta per la sopravvivenza che li dovrebbe portare, dopo l’assalto ad un treno, verso la salvezza, nel territorio neutro della Svizzera. Una battaglia contro tutto e tutti, visto che il gruppo si troverà perennemente tra due fuochi, e sarà esaltato il senso di fedeltà tra i commilitoni accomunati dai medesimi problemi, rispetto alla fedeltà alla nazione o a qualsiasi bandiera prestabilità. Un senso di anomala solidarietà tipico del western, di fatto, e di tutto un filone di cinema realistico e di vendetta, da Distretto 13 a I guerrieri della notte e moltissimi altri.

    Molta della fama di questo film si deve, almeno in parte, a Quentin Tarantino, amante del cinema di genere e (ri)scopritore di talenti nascosti (spesso e volentieri italiani) che ne ha citato lo spirito ed alcuni passaggi (ma non la trama) all’interno dei suo Inglorious Basterds. Quando in seguito avrebbe diretto il suo Bastardi senza gloria, un film dal titolo identico ma con storia completamente diversa, volle acquistare solo i diritti sul titolo, giusto per evocare questo cinema, questi tempi e questi ritmi. Nel suo caso non si è trattata pertanto di un’operazione di remake, bensì del suo consueto gioco di citazioni: l’opera di Castellari si ricollega ad un filone ben consolidato, da cui eredita una componente di azione ricca di momenti intensi e di siparietti ironici, motivo di interesse sostanziale per il film. La sceneggiatura è stata affidata a Sergio Grieco, autore di film semi-dimenticati di genere prevalentemente poliziesco, tra cui il misconosciuto ed introvabile I violenti di Roma bene: qui, cronologicamente, si tratto dell’ultimo film da lui scritto, in collaborazione con lo stesso regista.

    Un film che è forse lontano dal capolavoro di guerra, ma che diverte, avvince e si fa seguire con una sceneggiatura azzeccatissima e varie trovate originali, tra cui i siparietti del baffuto Michael Pergolani (che interpreta il soldato Nick Colasanti) che nella versione italiana è stato doppiato in siciliano. Insomma un cult a tutti gli effetti, con qualche difetto riscontrabile quasi esclusivamente in alcune trovate improbabili, come le mitologiche infermiere tedesche che ovviamente faranno il bagno più sexy possibile nel laghetto. Per il resto, Quel maledetto treno blindato rimane impresso con tutti i suoi protagonisti, tra cui la superba, direi, interpretazione di Bo Svenson, il tenente Yeager attorno al quale ruota l’intera storia.

  • Essere sapiosessuale

    Una volta un amico mi ha confidato di “essere sapiosessuale” – di sentirsi attratto da partner con cui possiede interessi in comune in termini culturali. Il sapiosessuale è infatti attratto dal cervello dell’altra persona, al punto di sognare di farlo proprio, di farselo, di renderlo organo sessuale.

    Il concetto mi sembrava affascinante e, qualche mese dopo, mi è capitato di metterlo alla prova: per mesi ho frequentato assiduamente una collega con cui vado molto d’accordo e c’è tuttora intesa mentale considerevole. Ogni aspetto del reale era motivo di confronto, diventava la scusa per parlare di libri, di film, di musica; per raccontare di noi, aprirci l’un l’altro. E poi condividere conoscenza, raccontarci storie, essere trasparenti, sinceri l’uno con l’altra, infarcite di autori che avevamo letto e cose che avevamo studiato. Sembrava il preludio di una delle più belle storie sapiosessuali mai raccontate, ma non è andata come si sperava: la persona in questione si è rivelata più attratta dai miei ragionamenti che da me, e il suo interesse era sinceramente lavorativo e non sentimentale o sessuale. L’altra persona che parlava di sapiosessualità, del resto, non ha mai esibito troppa cultura con la propria compagna, anzi ha sempre insistito su un registro colloquiale anche piuttosto banale, stantìo, nulla di elaborato. Mi venne il dubbio, a quel punto, che la sapiosessualità di fatto non esista, o al limite che si tratti di un modo per abbellire la propria narrazione emotiva (nulla di male nel farlo, intendiamoci).

