STORIE VERE_ (14 articoli)

  • 13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    Nella sterminata filmografia di Takashi Miike, frammisti tra manga cinematografici (Yattaman), horror, thriller e quant’altro, rischia di apparire pretenzioso esprimere un giudizio senza averne visti pressappoco la metà: del resto si tratta di quasi cento pellicole, molte delle quali disponibili esclusivamente su internet, e neanche tutte doppiate in italiano (solo sottotitoli).  Una situazione che costringe, di fatto, anche il cinefilo più incallito a valutare ogni suo film come una cosa a sè stante, facendo diventare un’impresa titanica delineare una linea di continuità tra le opere.

    Nel caso dei “13 assassini” ci può stare, credo, che si esprima una valutazione a prescindere da tutto, dato che – al di là della violenza estetizzante, tra Eli Roth e Tarantino – non è esattamente un horror, anche se eredita parecchio a livello di gore: non mi sorprenderebbe sapere che possa aver deluso chi ha visto ad esempio Audition, dello stesso regista, dato che si tratta di un sostanziale remake di un film anni 60 di arti marziali con lo stesso titolo. 13 assassini” è intriso di cultura e tradizione giapponese – con riferimento al mondo dei samurai, esaltandone il codice etico da guerrieri e, al tempo stesso, mettendo in discussione gli assunti di una società arcaica che si sta estinguendo. Due mondi contrapposti – dignitosa tradizione contro avida modernità – che combattono ferocemente  come consuetudine vuole anche nei film di Bruce Lee.

    La storia narra di un gruppo di dodici samurai (più un tredicesimo che si aggiungerà in seguito), che dovrà combattere contro un esercito intero per eliminare un signorotto feudale (Naritsugo) feroce e sanguinario. Il tutto per evitare che l’uomo possa consolidare ancora di più il proprio potere, approfittando dell’impunità di cui gode (etteparèva) e della schiera di soldati pronti a morire per difenderlo. Dopo una prima parte più contemplativa (anche se il sangue arriva dopo pochi minuti, mostrando il suicidio rituale di un uomo), si passa all’azione vera e propria: la dinamica di fatto è quella di un puro action-movie, solo con qualche spiegazione etico-filosofica in più rispetto alla media. I riferimenti di fondo, da tenere presente, sono almeno due: “I sette samurai” di Kurosawa – altro bellissimo film – e l’omonimo <<13 Assassini>> di Eiichi Kudo, del 1963.

    Questo film possiede dunque la struttura di un tipico film orientale di arti marziali elaborato in chiave moderna (ottima la fotografia), e trasposto nel mare di sangue di una guerra senza scampo, che potrebbe quasi considerarsi l’equivalente nipponico di Platoon. Di fatto molti tratti dei “13 assassini” sono (atipicamente, direi) “occidentalizzati”, a cominciare dallo svilupparsi lineare della trama, senza trascurare dettagli che saranno familiari un po’ a chiunque, come il samurai che minaccia il proprio opponente con un “ci vediamo all’inferno” che sa troppo di già sentito e di american-way. Un film inizialmente lento – è un luogo comune, in questi casi, ma va detto – che non mostra debolezze umane su cui sadici aguzzini infieriscono (come nel succitato Audition) bensì la figura di un Male assoluto, beffardo, compiaciuto e sostanzialmente estraneo a qualsiasi moralità. Un Male che gode nel vedere le proprie pedine combattere ferocemente, e difenderlo come se fosse un semi-dio.

    Se avete un po’ di insana curiosità, o comunque apprezzate il cinema orientale e non siete schizzinosi in fatto di sangue, secondo me dovete procurarvi questa pellicola ad ogni costo, e non credo rimarrete delusi. In caso contrario state alla larga, o alla meglio è bene che vi prepariate con la giusta predisposizione mentale ad assistere ad una pellicola insolita, che ha come suo principale “difetto”, se posso chiamarlo così, qualche momento lento e riflessivo non sempre troppo comprensibile. Una complessità che cozza con la tagline degna di un film di Schwarzy (“13 uomini / una missione / massacro totale“), forse un po’ subdola e che possiede il pesante difetto di suggerire una banale “tamarrata” anni 80.

