PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Un ragazzino e una giovane donna si recano nel bosco, al fine di scavare una fossa che possa condurli direttamente all’inferno: l’idea è far vedere per l’ultima volta al giovane Nathan il suo cane, Maxine, morto qualche tempo prima. Antrum rappresenta il mockumentary in questione, risalente a fine anni 70, il quale esamina amabilmente, ancora una volta, la potenza orrorifica della narrazione realistica.

    In breve. Mockumentary sulfureo e sinistro come pochi, costruisce un’atmosfera impagabilmente tesa, pur mostrando un impianto semplice e relativamente lineare. Cosa ancora più interessante, si muove su un duplice livello interpretativo (sovrannaturale vs. realistico).

    Lanciato da una tagline fulminante e a suo modo geniale (“c’è un motivo per cui non hai mai visto Antrum: se l’avessi fatto, saresti morto“), Antrum (un mockumentary del 2018 della Else Films) prefigura l’idea stessa del film maledetto, la classica fissazione da cinefili incalliti, alla perenne ricerca di pseudo-snuff introvabili, inediti o tanto cruenti da essere messi al bando.

    Scritto sapientemente dalla coppia di registi David Amito e Michael Laicini, Antrum ci introduce nella storia sfruttando un doppio livello narrativo: da un lato un horror low budget che racconta la storia di un ragazzino e della sorella a contatto con dei demoni, dall’altro dei ricercatori ed organizzatori di festival horror che ne riferiscono la minaccia per l’incolumità del pubblico. Se i presupposti sono sulla falsariga della strega di Blair, la sostanza cambia parecchio: Antrum è corposo, sostanziale e minaccioso, permeato come è da un’aura di tensione costante. Gli sguardi dei protagonisti, spesso persi nel vuoto e nell’indefinito, hanno un che di esoterico e “preoccupano” lo spettatore, che spesso non capisce realmente cosa stia succedendo. Un gioco di equilibri importante che rende l’opera a mio avviso superiore di qualità a quella dei numerosi film analoghi su questa falsariga.

    Prima di passare alla parte sostanziale dell’intreccio, vediamo una breve premessa: essa è atta a raccontarci le cose orribili accadute a quasi tutti coloro che hanno visto – o si sono interessati al film, per poi passare ad un avviso con la più classica delle declinazioni di responsabilità. Lo aveva già fatto Wes Craven con L’ultima casa a sinistra, peraltro già allora accarezzando il mood degli snuff (gli horror reali o realistici che mostrerebbero vere morti, pubbliche esecuzioni e via dicendo) pur senza scomodare i formalismi legali che introduccono Antrum. A testimonianza di un linguaggio che, per evidente fame di iperrealismo, ha finito per adeguarsi ai tempi che corrono, anche a scopo di sembrare francamente esagerato. Un film tanto maledetto da essere un “assassino di pubblico” è un’idea perfetta per un horror memorabile, anche se non certo una novità assoluta, dato che è stata già sviscerata da piccoli capolavori quali The last horror movie, ad esempio, ma anche – qualche anno prima – da Cigarette Burns di John Carpenter (in cui si narrava della pellicola dannata “La Fin Absolute du Monde“, proiettato una sola volta e seguìto da un raptus omicida che aveva colto gran parte del pubblico).

    Certo, non è un invito a continuare allegramente la visione ma, al tempo stesso, diventa un’operazione di accattivante narrativa degna del miglior scrittore horror.

    A conferma di un certo gusto esotico da parte dei registi David Amito e Michael Laicini, i titoli di testa sono parzialmente in carattere cirillico, quasi a voler disorientare il pubblico, o magari impedirgli di effettuare ricerche “di sgamo” su Google durante la visione del film stesso. Tutto sembra iniziare a fine anni 80, quando il film è stato proiettato per la prima volta a Budapest, provocando l’incendio del cinema e 56 morti. In seguito, molti produttori e promoter di festival del cinema che lo avevano visionato avrebbero subito la stessa sorte, senza contare una sorta di delirio collettivo (la spiegazione in questo caso è razionale: il proprietario del cinema avrebbe inspiegabilmente sciolto pasticche di LSD nel burro per friggere i popcorn, circostanza che non può che richiamare Climax di Gaspar Noè).

    Quando poi inizia il film vero e proprio – di cui abbiamo visto la cornice narrativa che ne fa da premessa – sembra di tuffarsi realmente nel cinema horror anni ’70: la grana della pellicola è consumata, sembra realmente un film di 30 o 40 anni fa ed è un espediente che richiama film underground come The last house on dead end street oppure, meglio ancora, il filone satanico dell’epoca che viene omaggiato, ad esempio, da The house of the devil. C’è anche da notare che, dopo aver visto il film per intero, possiamo considerare i demoni sia in senso letterale (e ciò rende Antrum un horror sovrannaturale di grandissimo livello) sia, volendo, in senso figurato (ed in questo caso abbiamo comunque visto un film che omaggia una tradizione exploitation simboleggiata dai due grotteschi cannibali e dai sacrifici umani che sono soliti perpetrare).

    La narrazione è complessa ed è in realtà strutturata in vari strati, che dovrebbero corrispondere con i gironi infernali di dantesca memoria, che i due protagonisti scoprono scavando una fossa sempre più profonda. A quel punto, come in un spettacolo di teatro sperimentale (o come in Dogville di Lars Von Trier) la foresta diventa un non-luogo privo di dimensioni e riferimenti temporali, in cui non esistono muri separatori o non sembra succedere mai nulla – quando invece, nella realtà, si tratta di un universo parallelo popolato di non morti, demoni ed altre creature non identificabili.

    Altri elementi della storia vivono di non sequitur, sono tutt’altro che ovvi oppure, ancora, probabilmente pregni di simbologia che i soliti fan, come spesso accade, potranno divertirsi a sviscerare o interpretare: ad esempio, quando nella foresta compare – un po’ dal nulla, apparentemente – un uomo dai tratti orientali, che sta per eseguire un suicidio rituale tipico dei samurai (un seppuku). Si gioca anche molto con le suggestioni, dato che molti personaggi sono ombre che si muovono nell’oscurità, e non sempre esiste un approfondimento in merito.

    Che cos’è Antrum?