    Di per sè, se andiamo ad indagare, la sapiosessualità sembra un neologismo senza alcun fondamento scientifico, al contrario di altri fenomeni come la demisessualità che sono attualmente allo studio. Può anche darsi che in futuro vengano fatti studi approfonditi anche sulla sapiosessualità e si possa saperne di più, ma ad oggi è bene sapere che il termine “sapiosexualcompare sul web sul finire degli anni Novanta, sul blog dell’utente con nickname wolfieboy. L’autore si considerava “entusiasta della sapiosessualità“, e del fatto “che parecchie persone stiano annoverando la sapiosessualità come interesse“. Nel blog, l’autore si attribuisce di aver “inventato” questato parola nel 1998, a seguito di una discussione con una blogger (nickname Jadine), con cui – in era pre-social / web 1.0 – era solito comunicare e scambiarsi idee.

    La sapiosessualità veniva definita da wolfieboy come un qualcosa di diagonale rispetto al sesso biologico, dato che (scrive l’autore)

    Non mi interessa molto “l’impianto idraulico”

    nel senso che non gli interessava il sesso del partner, probabilmente. L’autore specifica poco dopo la propria lista della spesa in fatto d’amore:

    Vorrei una mente incisiva, curiosa, perspicace e irriverente. Qualcuno per cui la discussione filosofica sia un preliminare. Qualcuno che a volte mi faccia venire il voltastomaco per la sua arguzia e il suo senso dell’umorismo maligno. Qualcuno che possa raggiungere e toccare dove capita. Qualcuno con cui potermi fare le coccole.

    Ho deciso che tutto ciò significa che sono sapiosessuale, conclude in modo lapidario.

    Se ammettiamo che questa dichiarazione possa essere una sorta di “manifesto” della sapiosessualità (termine popolarizzato ulteriormente, per inciso, dalla scrittrice erotica Kayar Silkenvoice), bisognerebbe premettere che quella wishlist interminabile di desiderata per un partner sia probabilmente irrealistica. Questo anche solo per il fatto che si basa su una lista della spesa discorsiva, poco applicabile alla realtà, e perchè – da che mondo è mondo, diremmo – ognuno trova i partner che trova, senza programmi, senza scadenze e soprattutto se li trova. Questo ci riconduce a pensare il problema della sapiosessualità in termini cognitivi, perchè sembrerebbe plausibile che si tratti di un paravento, un bias cognitivo che ci risparmia di fare i conti con la realtà e la sua irriducibilità ad una formula matematica. Molto più semplice pensare, per intenderci, che sono un/una nerd incallita e voglio un/una nerd incallita come me.

    Viene altresì il sospetto che la sapiosessualità possa essere un costrutto sociale, dai tratti molto semplicistici nel suo concepimento, in netta opposizione alle caratteristiche sfuggenti della realtà in cui viviamo. Una realtà in cui – lo sappiamo bene – è complicato trovare un partner adeguato, soprattutto (ma non solo) in pianta stabile e se le nostre esigenze cozzano con le tendenze maggioritarie della società. Molti trovano subito in modo spontaneo nonostante varie disregolazioni emotive e caratteriali, altri lavorano su se stessi per anni senza trovare nulla. Questo aspetto è fonte di sofferenza per tanti, e spiega il discreto successo di cose come i corsi di seduzione online che, il più delle volte, si prefigurano come saggi incel riduzionisti per maschi bianchi etero. Sono dotati di dialettica argomentativa accattivante quanto semplificata, che sia in grado di catturare la mente delusa del single, ma non rendono (ed è questo il loro limite sostanziale) l’idea della soggettività dell’incontro, dell’irripetibilità della circostanza, della risonanza del contatto fisico e forse neanche della possibilità che possano esistere molte forme di amore, tra cui quelle non necessariamente sessuali. Non è poco, ed è sempre meglio di nulla per chi non trova davvero nient’altro. Viene insomma il dubbio che dire “sapiosessuale” sia un travestimento emotivo per suggerire alle persone che “mi considero degno e voglio una persona degna come me“. Vale la pena seguire la falsariga dell’anti-semplicismo e provare a capire meglio dove ci porta, a questo punto.

    Nel saggio “Abitare la complessità” Mauro Ceruti e Francesco Bellusci evidenziano come sia cresciuta, negli ultimi anni, la diffidenza generale nei confronti della complessità del reale, in favore di una tendenza a trovare una logica forzosa in ogni cosa. Al netto dei complottismi che giustificano sempre qualsiasi cosa, si finisce spesso per applicare criteri brutalmente cartesiani ad un mondo che, di suo, rifiuta questa categorizzazione, perchè è troppo sfuggente e complesso perchè si possa esprimere in termini deterministici. Gli autori si spingono a scrivere, in merito, che

    il semplice non esiste, ovvero è sempre il semplificato

    nel senso che qualsiasi schema mentale applichiamo alla realtà rivela null’altro che la nostra utilità, ciò che a noi serve, o anche la nostra ansia nell’accettare o meno quella benedetta complessità. Complessità che, a sua volta, non vuole essere sinonimo di complicanza, bensì rilancia la propria effettività in favore di scelte operate, in risposta alla giungla del reale, in maniera più flessibile, dalle conseguenze imprevedibili e non per forza funzionali ad una narrazione preconcetta.

