REALTÀ VIRTUALE_ (16 articoli)

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  • Nirvana di Gabriele Salvatores ci ha fatto zigoviaggiare

    Nirvana di Gabriele Salvatores ci ha fatto zigoviaggiare

    Zigoviaggiare è il neologismo / supercazzola che riassumeva, nelle intenzioni di Nanni Moretti nel film Aprile, l’atteggiamento perplesso del pubblico di cultura classico-analogica alle prese con le trovate del cinema di fantascienza. Un genere, la fantascienza, che in Italia è stato quasi sempre corsaro. Più di altri, più del thriller e dell’horror di sicuro, e meno male che Salvatores ha pensato di dirigere Nirvana.

    Siamo nel bel mezzo degli anni Novanta.

    Internet sta per diventare un mezzo di diffusione di massa, ma ancora non lo è diventato.

    Gran parte delle persone non capisce cosa stia succedendo in quell’ambito.

    I virus sono più popolari in forma biologica che in quella digitale, e forse è meglio così.

    Abituato a scorpacciate di cinema d’autore de na vorta, il pubblico da cineforum non apprezza particolarmente la fantascienza, a meno che non si tratti di microfestival dedicati al tema. La considera astratta, incomprensibile, a volte scandalosa (da ricordare le reazioni violente a Crash di David Cronenberg, ad esempio: in UK il ministro Virginia Bottomley ne chiese la censura, Irene Bignardi parlò di “baracconata disonesta”, il comune di Napoli si attivò per vietarne la diffusione senza neanche averlo visto). Il personaggio di Moretti che cantilena ossessivamente i dialoghi futuristici del film ha probabilmente espresso – meglio di chiunque altro – la diffidenza dello spettatore nei confronti di certo cinema di sci-fi. Cinema non banale, simbolico, a volte sofferente di overload di significati, spesso e volentieri relegato alla nicchia dell’essai.

    Del resto Strange days è una fantascienza cyberpunk, esattamente come quella di Nirvana – e azzardiamo pure a scrivere che il primo sembra quasi peggio del secondo. Una diffidenza che, per quello che vale, ha radici lontane, fa fatica a scomparire ancora oggi, ed è lungi dall’essere puro pregiudizio a priori: ci piacciono i mattoni d’epoca, Star Trek e Star Wars (spesso li confondiamo), amiamo ovviamente Dune, ci sono orde di fan di Nolan e la cosa essenziale della fantascienza “bella” è che ci sia la spettacolarizzazione delle ambientazioni.

    Resta altresì sottinteso che un film non è valido / degno di nota se non si registrano i soliti nerd che hanno qualcosa da eccepire sulla credibilità di ciò che guardano. La forza di gravità è rispettata? Come ha fatto l’astronauta a stare senza casco? Ma le astronavi fanno davvero rumore nello spazio? Come se il cinema perdesse brutalmente il requisito di sospensione dell’incredulità giusto per uno dei generi che ne dovrebbero, in teoria, farne da capisaldo.

    Hai mai jackato? Hai mai zigoviaggiato? No, mai. Ah, un cervello vergine… ti faremo cominciare bene!  Sei proprio sicuro che vuoi essere collegato? Sì, lo voglio (Aprile, Nanni Moretti)

    Nirvana di Gabriele Salvatores è una fantascienza che (al contrario di Strange Days, osiamo scrivere) avrebbe fatto divertire Nanni Moretti (come personaggio, s’intende), e che non avrebbe sfigurato come film di riferimento al posto del succitato. Non fosse altro che è uscito un anno prima (1997). Un unicum del genere che registrò incassi record al cinema: 15 miliardi di lire, secondo le stike di Wikipedia, cinque milioni di spettatori nonchè l’undicesimo incasso assoluto della stagione cinematografica 1996-97, se si pensa che all’epoca dominavano futuri cult quali INDEPENDENCE DAY, Il paziente inglese e Il ciclone. Un film che si trova ad essere qualcosa di molto diverso dal solito riassemblamento “per intenditori” sulla falsariga di Hardware – Metallo letale. Quella di Salvatores in Nirvana è una fantascienza solida, sostanzialmente per tutti, priva di fronzoli, con un uso accurato degli effetti speciali (e giusto qualche pecca interpretativo-narrativa).