    Seguendo la trama del film, “Antrum” è il nome di un presunto lungometraggio maledetto girato negli anni ’70, circostanza ovviamente inventata dai registi nonchè sulla falsariga della campagna viral che aveva lanciato il primo film sulla strega di Blair. Ma a differenza del cult dei primi anni duemila che, rivisto oggi, lascia poco più di una sensazione di camera traballante, in Antrum è tutto tremendamente ordinato, una sorta di caos calmo che non aspetta altro se non svelarsi in tutto il proprio orrore: nulla è casuale, dal cadavere inquadrato quasi accidentalmente alla comparsa di un demone in forma di scoiattolo.

    Le urban legend che circondano questo lavoro – che non sono troppo difformi da quelle che, ad esempio, sono legate alle disgrazie avvenute a chi aveva lavorato al film The Omen –  insistono ossessivamente sull’idea che si tratti di un film maledetto, e che chiunque abbia osato guardarlo sia destinato a morire (idea identica, peraltro, a quella della videocassetta della saga di The Ring).

    Cosa sono i fotogrammi in bianco e nero che si intravedono in alcuni momenti del film?

    Sempre nell’ambito delle leggende urbane resta da considerare l’inserimento di alcuni frame in bianco e nero che intervallano la visione del film: in uno, ad esempio, si intuisce la presenza di due persone che urlano mentre vengono torturate (a prima vista sembra che si trovino in una sorta di mattatoio), in un altro si vede il viso di un demone inespressivo, in primo piano, che muove gli occhi e sembra fissare il pubblico. Verso la fine del film, le due persone sembrano prima abbracciarsi, poi urlare esasperate forse in vista di una potenziale liberazione. In seguito, le vediamo sdraiate, e non vediamo mai il loro aguzzino (cosa che suggerisce possa trattarsi di uno snuff, cosa che pero’ sembrerebbe piuttosto scollegata con il resto della trama).

    Frammenti di un altro film? Allucinazioni? Fino a qualche anno fa si discuteva della presenza di fotogrammi occulti o satanici all’interno di vari film Disney, da Bianca e Bernie a Chi ha incastrato Roger Rabbit, e che plausibilmente furono quasi tutti Easter egg (sorprese fuori contesto, collocate non ufficialmente dai creativi al lavoro sul film). Riportare questa dimensione in un horror è un’idea molto funzionale, così come inframezzarlo con quello che potrebbero essere (tiriamo ad indovinare, visto che non ci sono risposte definitive) frammenti di un film snuff, anime dannate presenti all’interno dei vari gironi o semplici allucinazioni che vivono i protagonisti durante il proprio viaggio.

    Cosa c’è scritto nelle scritte che passano rapidamente in sovraimpressione?

    Oltre ai frammenti in bianco e nero, vediamo anche delle scritte scorrere rapidamente. Alcune di esse sono al contrario (come in uno specchio), altre nel verso corretto, ma passano troppo rapidamente perchè si possa vedere qualcosa. In alcuni casi, vediamo un simbolo del pentacolo, verso la fine un triangolo rovesciato: il primo è il simbolo del demone Astaroth, mentre il triangolo è molto più ambivalente e sembra chiara la sua natura occulta di “evocatore”.

    Si tratta di elementi che alimentano la suggestione del film, e dal carattere fortemente caratterizzante.

    La storia di Nathan e Oralee

    Nell’introduzione e nella conclusione del film vediamo riprese moderne, da documentario, che ci raccontano quello che dovremmo sapere sul film; si tratta di una sorta di meta-introduzione all’argomento. Nella storia vera e propria il registro visuale cambia del tutto e, da digitale, diventa quello di una pellicola da 35mm anni ’70. Un bambino rimane traumatizzato dalla morte del proprio cane, e la sorella (in seguito ai suoi frequenti incubi) decide di organizzargli una grottesca “gita all’inferno” per farglielo rivedere. Proprio questa disinvoltura di fondo, nonchè abile giustapposizione tra l’innocenza del piccolo Nathan e l’ambiguità della sorella Oralee, crea i presupposti per innalzare la tensione, soprattutto per l’ordinarietà con cui effettuano i rituali, con tanto di grimorio e di una conoscenza di quel mondo evidentemente regressa.

    Cosa ancora più inquietante, non si riesce subito a capire – anche se poi col tempo forse lo intuiremo – se Oralee stia agendo con effettiva convinzione, per aiutare il fratello ad esorcizzare il trauma o, al limite, per entrambi i motivi. Dalla colonna sonora in stile Goblin, poi, emerge un riferimento ben preciso all’epoca d’oro del cinema di Bava, Fulci ed Argento, mentre una certa dissonanza psichedelica sembra implicitamente fare riferimento al mondo del satanismo e della demonologia.

    Inquadrare il contesto di un film di genere, motivo per cui ho dovuto fare una infinita sfilza di premesse, è fondamentale per non banalizzarne l’atmosfera e godersene ogni singolo frame: perchè questo è uno di quegli horror che va dritto al cuore degli orrorofili più incalliti o disillusi, quelli convinti che gli horror di oggi non facciano più paura  – cosa falsa, peraltro, perchè per fortuna – anche grazie agli emergenti servizi di streaming – le distribuzioni horror sono sempre più online e sempre più capillari.

    Tutto questo, ovviamente, con tutte le rielaborazioni derivate dai precedenti dello stesso genere, che vanno da The Blair Witch Project a Cannibal Holocaust, passando per The war game, ovviamente in chiave satanica e con evidenti richiami ad un orrore che, in media, è più “di parola” che visuale. Una tradizione di falso-documentario che, anche in questo caso, ci tiene a rendersi credibile a ogni costo (e Antrum non fa eccezione), arrivando a “minacciare” virtualmente lo spettatore, pena che l’intero impianto risulti risibile.

    Per questo, e per un finale apertissimo e sopra le righe, Antrum è promosso a pieni voti.

    Spiegazione del finale

    Merita qualche parola il finale, che in realtà è un doppio (se non un triplo) finale, aperto ad innumerevoli interpretazioni, per quanto basti vederlo per trovare la risposta ad almeno una parte degli interrogativi. Seguendo la falsariga dell’analisi di un film come Il gabinetto del dottor Caligari e, direi soprattutto, Omen Il presagio, ho deciso di trarre un po’ di considerazioni secondo me importanti. Bisogna secondo me partire da qualche minuto prima, per entrare correttamente nel mood di queste considerazioni.

