PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    Stra-cult che vede l’esordio alla regia di Bruce Lee, il quale non perde occasione per sceneggiare la propria filosofia di vita ed esporla al pubblico: l’attore ha firmato inoltre anche il soggetto del film.

    “Non mi piacciono le rovine, mi ricordano la guerra”

    In breve: uno dei migliori film di arti marziali vecchia-scuola.

    L’irresistibile mimica dell’attore protagonista è accentatuata all’estremo in questo film: i suoi sorrisi sarcastici durante i combattimenti, le sue pose plastiche ed i suoi colpi fulminei di nunchaku non potranno non conquistare il pubblico, quasi a prescindere dalla trama in sè. “L’urlo di Chen…” del resto, non è semplicemente una sequenza di scazzottate a mani nude e bastoni: prima di tutto giustifica la violenza come ribellione all’oppressione (criminale, oltre che razzista) nei confronti dei cinesi in terra straniera (Roma). Successivamente riempie la sceneggiatura di personaggi ben caratterizzati, dei veri e propri “tipi”: l’amico-cameriere bonaccione, la brava ragazza innamorata del protagonista, la macchietta del collaboratore del boss (imbranato e servile, oltre che eterno capro espiatorio) e via dicendo.

    E poi c’è Bruce Lee: imponente, padrone della scena, freddo, deciso e quasi-invincibile. Assolutamente impeccabile nell’arte del kung-fu e, al tempo stesso, dalle caratteristiche debolezze umane che rendono facile l’immedesimazione. Farebbe l’entusiasmo, oltre l’invidia, di un buon Chuck Norris al meglio della forma: ed infatti – guarda caso che non è un caso – si troverà a doverlo fronteggiare nella parte finale del film, nella mitica scena dentro il Colosseo.

    In questa scena, peraltro, inizialmente Lee ha la peggio su Norris: viene inquadrato periodicamente un gatto, che inizia a giocare con una pallina nel momento esatto in cui Tang Lung ribalta la situazione ed inizia a dominare il proprio avversario, proponendo uno stile di combattimento libero dai vincoli estetici tradizionali del kung-fu e distraendolo con la propria imprevedibilità. Alla fine, dopo averlo eliminato, non mancherà di rispetto al nemico onorandone la morte.

    Il film narra la storia di Tang Lung (Chen nell’edizione italiana: ma nulla di strano nel paese in cui l’originale “Snake” Plinskii diventa “Iena”), un giovane artista marziale inviato dallo zio da Hong Kong a Roma per aiutare un ristorante gestito da cinesi con varie difficoltà: essi sono infatti minacciati di continuo da una banda del posto che vorrebbe prendersi la gestione del locale per gestire un enorme traffico di droga. Ci pensarà Chen, come sua consuetudine del resto, a ristabilire l’ordine e la giustizia in una sequenza di scontri che culminano, appunto, con quello contro il campione di arti marziali americano “Colt”, assoldato dai criminali per sconfiggere il fortissimo cinese.

  • Il filo nascosto: trama, curiosità, spiegazione finale

    Sinossi “Il filo nascosto”

    Il filo nascosto” (titolo originale: “Phantom Thread”) è un film del 2017 diretto dal regista Paul Thomas Anderson, noto anche per aver diretto film come “Magnolia” e “There Will Be Blood”. “Il filo nascosto” è ambientato nella Londra degli anni ’50 ed è incentrato sulla vita di Reynolds Woodcock, un famoso stilista di moda interpretato da Daniel Day-Lewis, il quale veste l’alta società britannica. La sua vita cambia quando incontra Alma, interpretata da Vicky Krieps, una giovane donna che diventa la sua musa e amante. Il film affronta temi come l’amore, l’ossessione, la creatività e i compromessi nella relazione tra Reynolds e Alma. La trama è intricata e il film è noto per la sua raffinata fotografia, la recitazione di Daniel Day-Lewis e la colonna sonora evocativa composta da Jonny Greenwood.

    Il film è diventato di culto e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua maestria tecnica e le prestazioni degli attori. Daniel Day-Lewis è stato particolarmente lodato per la sua interpretazione e ha vinto l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per il suo ruolo nel film.