    Nirvana ha subito critiche per lo più immotivate negli anni, e per quanto non sia un film perfetto (la parte centrale sembra troppo diluita e poco incisiva), resta uno dei principali e più fondanti film italiani degli anni Novanta: dicevamo essere un unicum del genere, tanto più che è stato distribuito in un panorama dove il genere viene bistrattato e sono ben pochi a vantare primati del genere. A differenza di generi come l’horror, del resto, per i quali abbiamo avuto sempre autentici maestri (Argento, Bava, Avati, Fulci), la fantascienza italiana è stata relegata ad una dimensione più che altro di nicchia, da cine-fanta-festival, puramente imitativa, con quel moto d’orgoglio che solo un b movie può darti (ad esempio L’arrivo di Wang), avvezza storicamente all’imitazione del canone famoso (Alien 2 di Ciro Ippolito), frammista di quel benedetto, infallibile horror che (gira e volta) viene sempre sfruttato pur di fare cassa.

    E dire che nel 1976 era uscito un piccolo capolavoro quale L’invenzione di Morel, in grado di inventare una nuova fantascienza italiana senza che ciò tuttavia abbia contribuito all’affermazione del genere (per chi non lo ricorda, l’invenzione in questione era una macchina in grado di registrare la realtà in forma olografica e proiettarla in loop nello spazio tridimensionale: l’illusione supremsa era che l’uomo potesse controllare, ripetere e rivevere le situazioni). Nirvana parla invece di un programmatore di videogame depresso per via di una donna che lo ha lasciato, e che sembra aver trasferito il mood esistenzialista anche al protagonista del videogioco a cui sta lavorando. Che un bel giorno bussa allo schermo e, meraviglia delle meraviglie, chiede cortesemente di essere cancellato dalla banca dati: non ne può più di vivere la routine di quel gioco.

    Nel nostro cinema si fatica, a quanto sembra, ad accettare la fantascienza come genere dotato di spessore – o addirittura dignità: in questo va riconosciuto lo spirito precursore e innovativo di Salvatores nel girare questo film, facendosi peraltro aiutare da volti noti del cinema comico italiano, da Paolo Rossi “Joker” (!) a Bebo Storti. Opera di spessore e profetica, per quello che vale sottolinearlo: pura fantascienza concettuale con ambientazione alla Blade Runner e vari spunti tratti dai romanzi di William Gibson (un autore complesso e multisfaccettato, archetipo della fantascienza accelerazionista), senza contare che Nirvana anticipa qualcosa addirittura da Matrix (che a sua volta, nel gioco a ritroso delle ispirazioni, traeva spunto da Razzi amari: il fumetto cult di Disegni e Caviglia).

    Forse – ipotizzo – non ci sono (ad oggi) autori nazionali di fantascienza che abbiano avuto un successo da prima serata al TG, al netto dei soliti noti (vengono in mente, in primis, Dino Buzzati e Valerio Evangelisti, ma dovremmo citarne molti altri): già in Italia si legge poco, e probabilmente questo non aiuta la diffusione di generi come questo. Tanto più che un film cyberpunk oggi non potrebbe più essere girato come questo, perchè sono cambiate molte cose e anche Terminator inizia a sembrare datato. Nirvana di Gabriele Salvatores si colloca in questa dimensione fantascientifica senza paura e senza tentennamenti, oltre che nel bel mezzo degli anni Novanta, quando (anche in Italia) aveva senso divagare sulla realtà virtuale, sugli abusi tecnologici, sulle storie di hacker e sui “possibilismi” tipo Matrix (della serie viviamo in un mondo reale o in una simulazione?).

    Nirvana per il resto va gustato, apprezzato in ogni fotogramma, cogliendo i numerosi Easter Eggs presenti (Silvio Orlando in un ruolo davvero irresistibile, ad esempio). Fa probabilmente strano vedere Claudio Bisio nelle vesti di un personaggio gibsoniano (un tassista che ricorda molto da vicino quello di Hardware), ma vogliamo pensare che si tratti di semplice snobismo pensarla così e che, a conti fatti, non ci siano troppe differenze tra questa ed altri tipi di fantascienza mondiale. Di più: l’incursione hacker che vediamo nel finale avviene mediante un virus informatico, ma è di natura meditativa, quasi ascetica (il colpo di genio della trama, in effetti): come se violare un sistema digitale richiedesse una concentrazione superiore alla norma. Raggiungere il Nirvana, per l’appunto.