    Come nel capolavoro espressionista di Weine, secondo me ci sono almeno due livelli interpretativi: nel cult in questione c’erano una storia realmente accaduta, e poi i deliri immaginati da alcuni pazienti di un ospedale psichiatrico. Una cosa non esclude l’altra, questa è la cosa affascinante – ed è esattamente quello che succede in Antrum: Oralee sembra aver individuato un trauma che preoccupa il giovane fratello Nathan, e decide di applicare una sorta di “terapia d’urto” per fargli superare il dolore per la perdita del cane. Il viaggio, peraltro, è suggestivo e vorrebbe essere fonte di distrazione e svago per Nathan, ma le cose sembrano sfuggire di mano, istante dopo istante. Viene più volte il dubbio, in effetti, che il viaggio nell’aldilà infernale sia effettivo, e non semplicemente un gioco immaginato dai due protagonisti (il riferimento alla parola “gioco”, peraltro, è anche presente nello spiegone conclusivo). I due personaggi, peraltro, non sembrano poter più uscire dal bosco una volta entrati, dato che hanno preso una barca, poi hanno camminato a lungo verso casa – salvo ritrovarsi con orrore nel punto di partenza (situazione tipica di molti horror surrealisti e concettuali).

    Per tutto il film vediamo un’escursione in un territorio che, a giudicare dal comportamento di Oralee, dovrebbe conoscere bene: questa confidenza col bosco, unita ad una sostanziale destrezza nel campeggio e l’essere l’adulta della situazione, potrebbe anche suggerire una certa familiarità ambigua con i rituali satanici e con l’evocazione di demoni, tant’è che siamo in un non-luogo e lei stessa ammetterà che il grimorio lo aveva scritto ed illustrato da sola. Sembra quasi che i protagonisti giochino con il mondo occulto – fin quando è possibile farlo in modo relativamente sicuro, nelle loro intenzioni – anche se poi la protagonista diventa molto lucida quando avverte un pericolo reale (i due cannibali che li catturano).

    Nathan, dal canto suo, è un topos cinematografico ben noto: è infatti molto simile al pacato e sinistro Damien di The Omen, i suoi silenzi ed il suo guardarsi attorno sono quasi sovrapponibili e – soprattutto – poco prima della scritta The End lo vediamo sorridere alla camera, non sappiamo se rivolto alla sorella, agli spettatori, al proprio cane finalmente ritrovato o a qualche altra presenza oscura. Il finale del cult di Richard Donner era ambiguo, conteneva anch’esso un sorriso alla camera da parte del bambino e, probabilmente in modo incidentale, anche in quel caso era stato appena ucciso qualcuno con un colpo di pistola (l’ambasciatore nell’uno, il cannibale nell’altro). In entrambi i film, non abbiamo un’idea netta su chi sia davvero il bambino, se abbia natura umana o sovrannaturale e quali conseguenze ciò potrà avere.

    Il sorriso alla camera sarebbero stato il finale aperto perfetto – ed io stesso ero convinto, sulle prime, che fosse finita lì. Ma c’è di più, perchè Antrum contiene un duplice finale: vediamo ora la fine della storia questa volta dal punto di vista di Oralee, mentre corre nel bosco per raggiungere il fratello. Si rende conto, quindi, di essere circondata da vari demoni mimetizzati tra gli alberi, probabilmente infastiditi dal mancato sacrificio avvenuto poco prima.

    Non sembra esserci modo di scacciarli, tant’è che ha perso il cerchio magico che utilizzava per proteggersi (glielo hanno smantellato i due cannibali), e non le resta a questo punto che bruciare il grimorio. Questo non la preserva da una sorta di follia finale: si rintana nella tenda, in attesa dell’arrivo di Nathan. Non vediamo se lo sparerà o meno, ma sentiamo il colpo e poi finisce il film, questa volta sul serio. La necessità di un doppio finale, in effetti, sembra più dettata da un omaggio che ad altro (i doppi finali sono tipici del cinema horror classico a qualsiasi latitudine), anche se rimane suggestiva l’ipotesi che Nathan sia ormai controllato da uno dei demoni (a cui, a questo punto, avrebbe sorriso). Interessante anche pensare che si tratti di una sorta di extra che i registi stessi siano stati “spinti” a girare, in nome di un Male che tenderebbe nichilisticamente a sopraffarci (che è un po’ lo spirito con cui è stata girato, ad esempio, Morituris). È anche l’unica spiegazione al fatto che decida di compiere questo gesto, che stando alla stretta logica è inspiegabile mentre, nel vortice delle suggestioni di cui è avvolto il film, potrebbe avere più di una valenza.

    Le considerazioni conclusive sono meta-filmiche ancora una volta, e svelano alcuni simbolismi usati nella pellicola. Non viene detto nulla, curiosamente, dei frammenti pseudo-snuff (forse per accattivare il pubblico), ma si conclude il cerchio con una serie di riflessioni incentrate sui simboli, su alcuni dettagli del film e sul potere della ritualità e della credenza, autentico motore in grado di suscitare le più disparate emozioni umane, incluse quelle mortali.

  • La sirenetta sovietica ci invitava a vedere le cose da due punti di vista diversi

    Di fronte a voi, signore e signori, la famosa sirenetta! Il modo in cui è stata scritta dal grande Hans Christian Andersen in una storia d’amore. Sì, signore e signori, ai bei vecchi tempi di Christian l’amore esisteva ancora. Queste stupide persone pensano che l’amore esista, e le sirene no! Ma io e te sappiamo che è l’esatto contrario! L’amore non esiste e le sirene sì.

    E tu sei pro o contro? Con noi o contro di noi? SDalla parte di X o di X primo?

    Sui social è sempre più comune imbattersi nel tipo di discussione polarizzante descritto, tra i primi, dai ricercatori Quattrociocchi/Vicini nel saggio Misinformation: già nel 2016, infatti, gli autori avevano colto le contraddizioni che portano alla formazione di opinioni (e alla fruzione di informazioni) da parte degli utenti di Facebook, Twitter e Youtube. Sono in gioco dinamiche del contagio e dell’influenza sociale, alimentando meccanismi per cui l’individuo forma la propria convinzione a prescindere dai fatti e facendosi condizionare dalla maggioranza .

    Gli autori avevano osservato che ogni discussione sui social, dati alla mano, tendeva a polarizzare le opinioni in modo binario, creando “tribù” di “pro” e “contro”, a prescindere dall’argomento di discussione, spingendosi a sostenere che il debunking non sia troppo utile alla causa, dato che le community su internet tendono finalmente a radicalizzare le opinioni (mentre chi legge una notizia antibufala su un fatto di cui è convinto finirà, in molti casi, per non cambiare idea, o addirittura esacerbare la fake news).