    Ho una strana inquietudine. Ma non riesco a darne un motivo specifico. Come un battito d’ali. (Reynolds)

    Cast Il filo nascosto

    Ecco il cast principale del film “Il filo nascosto” (Phantom Thread):

    1. Daniel Day-Lewis nel ruolo di Reynolds Woodcock
    2. Vicky Krieps nel ruolo di Alma Elson
    3. Lesley Manville nel ruolo di Cyril Woodcock
    4. Camilla Rutherford nel ruolo di Johanna
    5. Gina McKee nel ruolo di Contessa Henrietta Harding
    6. Brian Gleeson nel ruolo di Dr. Robert Hardy
    7. Harriet Sansom Harris nel ruolo di Barbara Rose
    8. Lujza Richter nel ruolo di Princesse Mona Braganza
    9. Julia Davis nel ruolo di Lady Baltimore
    10. Nicholas Mander nel ruolo di Lord Baltimore

    Interpretazione del film

    “Il filo nascosto” è un film che offre molteplici interpretazioni e spunti di riflessione anche a livello filosofico, ne abbiamo trovate parecchie e adesso proveremo ad elencarle con voi. La natura umana e i desideri nascosti: Il film esplora la complessità della natura umana e dei desideri che spesso rimangono nascosti e repressi. I personaggi di Reynolds e Alma mostrano il conflitto interiore tra l’immagine esteriore che proiettano nella società e i loro veri desideri interiori. Il ruolo dell’arte e della creatività: Reynolds Woodcock è un artista, uno stilista di fama mondiale, che esprime la sua creatività attraverso i suoi abiti. La sua dedizione all’arte e alla perfezione rappresenta un tema centrale del film, sollevando domande sulla relazione tra l’artista e la sua arte, e sulla natura dell’ispirazione e della passione creative. Il potere nelle relazioni umane: La dinamica tra Reynolds e Alma illustra le dinamiche di potere all’interno di una relazione. Ciascuno dei personaggi cerca di controllare l’altro, ma in modi diversi. Questo solleva interrogativi sulla libertà individuale, la manipolazione e la vera essenza dell’amore.

    Ci sono infinite superstizioni quando si tratta un abito da sposa. Le giovani che non lo toccano per paura di non sposarsi. Le modelle che hanno paura di sposarsi solo uomini calvi se ne indossano uno… (Reynolds)

    Identità e trasformazione: Il film esplora anche temi di identità e trasformazione personale. I personaggi principali subiscono cambiamenti significativi nel corso della storia, e ciò solleva questioni sulla fluidità dell’identità e sull’accettazione del cambiamento nella vita umana. La fragilità dell’amore: Il film offre una rappresentazione complessa dell’amore e delle relazioni umane. Mostra come l’amore possa essere imprevedibile, fragile e talvolta difficile da comprendere. Ciò apre spazi per considerare la natura dell’amore e la sua stabilità o insicurezza. Estetica e bellezza: La bellezza e l’estetica rivestono un ruolo centrale nel film. I personaggi sono costantemente coinvolti nella creazione di oggetti di bellezza, come gli abiti di Reynolds. Questo solleva domande sulla natura della bellezza, i suoi significati soggettivi e culturali, e il suo ruolo nella vita umana.