    E non mancano le perle di cui il film è cosparso: i cameo vari nei personaggi più fantasiosi e grotteschi, l’aspetto sentimentale ben dosato e mai abusato, la trovata della backdoor nascosta nell’armadio del videogame, che un personaggio vorrebbe sfruttare come via di fuga – il tema è stato già trattato in Mediterraneo in forma “analogica” – mentre un altro arriva a rifiutare l’idea, mostrando che alla questione della senzienza degli avatar andrebbe affiancata l’idea che essi non fanno che imitare i nostri comportamenti (o quelli di chi li ha programmati). Non si può nemmeno dire che gli effetti speciali siano di basso livello o che si tratti di un bmovie, perchè l’uso delle tecnologie è adeguato all’epoca e sostanzialmente coerente. Si potrebbe al limite avere qualcosa da eccepire sulle interpretazioni, soprattutto quella di Lambert che in alcune sequenze sembra poco amalgamato alla storia. La ragione del suo sembrare “estraneo” sta probabilmente nel fatto che recitò in inglese e fu l’unico a farlo, per poi essere doppiato in seguito.

    A Salvatores del resto bastano quindici minuti dall’inizio del film per mettere le cose in chiaro: Christopher Lambert / Jimi è un programmatore di videogiochi che vive in una casa superaccessoriata (smart home, diremmo oggi), mentre Diego Abantuono / Solo è il protagonista del suo gioco più recente. Come in eXistenZ di David Cronenberg (che sarebbe uscito due anni dopo), il videogame è indistinguibile dalla realtà. È tanto realistico da sembrare il mondo in cui viviamo, con il rischio di rendere blanda la distinzione tra i due – oltre che scatenare crisi esistenzialiste nei personaggi del gioco stesso (come se l’avatar di un gioco di calcio sentisse realmente dolore in seguito ad un fallo durante una partita). Jimi sta cercando una donna della quale possiede solo un’immagine/video digitale, mentre Solo desidera semplicemente essere cancellato dal gioco, al fine di evadere da una routine che trova insopportabile.

    Ovviamente il titolo Nirvana fa riferimento – oltre alla band di Kurt Cobain – al noto concetto religioso e filosofico, utilizzato da religioni come il buddismo e l’induismo, per descrivere la pace mentale, corporea e dell’anima che si può raggiungere una volta che tutti i desideri (da sempre fonte di sofferenza) sono scomparsi. Forse quello che desidera Solo (ma anche Jimi), sempre più soli e disorientati all’interno di un videogioco/realtà di cui non hanno mai scelto di far parte.

    Come nelle migliori opere di William Gibson, c’è la figura di un hacker che prova a violare un sistema informatico per trarne vantaggi, o magari scongiurare il peggio per l’umanità. Non sembra un azzardo pensare che Nirvana, scritto da Salvatores assieme a Pino Cacucci e Gloria Corica, sia stato ispirato dalla Trilogia dello Sprawl, a cominciare dall’ambientazione cyberpunk a finire ai dettagli tipicamente gibsoniani (uso di tecnologie frammisto a quello di droghe, hacker contrapposti ai programmatori delle multinazionali, riferimenti continui al mondo giapponese, ambientazione periferica e degradata e così via). Niente male, insomma, se si considera la rarità della circostanza (il cinema cyberpunk è un sottogenere delle fantascienza, in voga quasi esclusivamente negli anni Novanta), e che sia un film italiano lascia il segno. Un cinema evocativo, profetico, accattivante, coinvolgente, e che è stato pure accusato di semplicismo nella trama – un assurdo, se si pensa che il limite più grosso di questo tipo di film risiede proprio nell’eccessiva stratificazione della narrazione (è un limite tipicamente gibsoniano, peraltro).

    Le tematiche di Nirvana sono molto attuali oggi: si parla di ricordi impiantati all’interno di banche dati, persone che vivono ricordi di altri (tema anche questo archetipico), di intelligenze artificiali potenzialmente aggressive, di vite che si ripetono come in un videogame, del quale uno dei personaggi assume consapevolezza della propria esistenza. E c’è l’ambientazione italiana, con tantissimi attori caratteristi (da Bebo Storti a Paolo Rossi), in un ruolo abbastanza insolito e gradevole rispetto alla media. Il viaggio conclusivo di Jimi nel mondo virtuale per manomettere il sistema è epocale soprattutto perchè la regia ha reso in modo perfetto il senso della sua battaglia tecnologica (che è prima di tutto mentale, poi fisica). Non c’era tutto quello che offrono le tecnologie oggi, ma molte cose sono state effettivamente ben previste (il metaverso, la realtà aumentata, le intelligenze artificiali manipolative, l’uso di internet come una droga che è un leitmotiv gibsoniano puro).