    La sirenetta ha cambiato colore (e non va bene?)

    Le discussioni su La sirenetta a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi erano un coacervo di presunta cancel culture, di culturina da 4chan, di atteggiamenti boomer e di grottesco allarmismo sociale. Del resto finivano per essere pilotate da persone autenticamente razziste – tanto razziste da porsi il problema (!) che un personaggio immaginario (!) fosse di colore, nel tentativo disperato di aizzare la folla e spingere ad un improbabile boicottaggio. Alle piattaforme social tutto questo è andato benissimo: è stata una garanzia di visualizzazioni e sponsorizzate, e poco importava che fosse una fiera contrapposizione tra democratici e repubblicani, tra razzisti vs antirazzisti, tra disneyani puri e disneyani revisionisti. Il tutto ha confermato il quadro binario “noi contro di voi, comunque vada” delineato in Misinformation. Questo genere di contrapposizione non è servita veramente nessun altro se non a sopravvivere della piattaforma stessa, un boicottaggio virtuale che è rimasto tale e che, al netto di titoli clickbait da cui siamo stati assilati per me, è servito solo a rimpolpare le casse delle aziende che hanno creato i social su cui quel “dibattito” avveniva.

    (Non) Mettere il lieto fine

    Quando uscì La sirenetta di Ron Clements e John Musker nel 1989 venne sancita la rinascita della Disney, tanto per restare in tema di rinascita per una multinazionale. All’epoca dell’uscita fu un gran vociare di recensioni positive, sia da parte della critica che del pubblico, e tutti si lasciarono incantare da quel film favolistico, spensierato e innovativo. E se nemmeno Roger Ebert ebbe nulla da obiettare a questo lavoro, le polemiche moraliste sulle presunte forme falliche tra le torri del castello, sulla prima copertina, si spensero progressivamente negli anni.

    Eppure quella versione de La sirenetta aveva un vero difetto, tutt’altro che urban legend: riusciva nell’impresa di perdersi sul finale dato che il soggetto era stato cambiato arbitrariamente, e fatto divenire puramente disneyano: la conclusione originale di Hans Christian Andersen venne rimpiazzata dal matrimonio della sirenetta con il principe (il che assume una valenza involontariamente grottesca se pensiamo alle accuse di aver rappresentato il prete che celebra quel matrimonio con una presunta erezione). Non sono mancate altre versioni della storia, che giocano con lo stesso mito della sirenetta e lo modernizzano e/o lo rielaborando in un altro paio di modi diversi. L’imposizione della regia, in questi casi, si colloca esattamente tra la scelta del finale originale (per “puristi”) e quella dell’happy end (per fan della Disney), e non è difficile immaginare qualche polemichella anche lì, nascosta nei social in qualche gruppo tematico, con qualche genitore indignato per il finale “cattivo”, con accuse di avergli traumatizzato i figli (la gente muore ma i bambini non devono saperlo: qualcuno salvi i bambini!) o in alternativa con il puro disincanto con cui tutti, generazione dopo generazione, abbiamo visto La sirenetta almeno una volta nella vita.

    L’opera originale del 1837

    La storia de La sirenetta venne scritta dal famoso scrittore danese Hans Christian Andersen, con titolo originale “Den lille Havfrue“: era il 1837, e Andersen si trovava nella condizione dolorosa dell’amante respinto, tragicamente accentuata dalla sua omosessualità. La sirenetta che perde la voce e non può parlare col principe (che così facendo alla fine non potrà innamorarsi di lei), finisce per essere un’allegoria dello stato d’animo dell’autore, cosa a cui il cinema non sempre ha reso giustizia.

    La risacca batte contro le rocce nere

    La vita è dura per gli umani, questa lotta eterna.

    Ma credo che, goccia dopo goccia, la tua vitalità tornerà,

    la prima goccia sarà la forza,

    la seconda sarà la gioia.

    Il bello non deve perire,

    il coraggioso non deve perire.

    Non dovrebbero, non dovrebbero morire.

    (La Sirenetta – regia di. Ivan Aksenchuk, 1968)

    Di più: il finale di Anderson era poetico quanto ambiguo, quasi dai tratti misticheggianti – e se è vero che la protagonista diventa schiuma di mare, al tempo stesso sopravvive come presenza eterea, destinata a diventare una prefigurazione dell’amore impossibile (quello vissuto dall’autore) da tramandare ai posteri. Non siamo poi così sicuri che si tratti veramente di una storia per bambini, se alimentiamo tale prospettiva parallattica. Perchè di parallasse si tratta, in particolare nel finale della versione sovietica del 1968 dell’opera, diretta da Ivan Aksenchuk e che propone due possibili interpretazioni dello stesso finale, che rimane sostanzialmente aperto.

    Che cos’è la parallasse

    Al fine di descrivere il funzionamento delle elezioni,  il filosofo sloveno Slavoj Žižek ricorre al concetto (mutuato dalla psicoanalisi di Lacan) di parallasse – la differenza tra ciò che crediamo o sappiamo su qualcosa e ciò che effettivamente accade. La spaccatura indotta dalla parallasse è lampante, ad esempio, quando un politico fa delle promesse in campagna elettorale salgo agire in maniera diversa una volta eletto. Žižek sottolinea più volte – il libro più completo che ne se ne interessa è La visione di parallasse – che la parallasse è una condizione costante, ineludibile,  che caratterizza la nostra esperienza soggettiva del mondo. Una volta si sarebbe detto: guardare oltre le apparenze, liberarsi della patina inibitoria dei nostri pregiudizi, rifiutando il costante obbligo a partecipare a discussioni stantìe e autocelebrative sui social, dove la realtà è 0 oppure 1 senza possibilità di sfumature e dove, naturalmente, lo zero è in lotta con l’uno.

    Rusalochka e il finale “doppio”

    Rusalochka è la versione de La sirenetta prodotta nell’allora URSS, anno 1968: dura appena 27 minuti, un nulla a confronto della versione disneyiana di fine anni 80 (che dura 1 ora e 22 minuti) e del revival in forma di musical del 2023 (che ne dura più di due).  L’opera è relativamente facile da reperire in rete, in Italia è comparsa come parte di un episodio nella serie Fiabe da terre lontane, distribuito dalla Avo Film nel DVD “La pentola magica“. Molto è stato scritto sul cinema di animazione russo di quegli anni, ed è interessante osservare che la narrazione prevede un finale doppio.