  • Nato il quattro luglio è la vera storia di Ronald Lawrence Kovic secondo Oliver Stone

    Il giovanissimo americano Ron Kovic si arruola nei marines e, ferito gravemente alla spina dorsale, perde l’uso delle gambe diventando impotente.

    In breve. La struggente storia di Ron Kovic, sentitosi tradito dalla propria patria dopo un passato tragico da militare nella guerra in Vietnam, diventa attivista per la pace. Un classico da non perdere per nessun motivo.

    Nato il quattro luglio (Born on the Fourth of July in lingua originale) è probabilmente uno dei migliori film di Oliver stone: uscito nelle sale nel 1989, venne sceneggiato in collaborazione con lo stesso Ron Kovic, personaggio realmente esistente negli USA, che si ritaglia anche un cameo all’inizio della pellicola.

    Incluso tra i migliori 100 film americani dall’American Film Institute nel 1998, è anche il primo film di Oliver Stone ad essere stato girato in formato 2.35:1. Fa parte della trilogia sulla guerra girata da Stone, che vede affiancato sia Platoon del 1986 che Tra cielo e terra del 1993. L’importanza del film è fondamentale perchè, soprattutto, narra la storia di un personaggio che cambia radicalmente idea: convinto del proprio patriottismo e disposto a sacrificarsi per la patria, paga a caro prezzo questa scelta diventando disabile e impotente. La sua reazione è quella di rivedere completamente la propria etica, scaraventandosi contro gli stessi USA che amava e che lo avevano abbandonato (in questo la storia evoca in qualche modo l’etica dei bikers, traditi anch’essi e dediti alla vita di strada, in contrapposizione ad un mondo troppo conformista). Un pugno in faccia, dal punto di vista narrativo, da cui lo spettatore rimane annichilito dal punto di vista emotivo: l’americano medio, ovviamente, non riuscirà mai (prevedibilmente) ad accettare questa scelta.

    Ausili per disabili – Sanort.com

    Oliver Stone, fortemente sostenuto dal suo mentore Martin Scorsese, avrebbe voluto girare girare il film proprio in Vietnam, ma considerazioni politiche e di convenienza lo fecero optare per una location nelle Filippine. Nato il quattro luglio è girato con varie sfumature cromatiche differenti, in particolare: le sequenze oniriche in bianco, quelle più struggenti in blu, quelle di battaglia in rosso. Per interpretare al meglio il proprio personaggio, Tom Cruise (attore sul quale la produzione ebbe, a torto, qualche perplessità di fondo) cercò di rimanere seduto sulla sedia a rotelle per molto più tempo del necessario, durante le riprese. Per inciso, poi, Cruise è nato un giorno prima del personaggio che interpreta (il 3 luglio).

    Dal punto di vista del torpiloquio, poi, si segnala la presenza della parola fuck, secondo IMDB, per 289 volte, un record battuto probabilmente solo da Pulp Fiction. Tra i personaggi pensati per interpretare la parte di Kovic, si segnalano Nicolas Cage, Sean Penn e curiosamente Charlie Sheen (lo stesso che avrebbe parodizzato la parte di Tom Cruise all’interno di Top Gun in Hot Shots).

    La Universal era preoccupata del messaggio sovversivo all’interno del film, tanto che – per contenere i costi – pare arrivò a non pagare buona parte del cast in anticipo, ma solo ad incasso ottenuto. Nato il quattro luglio ha anche vinto due Oscar: Migliore regia a Oliver Stone e Miglior montaggio a David Brenner e Joe Hutshing.

  • The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher (L’osservatore) è una serie Netflix tra le più popolari del 2022, incentrata su una inquietante casa, ambitissima da vari compratori quanto in grado di diventare l’ambientazione di surreali incubi ad occhi aperti al loro interno. Gli episodi raccontano le vicissitudini dei vari coinquilini e, in particolare, quelle di una coppia (Naomi Watts e Bobby Cannavale) con due figli adolescenti, innamorati dell’abitazione a prima vista, nonchè futuri entusiasti acquirenti. La storia è in bilico su varie tonalità narrative e si ispira, nello specifico, ad un autentico fatto di cronaca del 2014: la storia della famiglia Broaddus, minacciata da lettere anonime dopo aver cambiato casa.