    “La prima regola del club di Dunning–Kruger è che non sai di farne parte” (D. Dunning).

    Al tempo stesso, gli studi di David Dunning e Justin Kruger avevano analizzato ad inizio anni Novanta un campione di studenti universitari che sostenevano un esame, osservando un singolare fenomeno: la performance media effettiva, a confronto di quella auto-percepita, tendeva a presentare un divario sostanziale. Più nello specifico, sembrava che i meno studiosi tendessero a sopravvalutarsi e, al contrario, quelli con voti più alti a sottovalutare le proprie capacità.

    Un fenomeno dai tratti grotteschi che i due autori citano nel proprio articolo “Non qualificati e inconsapevoli: come le difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza portano a autovalutazioni esagerate“, diventato un vero classico del pensiero razionale, dello studio dei bias cognitivi e del debunking in genere. Chi riferisce la sapiosessualità come una caratteristica di se stesso e del proprio potenziale partner (o meglio, del proprio io ideale e della proiezione idealizzata del futuro partner) potrebbe essere parte del club di cui nessuno è consapevole di essere, quello di Dunning e Kruger: potrebbe insomma considerarsi più intelligente di quanto non sia, e sovrastimare le doti del (o della) partner.

  • Mi hanno tolto il match su Tinder

    Quando ho visto il match con Anna mi era sembrata una di quelle piccole vittorie che ti strappano un sorriso nella monotonia dello swipe. Bionda, inglese, nickname PJ, foto intriganti e non costruite, un mix di mistero e semplicità. Devo aver pensato: “Ok, forse qui c’è qualcosa di interessante.” Abbiamo iniziato a scriverci, sembrava ricettiva, rispondeva in modo rapido, qualche battuta, un accenno alla musica che le piaceva e che ci accomunava. Poi, all’improvviso, senza preavviso, sparisce. Il match non c’era più. Le avevo appena scritto quello che facevo nella vita. Soprattutto non avevo risposto “trafficante di organi“. Nessuna spiegazione. Ci sono rimasto male. Non perché fossi innamorato dopo dieci messaggi, ma per quella sensazione di essere stato scartato senza un perché: un oggetto messo nel carrello e rimosso all’ultimo secondo.

    Se ci pensi, in un’ottica evoluzionista, è un comportamento che ha perfettamente senso. Su Tinder e simili, la selezione è brutale e rapida, proprio come lo era per i nostri antenati nella scelta del partner. Solo che loro avevano tempi e contesti diversi, mentre oggi un match dura pochi minuti e può essere annullato due secondi dopo. La selezione sessuale ha sempre favorito chi sa ottimizzare le proprie risorse: scegliere il miglior partner possibile con il minor dispendio di energie. Se dopo un paio di scambi qualcuno sembra meno interessante del previsto, meglio eliminarlo e non investire tempo in una conversazione destinata a morire. L’abbondanza di opzioni amplifica questo comportamento. Quando sai che bastano due swipe per trovare qualcun altro, ogni interazione diventa meno preziosa, più sacrificabile.

    C’è un ulteriore aspetto legato alla gratificazione immediata. Tinder stimola il nostro cervello con continue micro-ricompense, come una slot machine: un match, un messaggio, un piccolo scambio di attenzioni. Ma spesso non c’è un vero interesse dietro, solo il piacere effimero di essere desiderati per un istante. E proprio per questo, il ghosting o il togliere il match senza motivo sono così comuni: non comportano conseguenze sociali reali, nessuno deve dare spiegazioni. Nel mondo reale interrompere una conversazione in modo brusco avrebbe delle ripercussioni, ma online il costo sociale è nullo. Si può sparire senza guardarsi indietro, senza affrontare il minimo disagio emotivo.

    C’è anche chi lo fa per evitare un coinvolgimento, al limite senza nemmeno rendersene conto. Alcune persone, dopo un primo scambio, sentono che si sta creando un’interazione più concreta di quanto vorrebbero e chiudono tutto di colpo, come un meccanismo di autodifesa. Altre semplicemente vogliono testare il loro “valore di mercato”, accumulare conferme, senza mai avere l’intenzione di approfondire.