    Le opere brevi sono spesso difficili da decifrare, ma offrono l’enorme vantaggio di lasciare spazio alle riflessioni del pubblico: cosa che non succede con le serie TV e con le opere più lunghe di una certa durata, che molti casi tendono a dire tutto e a non lasciare spazio a possibilità ulteriori, doppi finali. Las viene spesso soppressa dalle opere più monumentali, e le varie fan theory che circolano per alcuni di questi lavori possono rientrare in una tentata visione parallattica (la nota fan theory su Mamma ho perso l’aereo, ad esempio).

    Il punto del finale aperto è cruciale: la parallasse del resto non nasconde verità segrete che sono note solo agli adepti (come avviene nelle teorie del complotto classiche), tantomeno invita a conformarsi alla visione più comune (come tende a fare il più delle volte implicitamente la cultura mainstream), ma invita ad oscillare, a saper accogliere punti di vista differenti dal proprio e discuterli, a vedere al di là dello spiraglio che ci propone una visione a prima vista di qualcosa. Da un lato, quindi, c’è il punto di vista dei pesci: la sirenetta è stata un’ingenua che sarebbe dovuta rimanere al proprio posto. Dall’altro, c’è la rivalutazione postuma da parte dei visitatori della statua a Copenaghen: questa storia non conosce confini, ed è la storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza.

    E così, figli miei, è così che finisce la storia. La sciocca sirena voleva diventare un essere umano, ma come si suol dire, tutti dovrebbero conoscere il proprio posto (considerazione dei pesci).

    Questa, signore e signori, è una storia molto dolorosa,.triste, ma bellissima, una storia d’amore che non conosce confini. La storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza. (considerazione della guida turistica)

    La versione russa de “La sirenetta” si distingue per la sua straordinaria animazione tradizionale. Gli animatori hanno saputo catturare l’essenza magica del mondo sottomarino, creando una serie di personaggi e scenari incantevoli. Ogni dettaglio è stato curato con grande precisione, dalle sfumature dei colori all’incantevole coreografia dei movimenti dei personaggi.

    E poi, quante possibilità avremmo di diffondere questa storia sui social e suscitare la polarizzazione da parte degli utenti di cui sopra?

  • Horror Hospital: il diario proibito di un collegio femminile

    Sintesi: un chirurgo pazzo sottomette alla propria volontà, con l’inganno di una vacanza rilassante, orde di hippy flaccidi. Ed un po’ rincoglioniti. E ricordate di lavare sempre i denti…

    In sintesi: mediocre prodotto settantiano, senza infamia e con pochissima lode. Questo è un film proveniente dagli anni ’70 che vede la partecipazione di Michael Gough nella parte del diabolico (?) Dottor Storm. E gli unici stormi che svolazzano in questo film sono i dubbi degli spettatori, che non potranno fare a meno di notare qualche incongruenza nel campo della medicina, della fisica e della logica. Se poi siete scazzati, senza pretese meta-filmiche e volete un’opera tutto fumo e pochissimo arrosto, giusto per soddisfare la vostra fame da cannibale di splatter, accomodatevi pure. In fondo è cosa buona e giusta anche questa, ogni tanto.

    Cosa succede in questo film? Un cantante rock sull’orlo di un esaurimento nervoso decide di andare in vacanza: cosa c’è di meglio di un castello sperduto in mezzo alla natura incontaminata? Sul treno incontra una giovane ragazza che si sta recando nello stesso luogo per avere notizie della zia: arrivati sul luogo trovano dei personaggi alquanto bizzarri, tra cui una signora nevrastenica, un nanetto ambiguo ed un folle chirurgo. Essi, si scoprirà a breve, non aspettano altro che di torturarli e di annichilire la loro volontà. Mentre i nuovi arrivati visitano la loro nuova residenza notano (epica l’espressione da ebeti con cui lo fanno) che in una stanza c’è un letto d’ospedale grondante sangue: invece di darsela a gambe, decidono di prenderla con nichilismo e rimangono beatamente dove sono. Il fatto è che ci sono delle priorità, e quella di tipo sessuale va in primo piano, al di là di qualsiasi istinto di sopravvivenza.

    Mettendo la parte la filosofia spicciola, la regia è abbastanza solida, e le riprese sono sempre all’altezza della situazione: peccato per gli interpreti non proprio brillanti (eccezion fatta per il mitico Dennis Price e per il succitato dottore) e per la trama molto, molto confusa. L’ambientazione non potrà non piacere agli amanti del cinema di genere degli anni ’70: colori forti (con predominanza del rosso), accenni di tensione ed oscurità. Il cast, invece, sembra uscito letteralmente fuori dal nulla, nel senso che si trova a recitare parti che probabilmente non erano nemmeno troppo chiare nella sceneggiatura: uno script che sembra improvvisato, tenuto insieme con lo sputo, e che presenta delle “pezze colorate” quasi sempre fuori luogo.

    Leggendari (da vero z-movie) alcuni dialoghi senza capo nè coda, tra cui ricordiamo il nanetto-custode dell’albergo che invita gli ospiti più volte di “ricordare di lavarsi di denti“, come se questa cosa dovesse far ridere o spaventare. Misteri. Non posso fare a meno di citare, poi, il sangue che esce dal rubinetto dell’hotel senza un contesto, una giustificazione o un riferimento che sia uno, e soprattutto che il diabolico Dottor Storm che è costretto da una sedia a rotelle durante tutto il film, tranne nel finale in cui saltella allegramente per il bosco con uno scatto degno de “Il maratoneta“.

    In sintesi: siamo molto lontani dal capolavoro, ma molto vicini al film divertente a basso costo che vuole dire tanto senza riuscire a dire granchè. Risparmio a tutti, prima che a me stesso, la trafila di retorica hippy sull’alienazione dell’individuo e sulla perdita di coscienza della generazione odierna. Film curioso, ma nulla più.

  • Magnolia: trama, curiosità, spiegazione finale

    Molti critici considerano “Magnolia” l’esempio di film postmoderno, nonchè tra i più famosi e iconici lavori cinematografici di fine anni novanta. Il film presenta molte caratteristiche e temi che sono tipici del periodo, sia a livello di approccio che di narrazione intrecciata, dove le storie dei personaggi sono collegate inaspettatamente tra loro, in un turbine non lineare che non lesina la critica sociale.

    Una riflessione profonda e complessa, secondo i più, sulla natura umana e sulla società moderna.