    Detta in maniera sintetica, The Watcher (scritto da Ian Brennan, in collaborazione con l’ideatore Ryan Murphy, che si occupa specificatamente del primo episodio) è una serie con più registi che vorrebbe forse riprendere la gloriosa tradizione dei mediometraggi horror di 20 o 30 anni fa. Cosa che avrebbe avuto più senso per le serie antologiche, forse, non certo per quelle che raccontano una storia di cinque ore e mezza che appare interminabile, poco stimolante e cosparsa di dettagli poco funzionali.

    Del resto si insiste su un’idea già vista, leggermente stantìa, di horror, basata sui topici dialoghi un po’ faciloni (che negli horror non sono tutto, e lo sappiamo, ma sono pur sempre qualcosa). Esemplificativo a riguardo un momento di intimità tra i coniugi, interrotto da uno dei figli per via di una musica che crede di aver sentito dalla casa, il tutto giusto durante il climax orgasmico. A quel punto ci pensa l’uomo, il padre (e chi sennò?), perfetto emblema del padre-protettore: ci pensa lui a rispondere al figlio, dalla camera da letto, “tua madre sta venendo“, una allusione talmente grossolana da far precipitare le braccia dello spettatore nelle profondità degli abissi. Anche lo stesso tormentone sul guardare o essere guardati (mentre si fa sesso?), sull’occhio dell’Osservatore da cui il titolo, passa relativamente indifferente, nonostante venga ribadito con cadenza sistematica.

    Le varie situazioni spaventose sembrano poi troppo rare rispetto alla tensione in ballo, tensione che per la verità funzionerebbe pure: i coniugi Brannock si legano visceralmente alla nuova casa, ne sono rapiti irrazionalmente, fronteggiando così alcune lettere anonime di minaccia che li vorrebbero fuori da lì. I sospetti ricadono su una coppia di vicini, fin da subito scontrosi e derisori nei loro confronti, e su alcuni altri grotteschi soggetti che sembrano riuscire a penetrare in casa anche senza averne le chiavi. La casa, ovviamente, si presta a interpretazioni psicologiche e sottotesti assortiti: il suo aspetto lussuoso è parte dello scenario in cui i protagonisti specchiano le proprie vanità, il desiderio di ritrovare la dimensione perduta, un Eden (probabilmente inesistente o idealizzato) a cui anelano da sempre. È il posto che dovrebbe metterti a tuo agio e puntualmente non lo fa, diventando un luogo seminale in cui coltivare e far degenerare terrori ancestrali, irrosolti esistenziali, frustrazioni e problemi economici. A vantaggio della narrazione si potrebbe, per onor di cronaca, raccontare della forte componente paranoica della trama (in una sequenza è presente un riferimento alla teoria del complotto sull’adrenocromo, ad esempio); non è male, peraltro, il clima paranoico (sempre accennato e vagamente hitchcockiano, per alcuni aspetti) in cui i protagonisti si muovono, senza capire come faccia l’Osservatore a vederli.

    Andrebbe bene, o sarebbe nella media dignitosa del genere, se non fosse che sono situazioni già viste e, già dalle prime puntate. The Watcher si svela come un thriller sostanzialmente ripetititivo, senza troppa anima, in cui le cose avvengono in modo lento quanto inesorabile, mentre i climax appaiono diluiti da vaghi jumpscare sempre poco efficaci e funzionali. Ne basti uno su tutti, per comprendere i limiti di The Watcher: il figlioletto che si sveglia nella casa vuota, per capire cosa stia succedendo, e poi scoprire che il suo animaletto (un furetto) è morto senza motivo. Inquadratura sui piedi, animaletto ucciso, urlo del ragazzino, sirene della polizia, poliziotto tutto d’un pezzo che accorre sotto casa. Per un furetto?