    E per fortuna a nessuno è venuto in mente di far dire ai personaggi termini avanguardistici come jackato e zigoviaggiato (per i soliti pignoli è bene ricordare che il termine originale di Strange Days era filoviaggiato). Perchè il pregio principale di questo sottovalutato (e ingiustamente maltrattato) film di Salvatores sta proprio nel suo mantenersi in equilibrio tra narrazione e azione, tra misticismo e simbolismo, senza mai eccedere nell’uno o nell’altro. E per una fantascienza cyberpunk è sicuramente qualcosa di essenziale.

    Con buona pace di chi, ancora oggi, non riesce proprio a stare dentro questo tipo di film, e che potrebbe ripartire da qui per riconciliarsi con quelle tematiche e (se possibile) riflettere sulle nuove tecnologie.

    Cast

    • Christopher Lambert nel ruolo di Jimi Dini
    • Sergio Rubini nel ruolo di Joystick
    • Diego Abatantuono nel ruolo di Solo
    • Stefania Rocca nel ruolo di Naima
    • Emmanuelle Seigner nel ruolo di Lisa
    • Amanda Sandrelli nel ruolo di Maria
    • Claudio Bisio nel ruolo di Red Rover
    • Gigio Alberti nel ruolo di Dr. Ratzenberger
    • Antonio Catania nel ruolo di Venditore di Paranoia
    • Ugo Conti nel ruolo di Turista Siciliano
    • Leonardo Gajo nel ruolo di Gaz-Gaz
    • Silvio Orlando nel ruolo di Receptionist Indiano
    • Paolo Rossi nel ruolo di Joker
    • Baskaran Pillai nel ruolo di Il Guru
    • Bebo Storti nel ruolo di Uomo in meditazione
    • Alessandro Cremona nel ruolo di Poliziotto
  • Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    All’interno del suggestivo documentario del 2009 intitolato Videocracy, diretto da Erik Gandini, emerge un’affascinante teoria espressa dal regista del Grande Fratello Fabio Calvi. Secondo Calvi, il flusso ininterrotto di immagini che pervade la televisione di Silvio Berlusconi (1936-2023) rappresenterebbe il riflesso stesso della sua personalità: una sorta di finestra sulla sua mente, sui suoi sogni, sulla sua visione del mondo.

    Jean Baudrillard, uno dei più influenti teorici della postmodernità, ci offre una visione straordinariamente critica e provocatoria del mondo contemporaneo. Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la realtà stessa è stata sostituita da simulacri, copie senza un originale autentico. La sua teoria mette in discussione il concetto di verità oggettiva e ci invita a considerare il mondo come una serie di rappresentazioni, di simulazioni che mascherano la realtà stessa. Questo specchio mediatico, dove donne dai tratti sinuosi ed estenuanti, ricchezze sfavillanti e opportunità senza fine prendono vita, si è rapidamente trasformato nell’immaginario collettivo degli italiani. Baudrillard sosteneva del resto che nel nostro mondo ipermediatizzato, i media e le immagini giocano un ruolo centrale nella costruzione della nostra percezione della realtà. Attraverso la proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, siamo immersi in un flusso incessante di immagini, informazioni e segni che ci pervadono. Tuttavia queste immagini non ci offrono una rappresentazione accurata della realtà, ma sono piuttosto una distorsione, una finzione che ci viene presentata come realtà (iperrealtà). Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la simulazione ha preso il sopravvento sulla realtà stessa.

    Per i giovani millennial, che hanno vissuto la loro infanzia immersi in programmi televisivi iconici come Bim Bum Bam e si sono abituati a donne che danzano in costumi succinti mentre cenano durante i game show serali, Berlusconi si è insinuato nella loro coscienza come un’incarnazione dei loro ricordi più cari.  Nel contesto un ipotetico affascinante romanzo cyberpunk, Videocracy ci permette di entrare nel mondo virtuale dei canali televisivi di Berlusconi e nei misteri che nasconde, prima ancora che quest’ultimo avesse una qualsiasi accezione di mondo virtuale dominato da internet. Svelerà le verità nascoste dietro le immagini e i suoni che hanno permeato le nostre vite, e seguiremo il percorso di un giovane ribelle che lotta per riportare la verità e la libertà nella società.