    Forse Tinder non fa per me, soprattutto se lo usi (come riconosco di fare ogni volta) come strumento compensativo di delusioni e sportellate varie che continuo a prendere dal vivo. Il dating è un’arena dove vince chi sa giocare senza coinvolgersi, chi sa prendere e lasciare senza rimanerci male. Alla faccia di chi racconta di essersi sposato usando app di dating. Forse non faceva per me, semplicemente. Non lei, l’inglese, mi riferisco all’app di dating. (A. P.)

  • Manuale digitale del Cinema Dissacrante

    “Dissacrante” è un aggettivo che indica qualcosa che è in grado di oltraggiare, sfidare o violare deliberatamente le norme, le convenzioni o i valori sacri, sia religiosi che culturali. Questo termine viene utilizzato per descrivere qualcosa di provocatorio, irriverente o che mette in discussione idee o istituzioni considerate intoccabili o sacre dalla società o dalla cultura in cui si inseriscono. L’etimologia del termine “dissacrante” deriva dalla combinazione del prefisso “dis” (che indica un’azione negativa o contraria) e dal termine “sacro” che ha radici latine e fa riferimento al concetto di santo o consacrato. Un sinonimo di “dissacrante” potrebbe essere “irriverente”. Entrambi gli aggettivi descrivono qualcosa che manca di rispetto per le norme, le istituzioni o le convenzioni, solitamente in modo provocatorio, sfidando le aspettative sociali o culturali. Altri sinonimi potrebbero essere “scorretto”, “sacrilego”, “provocatorio” o “sfacciato”, a seconda del contesto in cui vengono utilizzati.

    Quindi, letteralmente, “dissacrante” significa “che toglie la sacralità o il carattere sacro a qualcosa”, con una connotazione di sfida o oltraggio nei confronti di ciò che è considerato sacro o intoccabile. Questo aggettivo è spesso usato per descrivere opere artistiche, opere letterarie, film o azioni che mirano a mettere in discussione dogmi, valori tradizionali o concetti considerati sacri dalla società. Il cinema non poteva fare eccezione ed in questo articolo abbiamo raccolto i 10 film tra i più dissacranti mai realizzati.

    Brian di Nazareth

    Diretto da Terry Jones, questo film dei Monty Python affronta temi religiosi in modo satirico, seguendo la storia di un uomo di nome Brian che vive nell’antica Giudea e viene letteralmente scambiato per il Messia.

    Arancia meccanica

    Diretto da Stanley Kubrick, questo film si concentra sulla violenza giovanile e sulla psicologia del male, esplorando il tema del libero arbitrio attraverso un protagonista violento e disturbato.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Diretto da Pier Paolo Pasolini, il film affronta temi di potere, sadismo e perversione attraverso una rappresentazione estremamente cruda e provocatoria.

    La montagna sacra

    Diretto da Alejandro Jodorowsky, questo film surrealista e simbolico mette in discussione le istituzioni religiose, sociali e politiche attraverso una serie di immagini e simbolismi visivi.

    Dogma

    Diretto da Kevin Smith, questo film presenta una visione satirica e irriverente della religione e dei dogmi religiosi attraverso una trama che coinvolge angeli, un’apocalisse e un gruppo di personaggi umani connessi a temi spirituali.

    Borat 2

    Borat Seguito di film cinema: il ritorno del giornalista kazako che diverte (e fa arrabbiare) chiunque

    This Is the End

    Questo film, diretto da Seth Rogen e Evan Goldberg, è una commedia apocalittica che vede diversi attori interpretare versioni di sé stessi in una situazione di fine del mondo, utilizzando humor oscuro e autoironico.

    “The Wolf of Wall Street

    Diretto da Martin Scorsese, questo film segue la storia vera di Jordan Belfort, un broker di Wall Street, mostrando il suo stile di vita eccessivo e immorale, mettendo in discussione il mondo della finanza e della moralità.

    Postal

    Un film che entra di diritto nell’universo del cinema più dissacrante di sempre.

    American Psycho

    Basato sul romanzo di Bret Easton Ellis, il film diretto da Mary Harron segue la vita di Patrick Bateman, un giovane banchiere con tendenze psicopatiche, critica la società degli anni ’80 e le ossessioni materialistiche.

    Fight Club

    Diretto da David Fincher, questo film basato sul romanzo di Chuck Palahniuk mostra una critica al consumismo e alla società moderna attraverso un club segreto che promuove (direttamente o indirettamente, pur sempre in maniera provocatoria) la ribellione contro lo status quo.

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