    Non gioca a favore della seie, di fatto riuscito per meno di metà, il formato scelto (ed il fatto di essere diretto da più registi alimenta più che altro il senso di opera abbastanza disorganica): prefigurandosi come mini-serie di 7 puntate, diluisce la trama più del dovuto – o almeno, questa è la sensazione crescente che si prova mentre lo si guarda. I personaggi dell’ennesimo The Watcher (da non confondersi con l’analogo The Watcher, nè con Watcher), per inciso tra le serie più viste su Netflix degli ultimi tempi, sono l’aspetto più accettabile: diretti, caratterizzati e privi di fronzoli – l’investigatrice privata tormentata, ad esempio, sembra uscita fuori dalla filmografia blaxpoitation. Sono i personaggi secondari a funzionare meglio di tutti, paradossalmente, essendo sempre caratterizzati da teatralità, suggestioni e retrogusto lynchiano. Sembrano a più riprese burattini delle loro stesse storie, incapaci di agire se non nel modo in cui lo fanno, vittime della necessità di agire passivamente per conto di un Grande Altro indecifrabile (una setta? Un demone? La casa stessa?), preda di automatismi inconsci a cui obbediscono, persi nei loro rispettivi ricordi dolorosi. L’inconscio affiora anche dalla storia di una famiglia cittadina, irreprensibile quanto involontariamente irritante, vittima probabilmente del proprio perfezionismo e che decide di trasferirsi in provincia, rifuggendo dal caos cittadino (e dov’è la novità, del resto). Una famiglia troppo stereotipata e banalizzata, se vogliamo, per essere vera.

    È la ricerca metaforica del paradiso perduto, mentre il resto della vicenda si segue con difficoltà e non cattura, purtroppo, come dovrebbe. Storie già viste, già sentite, già sviscerate in lungo e in largo – per cui viene da pensare a Jack Nicholson e Shelley Duvall, per certi versi, ma solo per brutale assonanza con la casa spettrale e minacciosa, con la “luccicanza” del caso, le famiglie che forse non sono ciò che appaiono (e ti pareva) e i vari scheletri nell’armadio che sbucheranno, prima o poi, fuori. Sarà anche così, ma non sembra molto interessante capire a fondo di cosa si tratti.

  • Mi hanno tolto il match su Tinder

    Quando ho visto il match con Anna mi era sembrata una di quelle piccole vittorie che ti strappano un sorriso nella monotonia dello swipe. Bionda, inglese, nickname PJ, foto intriganti e non costruite, un mix di mistero e semplicità. Devo aver pensato: “Ok, forse qui c’è qualcosa di interessante.” Abbiamo iniziato a scriverci, sembrava ricettiva, rispondeva in modo rapido, qualche battuta, un accenno alla musica che le piaceva e che ci accomunava. Poi, all’improvviso, senza preavviso, sparisce. Il match non c’era più. Le avevo appena scritto quello che facevo nella vita. Soprattutto non avevo risposto “trafficante di organi“. Nessuna spiegazione. Ci sono rimasto male. Non perché fossi innamorato dopo dieci messaggi, ma per quella sensazione di essere stato scartato senza un perché: un oggetto messo nel carrello e rimosso all’ultimo secondo.

    Se ci pensi, in un’ottica evoluzionista, è un comportamento che ha perfettamente senso. Su Tinder e simili, la selezione è brutale e rapida, proprio come lo era per i nostri antenati nella scelta del partner. Solo che loro avevano tempi e contesti diversi, mentre oggi un match dura pochi minuti e può essere annullato due secondi dopo. La selezione sessuale ha sempre favorito chi sa ottimizzare le proprie risorse: scegliere il miglior partner possibile con il minor dispendio di energie. Se dopo un paio di scambi qualcuno sembra meno interessante del previsto, meglio eliminarlo e non investire tempo in una conversazione destinata a morire. L’abbondanza di opzioni amplifica questo comportamento. Quando sai che bastano due swipe per trovare qualcun altro, ogni interazione diventa meno preziosa, più sacrificabile.

    C’è un ulteriore aspetto legato alla gratificazione immediata. Tinder stimola il nostro cervello con continue micro-ricompense, come una slot machine: un match, un messaggio, un piccolo scambio di attenzioni. Ma spesso non c’è un vero interesse dietro, solo il piacere effimero di essere desiderati per un istante. E proprio per questo, il ghosting o il togliere il match senza motivo sono così comuni: non comportano conseguenze sociali reali, nessuno deve dare spiegazioni. Nel mondo reale interrompere una conversazione in modo brusco avrebbe delle ripercussioni, ma online il costo sociale è nullo. Si può sparire senza guardarsi indietro, senza affrontare il minimo disagio emotivo.

    C’è anche chi lo fa per evitare un coinvolgimento, al limite senza nemmeno rendersene conto. Alcune persone, dopo un primo scambio, sentono che si sta creando un’interazione più concreta di quanto vorrebbero e chiudono tutto di colpo, come un meccanismo di autodifesa. Altre semplicemente vogliono testare il loro “valore di mercato”, accumulare conferme, senza mai avere l’intenzione di approfondire.