    Ho avuto modo di visionare questo discusso prodotto italo-svedese, del quale ho apprezzato lo stile documentaristico, mentre ho trovato realmente spiazzanti alcune sue parti (da film dell’orrore, in tutti i sensi). Non sono certo dalla parte dell’attuale presidente del consiglio: eppure, senza scadere ina affermazioni che potrebbero apparire qualunquiste, il punto è che guardando questo film si colpisce duramente un modo di pensare per intero (altro…)

  • Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    È uscito nei cinema il lungometraggio thriller d’esordio firmato Domenico Croce, girato sulla falsariga del sottogenere psicologico, e pervaso da curiose reminiscenze ai classici del genere e, cosa non da poco, con un sottotesto tecnologico tutt’altro che accessorio. Un lavoro per molti versi originale quanto semplice nella sua struttura, che sembra rifiutare l’effetto shock facile (troppo spesso banale scappatoia per accattivarsi il pubblico, o costruire serie TV pop) e si declina sulla tradizione del cinema di genere italiano, più ragionata e introspettiva. Un film che vale la pena, definitivamente, vedere almeno una volta nella vita e coglierne, in definitiva, ogni singola sfumatura.

    Il film è incentrato su un forte senso di claustrofobia, mood immarcescibile che pervade costantemente tutta la narrazione, e che racconta una singolare vicenda “di ogni giorno” scritta e sceneggiata da Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca. La sinossi assume tratti inusuali, rispetto alla media del genere, fin dal principio: il focus è infatti su una giovane protagonista, interpretata da Carolina Sala, rinchiusa da tempo indefinito nella propria camera.

    Vetro è un giallo zero-knowledge più classico che mai, quello in cui lo spettatore è catapultato nel mondo voluto dal regista senza complimenti, nè troppi preamboli. Non sappiamo perchè la ragazza si trovi lì, non conosciamo tantomeno il nome dei personaggi, non siamo nemmeno sicuri dell’ambientazione (Torino? Milano? …?), soprattutto non sappiamo di cosa abbia paura la ragazza. Nel frattempo la vediamo brancolare timidamente nella propria camera, in perenne ricerca di un qualcosa, di uno stimolo, di un perchè ad una vita, che sembra vivere isolata dal mondo esterno, in compagnia del solo padre. Padre che, di fatto, non appare per gran parte del film: sentiamo solo la sua voce, poi si affaccia dalla porticina del cane, rigorosamente chiusa a chiave dalla ragazza, giusto per portare da mangiare alla figlia, dialogando  amorevolmente con lei dietro una porta chiusa. Non sembra esserci verso di farle cambiare idea: quella porta non deve essere aperta, là fuori c’è qualcosa che la terrorizza. In questo scenario programmaticamente claustrofobico tutto potrebbe ancora essere, da una potenziale apocalisse in corso fino a eventuali morbose implicazioni relazionali.

    Non c’è tempo per rifletterci troppo durante la visione del film, peraltro, e – cercando di evitare spoiler che in questa circostanza potrebbero guastare parte della bellezza dell’opera -la narrazione si articola in due fasi ben distinte tra loro. Nella prima ci limitiamo ad entrare nella stanza (e nella vita) della diciassettenne protagonista, alle prese con quella che sembrerebbe una “ordinaria” crisi adolescenziale ed un rigetto verso il mondo esterno, forse a causa di un trauma regresso. Il film ci mostra il primo contatto coi social network della ragazza, la sua titubanza nell’iscrizione e la sua conoscenza (e frequentazione virtuale) in videochat con un ragazzo. Non è il mondo virtuale che conosciamo via Google e Facebook, per inciso: la scelta registica è quella di mostrarci motori di ricerca e piattaforme sociali inventate per l’occasione, con l’effetto di incrementare il senso di straniamento e concludere una prima sezione del film intrigante quanto forse, a ben vedere, un po’ prolissa. La seconda parte fa degenerare Vetro in un thriller onirico, anti-causale e vagamente simil-lynchiano, in cui la situazione è portata verso un’evoluzione psichedelica (uso e abuso di farmaci), fantasmatica e sempre più stringente, fino alla rivelazione ed al twist finale modello argentiano (Profondo rosso, peraltro, viene omaggiato da una specifica sequenza talmente evidente da provocare un sussulto nello spettatore, che sicuramente non passerà inosservata per quanto è azzaccata e liberatrice). Dopo aver visto il film sono abbastanza sicuro che non sarà difficile vedere nel personaggio della Sala una tragica, silente figura Femminile per eccellenza, un po’ anti-eroina un po’ scream queen, nella tradizione raccontata da autrici pluri-citate come Carol J. Clover.