    Sinossi Magnolia

    Magnolia” è un film del 1999 scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, regista noto anche per Il filo nascosto. Il film è noto per la sua struttura narrativa complessa e il ricco cast di personaggi, interpretati da attori di talento come Tom Cruise, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, John C. Reilly, William H. Macy, e molti altri. “Magnolia” è apprezzato per la sua regia, le prestazioni degli attori e la profondità delle sue tematiche. Il film ha ricevuto molte recensioni positive da parte della critica ed è stato nominato per diversi premi, incluso il premio Oscar. Il film è diventato di culto e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua maestria tecnica e le prestazioni degli attori. Daniel Day-Lewis è stato particolarmente lodato per la sua interpretazione e ha vinto l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per il suo ruolo nel film.

    La storia si svolge a Los Angeles e intreccia diverse trame che coinvolgono personaggi e storie diverse, ma collegate tra loro in vari modi. Il film affronta temi come il destino, la casualità, la solitudine, la redenzione e l’umanità.

    1. Introduzione: Il film inizia con una sequenza che mostra diverse storie brevi di eventi casuali che accadono nella vita di persone sconosciute. Questi eventi apparentemente casuali sottolineano il tema della casualità e del destino che saranno presenti nel resto del film.
    2. Earl Partridge (interpretato da Jason Robards): Earl è un anziano produttore televisivo di successo che è gravemente malato di cancro. La sua giovane moglie Linda (interpretata da Julianne Moore) è sopraffatta dalla colpa e rimorso per aver sposato Earl solo per il suo denaro. Il loro rapporto è complicato e tormentato.
    3. Frank T.J. Mackey (interpretato da Tom Cruise): Frank è un motivatore sessuale di successo, noto per il suo programma di auto-aiuto chiamato “Seduzione e sicurezza”. Nonostante il suo successo professionale, ha un rapporto complicato con suo padre morente, Earl Partridge, e si sforza di affrontare il suo passato turbolento.
    4. Stanley Spector (interpretato da Jeremy Blackman): Stanley è un bambino prodigio della televisione, noto per la sua intelligenza e conoscenza enciclopedica. Il padre di Stanley è ossessionato dal suo successo e lo sfrutta finanziariamente.
    5. Donnie Smith (interpretato da William H. Macy): Donnie è un ex bambino prodigio del quiz televisivo, che ora è un adulto sfortunato e insoddisfatto. Lotta con la sua solitudine e il suo desiderio di trovare amore e successo.
    6. Jim Kurring (interpretato da John C. Reilly): Jim è un onesto poliziotto che sta indagando su una serie di eventi strani e casuali che accadono in città durante la giornata piovosa.
    7. Claudia Wilson Gator (interpretata da Melora Walters): Claudia è una giovane donna tossicodipendente, figlia di un produttore televisivo, Jim Gator (interpretato da Philip Baker Hall). Claudia cerca disperatamente di liberarsi dalla tossicodipendenza e riconciliarsi con suo padre morente.
    8. Intrecci delle storie: Le storie di tutti questi personaggi e di altri ancora si intrecciano e si sovrappongono, spesso in modo inaspettato, durante la giornata. Il film esplora i temi della casualità, del destino e della redenzione, mentre i personaggi affrontano le loro sfide personali e cercano di trovare significato nelle loro vite.

    Il film culmina in un epilogo coinvolgente che lascia spazio all’interpretazione dello spettatore, con eventi misteriosi e straordinari che sconvolgono la vita dei personaggi e offrono una riflessione sulla natura umana e sulla connessione tra gli individui.

    Cast Magnolia

    Il cast di “Magnolia” è composto da un eccezionale insieme di talentuosi attori, molti dei quali hanno ricevuto ampi elogi per le loro interpretazioni nel film. Di seguito è riportato il cast principale:

    1. Jeremy Blackman – Stanley Spector
    2. Tom Cruise – Frank T.J. Mackey
    3. Melinda Dillon – Rose Gator
    4. Philip Baker Hall – Jimmy Gator
    5. Philip Seymour Hoffman – Phil Parma
    6. Ricky Jay – Burt Ramsey
    7. William H. Macy – Donnie Smith
    8. Julianne Moore – Linda Partridge
    9. John C. Reilly – Jim Kurring
    10. Jason Robards – Earl Partridge
    11. Melora Walters – Claudia Wilson Gator
    12. Michael Bowen – Rick Spector
    13. Luis Guzmán – Luis
    14. April Grace – Gwenovier
    15. Orlando Jones – Moderatore TV
    16. Alfred Molina – Solomon Solomon
    17. Pat Healy – Sir Edmund William Godfrey
    18. Michael Murphy – Alan Kligman

    Interpretazione del film

    Nel gioco della vita l’importante non è quello che sperate o che meritate, ma quello che prendete. Sono Frank T.J. Mackey, sovrano assoluto della fica e creatore del programma Seduci e Distruggi, ora disponibile anche in audio e videocassette. Seduci e Distruggi vi insegnerà tutte le tecniche necessarie a conquistare bionde mozzafiato pronte a benedire con i loro caldi umori il vostro letto. La parola chiave è il “linguaggio”: come per incanto il linguaggio ci aprirà le porte della mente femminile e ci permetterà di penetrare nelle loro speranze, desideri, paure, aspettative e nelle loro profumate mutandine. Imparate a trasformare la vostra buona amica in una schiava affamata di sesso. (Frank T.J. Mackey)

    “Magnolia” è un film ricco di simbolismi e temi complessi, che permette a diversi spettatori di trarre interpretazioni e significati personali dalla trama intricata. Va notato che “Magnolia” è un film aperto all’interpretazione e molte delle tematiche presentate sono intenzionalmente ambigue, lasciando spazio per diverse interpretazioni personali. La complessità delle storie e dei personaggi contribuisce a rendere il film un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per molti spettatori. Di seguito sono riportate alcune delle interpretazioni comuni del film:

    1. Casualità e destino: Un tema centrale del film è l’interconnessione degli eventi casuali e il ruolo del destino nella vita dei personaggi. Il film mette in evidenza come le azioni di una persona possono avere impatti inaspettati sulla vita di altre persone, creando una rete di connessioni e coincidenze.
    2. Solitudine e disconnessione: Molti dei personaggi del film sperimentano una profonda solitudine e disconnessione emotiva dagli altri. Nonostante vivano in una grande città come Los Angeles, si sentono isolati e incapaci di connettersi veramente con gli altri. Questo tema viene enfatizzato attraverso la rappresentazione di diverse storie di vita separate che si intrecciano solo occasionalmente.
    3. Redenzione e perdono: Diversi personaggi nel film stanno cercando la redenzione dalle loro azioni passate o stanno cercando di perdonare se stessi o gli altri. Il processo di redenzione è spesso ostacolato dalla complessità delle relazioni familiari e dei conflitti interni.
    4. Relazioni genitoriali: “Magnolia” esplora il tema delle relazioni complicate tra genitori e figli, evidenziando come il passato dei genitori possa influenzare profondamente la vita dei loro figli. Questo tema è rappresentato attraverso vari personaggi, come Frank T.J. Mackey e suo padre Earl Partridge, Claudia Wilson Gator e suo padre Jimmy Gator, e Donnie Smith e la figura paterna di Stanley Spector.
    5. Rinascita e cambiamento: Il film suggerisce che anche nelle situazioni più difficili, esiste la possibilità di una rinascita personale e di un cambiamento positivo. Molti personaggi affrontano momenti di crisi e, attraverso queste esperienze, trovano la forza di cambiare le loro vite.
    6. Il potere delle emozioni: “Magnolia” esplora l’intensità delle emozioni umane e il modo in cui queste possono influenzare le azioni e le decisioni dei personaggi. L’emozione è spesso rappresentata in maniera esplosiva e straordinaria nel film.

    A cosa si riferisce Magnolia del titolo?

    Il titolo “Magnolia” fa riferimento a un simbolo ricorrente nel film, ossia il fiore della magnolia. La magnolia è un albero sempreverde che produce grandi fiori profumati e appariscenti. Nel contesto del film, il fiore della magnolia assume diversi significati simbolici:

    1. Bellezza e fragilità: La magnolia è spesso associata alla bellezza e alla delicatezza dei suoi fiori. Questo simboleggia la bellezza e la fragilità delle vite dei personaggi nel film, che sono complesse e vulnerabili, ma allo stesso tempo affascinanti.
    2. Rinascita e speranza: La magnolia è un albero il cui fogliame e fiori rimangono durante tutto l’anno. Questo simboleggia la possibilità di rinascita e di speranza per i personaggi, anche attraverso momenti difficili e oscuri.
    3. Connessione e interconnessione: Nel film, il tema delle connessioni casuali tra i personaggi è centrale. La magnolia simboleggia la rete di connessioni che collega le loro vite, creando una trama intrecciata.
    4. Dualità: La magnolia è nota per la sua dualità, in quanto i suoi fiori sbocciano sia in primavera che in autunno. Questa dualità si riflette nel film, dove i personaggi possono essere complicati e contraddittori, con sfaccettature nascoste.
    5. Bellezza nascosta: Nei fiori della magnolia, i petali sono spesso coperti da un involucro protettivo che si apre per rivelare la bellezza interna. Questo può essere visto come un simbolo per la scoperta delle verità nascoste e delle emozioni profonde dei personaggi nel film.

    Noi possiamo chiudere col passato, ma il passato non chiude con noi. (Jimmy Gator)

    10 cose che non sapevi su Magnolia

    Ecco dieci curiosità interessanti sul film “Magnolia”:

    1. Origine del titolo: Il titolo “Magnolia” è ispirato a una canzone di Aimee Mann, intitolata “Save Me”, che è anche presente nella colonna sonora del film. Aimee Mann ha contribuito con diverse canzoni per la colonna sonora del film.
    2. Numeri ricorrenti: Nel film, il numero 82 ricorre in varie scene. Ad esempio, compare sulla scatola delle scarpe di Jim Kurring, sulla targhetta dell’ufficiale di polizia, e anche sulla camicia di Stanley Spector.
    3. La pioggia nel film: La pioggia è un elemento ricorrente in molte scene del film. La pioggia è stata generata artificialmente durante le riprese, poiché il film è ambientato a Los Angeles, che non è una città particolarmente piovosa.
    4. Personaggi doppi: Molte delle storie dei personaggi nel film hanno delle parallele tra loro. Ad esempio, i personaggi di Frank T.J. Mackey e Donnie Smith condividono alcuni tratti e hanno entrambi problemi con la figura paterna.
    5. Audizione di Tom Cruise: Tom Cruise, che interpreta Frank T.J. Mackey, ha ottenuto il ruolo dopo un’audizione telefonica con il regista Paul Thomas Anderson. Cruise ha ricevuto elogi per la sua performance, ottenendo anche una nomination all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il ruolo.
    6. Riferimenti a altre opere: Il film presenta diversi riferimenti a opere letterarie e cinematografiche. Ad esempio, il film inizia e finisce con una citazione dal libro “Frogs” di Aristofane.
    7. La traccia di Aimee Mann: Come accennato prima, Aimee Mann è una presenza importante nella colonna sonora del film. La sua musica contribuisce a creare un’atmosfera emozionante e si adatta perfettamente alla narrazione del film.
    8. Philip Seymour Hoffman e gli uccelli: Durante il film, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman, Phil Parma, mostra un amore per gli uccelli e li tiene come animali domestici. Hoffman era noto anche per il suo amore per gli animali nella vita reale.
    9. Lunghezza del film: “Magnolia” ha una durata piuttosto estesa, con una durata di circa 3 ore e 8 minuti. Questo lo rende uno dei film più lunghi nella filmografia del regista Paul Thomas Anderson.
    10. Finale ambiguo: Il finale del film è aperto all’interpretazione dello spettatore e ha suscitato diverse teorie e discussioni tra i fan e i critici. Il finale straordinario e misterioso ha contribuito a rendere “Magnolia” un film memorabile e discusso.

    Queste curiosità aggiungono ulteriore fascino e profondità a “Magnolia”, rendendolo un’opera cinematografica affascinante e intrigante da esplorare.

    Spiegazione del finale Magnolia

    Il finale di “Magnolia” è un’esperienza intensa e surreale che mette in luce i temi chiave del film, come la casualità, il destino, la redenzione e la connessione umana. È una sequenza carica di emozioni, che offre uno sguardo complesso e profondo sulla natura umana e il modo in cui le nostre vite sono intrecciate.

    Attenzione: Spoiler a seguire per chi non ha visto il film.