    Forse Tinder non fa per me, soprattutto se lo usi (come riconosco di fare ogni volta) come strumento compensativo di delusioni e sportellate varie che continuo a prendere dal vivo. Il dating è un’arena dove vince chi sa giocare senza coinvolgersi, chi sa prendere e lasciare senza rimanerci male. Alla faccia di chi racconta di essersi sposato usando app di dating. Forse non faceva per me, semplicemente. Non lei, l’inglese, mi riferisco all’app di dating. (A. P.)

  • Le app di dating ti aiutano solo se stai già sorpassando

    Ho sperimentato anche io le app di dating per un periodo della mia vita, sia free che a pagamento. Non ne sono rimasto entusiasta, a conti fatti, ad oggi non ne faccio più uso – e, per quanto sembri paradossale, ho vissuto esperienze più concrete usando un social come X (quando ancora si chiamava Twitter) per proporre incontri, che in un paio di casi hanno portato a vedersi di persona. In altri casi, classico due di picche o risposta troppo enigmatica o ambigua perchè valesse la pena insistere. Mi considero una persona autentica, ma non abbastanza da riuscire a fare auto-analisi. Cosa che non farò qui, ci mancherebba altro. So solo una cosa: non incoraggerei mai nessuno a dare credito a queste app, nè su Tinder nè tantomeno su X, anche se non demonizzo affatto chi ne fa uso e si diverte pure. Sono infatti piuttosto convinto che questi strumenti favoriscano gli incontri solo a chi è già “portato” di suo all’incontro, e non possano certamente fare miracoli con tutti gli altri.

    Non voglio dire che non funzionino in assoluto, ovviamente, tantomeno che chi ne sostiene l’uso sia un povero mitomane: dico soltanto che non fanno per me, che non vanno bene per me e che forse mi hanno fatto capire che non sto esattamente cercando una relazione fissa. È lecito sognare, non costa nulla farlo, ma difficilmente sogno di persone conosciute sui social o nell’oscurità di una chat, senza neanche l’assoluta certezza che la persona in questione passi il test di Turing. Certo, poi anche io faccio qualche sogno ad occhi aperti, ogni tanto, un sogno di quelli che si avvinghiano alle tempie e non ti lasciano andare, come una piovra che si annoda sulla tua testa coi suoi tentacoli appiccicosi quando avresti solo voluto una persona vicino a te poco prima di addormentarti. Vuoi mettere l’orrore lovecraftiano di ritrovarsi un polpo appena pescato nel proprio letto?

    Se c’è una cosa che ho capito è che le app di dating funzionano prevalentemente con chi è già socialmente predisposto a farne uso: non potranno funzionare mai, per definizione, con chi si sente maldisposto a farne uso, non ama gli azzardi, socializza con difficoltà, non sopporta l’idea che una persona che sembra carina e garbata online si riveli aggressiva e scostante dal vivo (mi è capitato e probabilmente ho fatto questa impressione qualche volta anche io). Non funzionano neanche con chi tende all’introversione, o teme che il novello Brad Pitt che ha appena conosciuto possa trasformarsi nel nuovo Donato Bilancia.

    Insomma, Tinder e compagnia amplificano l’effetto di chi è già abbastanza sicuro e privo di complessi di suo, dandogli ulteriori possibilità oltre a quelle che potrebbero avere al pub, al circoletto sotto casa, incrociando il vicino di casa per la trentesima volta di fila, ad un concerto heavy metal o hip hop e via dicendo.

    Così, le dating app finiscono per amplificare le dinamiche della vita reale, senza aggiungere nulla di nuovo e limitandosi a imitare ciò che avviene nelle conoscenze dal vivo: stiamo un po’ insieme, parliamo, siamo attratti o meno, poi ci molleremo per sempre senza aggiungere altro o ci ritroveremo a considerarci estranei l’uno dell’altro, sia pure abitando nella stessa casa. Non sono molto ottimista sull’amore, devo riconoscerlo, ma quantomeno ne esistono numerose forme diverse e le persone, se non altro, sono sempre numerose. E per qualche strana statistica, prima o poi girerà bene.

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