    Nel disperato tentativo di capire cosa turbi così tanto la protagonista, tanto da far prefigurare allo spettatore apocalissi varie o eventuali nel mondo esterno, lo spettatore è messo davanti ad un’unico spiraglio di speranza: il talento per il disegno che caratterizza la protagonista, abile a disegnare fedelmente ciò che osserva, esasperato dall’essere alle prese con la manìa di spiare i vicini di casa dagli spiragli delle tapparelle della stanza, anch’esse tenute barricate. Un riferimento voyeuristico che non esprime solo una citazione al classico hitchcockiano di sempre (La finestra sul cortile), ma che diventa allegoria dell’utente qualunque, del popolo del web sui social network alle prese con lo sbirciare – e provare a ricostruire – le vite altrui.

    Non è un caso, a questo punto, che la protagonista sia una donna, una giovane donna in un universo popolato da quasi soli uomini, dove il proprio ruolo di vittima viene ribaltato da assunti sempre più spaventosi, in cui la lotta per la riscoperta del proprio Sè represso diventa causa di dolore, liberazione ed emancipazione. Sembra in altri termini la raffigurazione di un incubo cristallizzato, destinato a frantumarsi o a ricomporsi – lo stesso che abbiamo vissuto nei tempi più difficili della pandemia, quando il contatto con gli stessi consaguinei era limitato per motivi sanitari, ed in cui il “virus” questa volta è sociale, radicato nel nostro inconscio e, a questo punto, nell’intera società in cui ci pregiamo di vivere. Un incubo sconnesso in cui lo scenario è grottesco quanto paradossale, a volte onirico-psichedelico, e che non sembra un azzardo inquadrare come una raffigurazione dell’isolamento disagiato dell’individuo, così come una raffigurazione delle più atroci dipendenze da internet che affliggono tanti esseri umani sul pianeta.

    Come una novella protagonista di Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), la donna non può uscire dalla propria stanza, bloccata da una paura irrazionale del mondo esterno, che riesce quantomeno ad esorcizzare mediante originali disegni e ritratti, anche grazie all’amore incondizionato per un cagnolino, unico essere vivente ammesso in sua compresenza. Una fobia, la sua, realmente esistente e ben nota in psicologia, tipicamente curata da farmaci e percorsi di psicoterapia, e che si riconduce al fenomeno degli hikikomori, i giovani giapponesi che si isolano dalla vita sociale volontariamente, costruendo il proprio mondo esclusivo all’interno della propria stanza.

    Su Wikipedia italiana, peraltro, una frase impietosa (quanto forse troppo generalizzante) ne definisce il comportamento: uno dei motivi che spingono gli adolescenti giapponesi a isolarsi – si scrive – è la volontà di sfuggire al conformismo tipico della società giapponese. Se è davvero così, il fenomeno degli hikikomori diventa il dilemma di un qualsiasi giovane pronto ad inserirsi nella società, attratto dalle lusinghe del guadagno e del sesso facili, quanto respinto da individui ostili e organizzazioni gerarchiche quanto stereotipate. Insomma, è una delle più grandi tragedie psicotiche del nostro tempo, o poco ci manca perchè lo sia. Nel caso di Vetro questa motivazione non sembra reggere del tutto, e presenta un considerevole distacco narrativo da quella tradizione anime/manga (da cui, peraltro, sembrerebbe prendere ispirazione almeno in parte), in cui il ragazzino isolato era l’eroe del fumetto o cartone animato di turno: la protagonista assume semmai la valenza di un’eroina più smaccatamente sociologica, immersa in un mondo in cui non ha colpe e da cui, probabilmente, vorrebbe mantenere il distacco. È dopo aver considerato tutto questo che – forse – entra in gioco il vetro del titolo, non solo chiave di volta a livello narrativo ma anche simbolo della psicologia della protagonista, fragile e tagliente al tempo stesso, trasparente quanto potenzialmente dannosa una volta fracassato.

    Per un thriller d’esordio, a conti fatti, tutto questo ci piace molto e, al netto di qualche momento di stanca ravvisabile soprattutto nella prima metà del film, la missione potrà dirsi compiuta. E molti di noi, speriamo per molto tempo, continueranno a vedere, amare e discutere Vetro. Un film italiano autentico e terrorizzante (soprattutto negli intensi, quanto improvvisi, minuti finali) di cui, sballottati come sempre tra improbabili reboot e terrificanti rehash delle medesime trame da quasi cento anni, avevamo bisogno.

  • Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Da sempre attento alle evoluzioni delle nuove tecnologie, agli effetti della macchina sull’uomo e sul suo comportamento sociale, in molti suoi film David Cronenberg ha analizzato (secondo i canoni dell’estetica cyber-punk, per quello che riguarda la prima produzione) il rapporto tra scienza e umanità.

    Un rapporto ancora oggi attualissimo, è destinato a modificare i nostri modelli di comportamento, sopprimendo ogni istinto primordiale a vantaggio di un’esistenza regolamentata da tempi di produzione, scadenziari elettronici, in definitiva: un copione prestabilito. Ed il punto cruciale sta proprio in questo: il regista si guarda bene dal demonizzare la tecnologia, piuttosto mostra di volerla conoscere a fondo, mentre l’incubo di un condizionamento totale nell’agire quotidiano aleggia su di lui. E, alla lunga, dal 1983 (anno di uscita del film) su di noi.

    Io penso che noi crediamo che la nostra vita sia fisicamente relativamente stabile, ma non lo è. Il nostro corpo è un uragano: muta costantemente, è solo un’illusione che si tratti dello stesso corpo da un momento all’altro. Per questo diventa ancora più urgente la questione dell’identità. (D. Cronenberg, intervista con Enrico Ghezzi, 1988)

    Se c’è una cosa che è vitale in Cronenberg, del resto, e che testimonia il suo non-essere tecnofobo, è l’atteggiamento è l’ossessione per il corpo umano. Sullo schermo, mentre il film va avanti, vediamo un orrore certamente schizofrenico ed allucinatorio, ma al tempo stesso tangibile, intrinseco nella carne umana. Un orrore che potrebbe stare a metà tra la della rivolta dei cadaveri di Romero e la fusione uomo-macchina di Tetsuo. Videodrome rappresenta probabilmente la massima espressione della poetica del regista canadese.

    La tecnologia, simbolo stereotipato del progresso e dell’evoluzione umana, arriva a fondersi nella pelle, diventa tutt’uno con l’intero uomo e le sue illusorie certezze di conoscenza assoluta. Il direttore della stazione televisiva Canale 83 (Max Renn, aka James Woods) è un uomo cinico e convinto di sapere dove sta andando. Le sue certezze, le sue convinzioni, il suo stesso scetticismo verso il tubo catodico (afferma più volte di non credere a ciò che vede sullo schermo) viene smontato dal peggiore degli incubi. In esso non esiste più umanità, non esiste alcun contatto fisico e corporale, esiste soltanto una realtà virtuale che ci lobotomizza e ci riduce a numeri per il grande schermo.

    Quello spettacolo di morte, quello “snuff” realizzato con pochissimi mezzi, quella rappresentazione pura di violenza non è altro che una metafora della sua stessa vita. Pessimisticamente, della vita di un numero crescente di noi. La stessa sessualità, prima vissuta da Max con gelida indifferenza, diventa uno strumento di dipendenza e di morte progressiva, scandita dall’illuminazione di un tubo catodico.

    Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion)

    Il professor O’ Blivion (nomen omen dichiaratamente riferito alla condizione di essere completamente dimenticato, ovvero spersonalizzato) dichiara apertamente, a circa metà del film, il manifesto di Videodrome: il potere di controllo delle menti si esplica nel momento in cui la televisione impone la propria realtà. Se il tubo catodico mostra violenza, non fa che pubblicizzare un lato oscuro dell’animo umano, ovvero quello puramente distruttivo represso da un’apparente civilizzazione. Per cui non è colpa della televisione se viviamo nella violenza: semmai è un mezzo che mostra e ci ricorda le nostre ossessioni primordiali. Con risultati spesso devastanti.

    Ultimo punto fondamentale è il disorientamento in cui vive il protagonista dopo la prima visione dello snuff-movie: la portata delle immagini è talmente pesante che invece di esserne turbato e cercare qualcosa di edulcorato, si abbandona a fantasie erotiche sado-masochistiche, immagina di fare sesso nella stanza delle torture appena vista, ivi sogna di somministrare dolore fisico alla propria compagna. Più semplicemente, non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, il pensiero dall’azione. E poi, di quale realtà si parla se non quella percepita dai sensi? Quella realtà tremendamente soggettiva che egli riconosce fin troppo bene, ma che (tragicamente) non sempre gli altri sembrano disposti a comprendere. Da qui nasce un paradosso che vede da una parte l’alienazione totale dell’individuo, che vive isolato e, per riprendere un’immagine cara ad una certa sci-fi, con dei televisori al posto della testa.