    Di seguito una spiegazione dettagliata del finale:

    1. La pioggia: La pioggia nel finale simboleggia un momento di catarsi e purificazione per i personaggi. La pioggia può essere vista come una manifestazione esterna delle intense emozioni e tensioni interiori che i personaggi stanno vivendo.
    2. La pioggia di rane: Durante la sequenza finale, in un evento straordinario e surreale, cominciano a piovere rane dal cielo. Questo evento è un elemento surreale e allegorico che simboleggia l’imprevedibilità e l’incredibile natura della vita. È come se il mondo si stesse ribellando e reagendo in modo straordinario alle emozioni e ai drammi che i personaggi stanno vivendo.
    3. Le scelte dei personaggi: Molti dei personaggi si trovano ad affrontare momenti di svolta nelle loro vite durante la pioggia di rane. Si scontrano con la loro coscienza e cercano di trovare la forza di fare scelte cruciali che cambieranno il corso delle loro storie.
    4. La scena della pistola: Durante la pioggia di rane, il personaggio di Jim Kurring, interpretato da John C. Reilly, affronta una situazione drammatica. Viene chiamato a gestire una situazione in cui un ragazzo sta minacciando di uccidersi con una pistola. Jim riesce a calmare il ragazzo, convincendolo a lasciare la pistola. Questa scena rappresenta il tema della redenzione e della compassione.
    5. Il canto: Durante la pioggia di rane, i personaggi iniziano a cantare insieme la canzone “Wise Up” di Aimee Mann. Il canto è una sorta di catarsi collettiva, un modo per esprimere le emozioni che stanno attraversando. Anche i personaggi che erano stati isolati o chiusi a loro stessi si uniscono nel canto, sottolineando l’importanza della connessione umana.
    6. L’epilogo: Dopo la pioggia di rane, il film presenta un epilogo che mostra il destino dei personaggi principali. L’epilogo offre alcune chiusure alle storie dei personaggi, ma allo stesso tempo lascia spazio per l’interpretazione e la riflessione dello spettatore.
  • Guida perversa al cinema: l’analisi filosofica e psicoanalitica di Zizek

    Un documentario in cui Slavoj Zizek esamina molti film celebri, glissando dai titoli di Hitckcock a quelli di David Lynch, dal punto di vista filosofico e psico-analitico.

    In breve. La filosofia di Žižek può ritenersi condivisibile o meno, ma di sicuro è più comprensibile di quella di molti suoi colleghi. Questo documentario può ritenersi, alla peggio, una guida ragionata alla riscoperta di titoli cinematografici (soprattutto horror e thriller) che hanno fatto la storia, e che siano rilevanti dal punto di vista psicoanalitico.

    La Guida perversa al cinema rappresenta probabilmente uno dei documentari più importanti ed incisivi mai usciti su questo argomento; a cominciare dal titolo, che evoca evidentemente uno storico di cinematografia di genere e che coinvolge titoli di ogni ordine e grado, analizzandoli dal punto di vista del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek (doppiato brillantemente da Tatti Sanguineti).

    Se il punto di vista di Žižek è considerato a volte controverso e, quasi senza dubbio, non sempre pienamente condivisibile, rimane un’analisi molto lucida ed efficace alla riscoperta del significato psico-analitico di molti titoli che abbiamo amato, che fosse da cinefili incalliti o da pubblico affascinato. Ad esempio quelli di Hitchcock, ed ampio spazio viene riservato a La donna che visse due volte e naturalmente Psico. Molti passaggi di quel cinema che spesso passavano sottogamba, di fatto, vengono qui rivalutati e rivitalizzati in un’ottica filosofico-concettuale decisamente affascinante, facendoci capire le probabili reali intenzioni di quei registi.

    https://www.youtube.com/watch?v=Azu1t1I3lDM

    Il rischio, in questi casi, è che la critica finisca per travolgere le effettive intenzioni del regista, associando a vari film intenzioni e sottosignificati che il cineasta di turno non avrebbe neanche mai pensato; alcune digressioni, effettivamente, rischiano di risultare vagamente azzardate, come ad esempio il citato corto della Disney Il giorno del giudizio di Pluto, che secondo il filosofo sloveno sarebbe una rappresentazione allegorica di un processo politico staliniano, in cui la condanna viene unanimamente e grottescamente stabilita ancora prima di iniziare il processo.

    Il problema, secondo me, non è tanto stabilire se Žižek abbia torto o ragione, quanto utilizzare la visione di questo documentario per riscoprire titoli incredibili e sottovalutati negli anni: a partire ad esempio dal cinema di David Lynch, in cui viene quasi sempre prefigurato il desiderio sessuale ed il mistero della femminilità attraverso figure (quasi da teatro dell’assurdo, verrebbe da scrivere) di grotteschi padri-padroni (vengono citati Strade perdute, Mulholland Drive, Cuore selvaggio e Velluto Blu).

    Non solo: molte questioni emblematiche sul concetto di osservare, sulla filosofia annessa al desiderio e come il cinema finisca per essere più realistico della realtà sono tratte sia film celebri (ampio spazio è dedicato anche a Matrix, ad esempio) che da piccole perle del passato come, ad eempio, Possessed (L’amante) di Clarence Brown del 1931.

    L’analisi viene condotta in modo originale ed accattivante, coinvolgendo concetti complessi in modo comprensibile anche perchè – nella maggiorparte dei casi – Žižek si reca personalmente nei luoghi dove i film citati sono stati girati, affiancando brillantemente le riprese originali con quelle della regia Sophia Fiennes. Possiamo vedere, ad esempio, il commentario al pluri-premiato film La conversazione di F. F. Coppola, direttamente dal motel in cui Gene Hackman osserva un omicidio.

    In tutto questo, ovviamente, la regia della Fiennes gioca un ruolo fondamentale, in quanto nelle riprese documetaristiche vengono riprodotte le condizioni ambientali e di illuminazione delle pellicole originali dando così, in molti casi, un senso di continuità tra il protagonista che parla con un altro personaggio e Žižek che sembra “inserirsi” materialmente nella scena. Se alcuni momenti, poi, sono visibilmente grotteschi – in certi casi forse al limite del risibile, vedi ad esempio la digressione su quella che non esiterei a definire “filosofia del cesso”, con Žižek seduto sul water a commentare una specifica scena del film di Coppola in cui il personaggio di Gene Hackman  – detective con l’ossessione per la privacy – ispeziona un bagno e lo scarico del WC si riempie di sangue.

    Un documentario che potete trovare su Amazon Video e che, pertanto, suggerisco caldamente di procurarvi.

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