    Nell’epoca del Grande Fratello, scimmiottato periodicamente in terrificanti programmi televisivi in cui “persino” dei personaggi di spettacolo mostrano la propria corporeità, la poetica di Cronenberg suona ancora attuale. La stessa idea di socialità, di sessualità, il modello comportamente imposto alla massa è oggi scandito dalla televisione e dalle mostruosità che rivela giorno dopo giorno. E si tratta di uno spettacolo che dovrebbe essere vicino alla vita di tutti noi, in cui ognuno di noi dovrebbe (secondo la volontà dei produttori) riconoscersi. Un modello di omologazione culturale che distrugge mentalmente ogni individuo e soffoca la sua stessa sessualità in agglomerati illusori di pixel.

    Avviso: da qui in poi contiene parti rivelatrici (o spoiler) del film.

    Cronenberg è stato ospite al Festival di Roma (ottobre 2008), dichiarando:

    noi esseri umani siamo solo animali che si immaginano e hanno il desiderio di diventare diversi da quello che sono. Per far sì che ciò si realizzi ricorriamo alla religione, alla cultura. Mi interessa moltissimo questa forma di trascendenza, questo desiderio dell’essere umano di andare al di là di se stesso. Pur non programmandolo, finisco per parlarne in tutti i miei film“.

    Le sue parole contengono, a mio avviso, molte verità su Videodrome. La fragilità di Max Reinn appare nella sua completezza: cinico e spietato all’inizio, fragile e insicuro della sua realtà a causa di un segnale televisivo che lo aggredisce mentalmente. Tale “aggressione mentale” intesa come manipolazione è anche alla base di uno dei primi lavori del regista, Scanners.

    Il discorso su Videodrome visto in precedenza merita così di essere continuato. Perchè credo che sia necessario premettere, oltre che puntualizzare (per chi non avesse mai visto l’opera), cosa non è Videodrome. Questo film non è semplice exploitation per attrarre pubblico morboso e curioso, nè si limita ad usare lo splatter (presente per la verità in piccole dosi) come forma artistica che mostra

    la debolezza del corpo umano soprattutto in un momento storico, gli anni ottanta, in cui la perfezione fisica e l’edonismo erano considerati simboli di scalata sociale” (R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti).

    Videodrome non si limita a mostrare la debolezza di chi ricorre alla violenza estrema per soddisfare le proprie inibizioni e frustrazioni. Anche se il discorso, come già ne “Il demone sotto la pelle“, è di natura sessuale e tocca un tabù di oggi, peraltro, come la sessuofobìa. Per quanto verità inconfessabile, infatti, tantissima gente è attratta e spaventata dal sesso, per via della paura dell’altro, dell’incertezza, del timore di rimanerne feriti o coinvolti in un’altalena emotiva che diventa logorante per alcuni di noi. Viene in mente il feticcio ballardiano del successivo film Crash, in cui sono le automobili (simbolo della rivoluzione industriale) a diventare l’unico mezzo per eccitarsi.

    Videodrome del resto vuole mettere in crisi il modello comunicativo imposto dai mass-media, mette a nudo i pericoli insiti nell’utilizzo del tubo catodico che rischia di diventare una vera e propria arma di manipolazione di massa. Un rischio che potrebbe (teoricamente) essere evitato affidandoci ad un senso critico che deriva direttamente dai nostri organi, ma che il cupo pessimismo del regista rende utopico. Il tutto, pero’, senza degenerare in una paranoia immotivata verso la tecnologia.

    Cronenberg sa bene di cosa parla nei suoi film: ed è grande la sua capacità di inventare “tecnologia che si ibrida” col corpo umano in modo tanto credibile da spaventare di per sè senza mostrare nient’altro. Questo grazie al suo piglio diretto, sistematico nella sua follìa, ma soprattutto razionalista, correttamente informato su tubo catodico, emissione di segnali audio/video e, in futuro, pod da collegare direttamente al cervello (“eXistenZ“).

    Max Renn non diventa altro che un videoregistratore programmabile, che viene letteralmente inseminato da Videodrome attraverso l’orefizio vaginale del suo ventre e programmato come “video-parola fatta carne”. Nel finale proclama con freddezza “gloria e vita alla nuova carne” e si suicida dopo aver visto sè stesso farlo in TV: un’atto di emulazione che ricorda il paradosso di O’Blivion citato all’inizio: la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.

  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.

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