    10 cose che non sapevi su Il filo nascosto

    1. Ritiro di Daniel Day-Lewis: Dopo aver interpretato Reynolds Woodcock, Daniel Day-Lewis ha annunciato che “Il filo nascosto” sarebbe stato il suo ultimo film prima del ritiro dalla recitazione. Quindi, questo film segna la sua ultima apparizione sul grande schermo.
    2. Ruolo scritto appositamente: Il regista Paul Thomas Anderson ha scritto la sceneggiatura pensando esclusivamente a Daniel Day-Lewis per il ruolo di Reynolds Woodcock.
    3. Nomination agli Oscar: “Il filo nascosto” ha ricevuto sei nomination agli Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista per Vicky Krieps.
    4. Colonna sonora di Jonny Greenwood: La colonna sonora del film è stata composta da Jonny Greenwood, chitarrista del gruppo musicale Radiohead, che ha lavorato anche con Paul Thomas Anderson in precedenza.
    5. Fotografia con pellicola: Il film è stato girato interamente utilizzando pellicola 35mm, anziché le moderne tecnologie digitali, per ottenere un aspetto visivo specifico e un’atmosfera vintage.
    6. Ispirazione dalla vita reale: Paul Thomas Anderson si è ispirato al celebre stilista spagnolo Cristóbal Balenciaga e alla sua dedizione per il suo lavoro, nonché ai designer britannici del periodo degli anni ’50.
    7. Accuratezza storica: Per creare gli abiti del film, la costumista Mark Bridges ha effettivamente usato vecchi modelli e tessuti autentici dell’epoca, cercando di mantenere la massima precisione storica nei dettagli degli abiti indossati dai personaggi.
    8. Set in casa: Gran parte del film è stata girata in una casa georgiana a Fitzroy Square a Londra, che è stata appositamente restaurata e arredata per ricreare l’atmosfera degli anni ’50.
    9. Finali multipli: Originariamente, il film avrebbe dovuto avere un finale diverso, ma il regista e gli attori hanno deciso di girare un’ulteriore scena finale per aggiungere un elemento di sorpresa alla storia.
    10. Curiosità sull’anello: Nel film, Reynolds Woodcock regala ad Alma un anello con un grande diamante. Quell’anello era in realtà una creazione del regista Paul Thomas Anderson e non un oggetto di scena standard. Daniel Day-Lewis ha ammesso che il valore dell’anello era così alto che l’ha tenuto in cassaforte ogni notte durante le riprese.

    Per prepararsi al film, Daniel Day-Lewis ha guardato filmati d’archivio di sfilate di moda degli anni ’40 e ’50, ha studiato stilisti famosi, si è consultato con il curatore della moda e dei tessuti del Victoria and Albert Museum di Londra e ha fatto un apprendistato con Marc Happel, capo del reparto costumi del New York City Ballet. Ha anche imparato a cucire e si è esercitato su sua moglie Rebecca Miller, cercando di ricreare un tubino di Balenciaga ispirato a un’uniforme scolastica.

    Spiegazione del finale Il filo nascosto

    Il finale di “Il filo nascosto” è intenzionalmente aperto e ambiguo, lasciando agli spettatori il compito di trarre le proprie conclusioni sulla natura della relazione tra i personaggi e il significato delle loro azioni. Il regista Paul Thomas Anderson ha voluto creare uno spazio per la riflessione e l’interpretazione individuale, lasciando che il pubblico decida come interpretare la complessa dinamica tra Alma e Reynolds.

    Attenzione: Spoiler a seguire per chi non ha visto il film.

    Nel finale, Alma, la giovane amante di Reynolds Woodcock, decide di assumere un approccio radicale per risolvere i problemi nella loro relazione. Essendo stufa della dominanza di Reynolds e dei suoi atteggiamenti controllanti, Alma decide di avvelenarlo sottilmente con dei funghi che ella stessa ha raccolto, portandolo in uno stato di debolezza e dipendenza da lei. La scena finale mostra Alma e Reynolds seduti insieme a fare colazione. Mentre Reynolds mangia, sembra debole e vulnerabile, accettando passivamente la situazione. La luce si spegne su di loro mentre Reynolds continua a mangiare.

    La spiegazione di questo finale può essere interpretata in diversi modi:

    1. Controllo ribaltato: Alma ha preso il controllo della situazione e della relazione con Reynolds. Potrebbe essere una forma di vendetta per come lui l’ha controllata in passato. Questo finale suggerisce che il potere nella relazione si è ribaltato, con Alma che ora detiene il controllo.
    2. Simbiosi e dipendenza: Alma e Reynolds sembrano intrappolati in una sorta di simbiosi tossica. Entrambi sembrano dipendere l’uno dall’altro, nonostante la loro relazione sia disfunzionale. Il finale può rappresentare la perpetuazione di questo ciclo di dipendenza.
    3. Amore e complicità nella follia: Il finale potrebbe suggerire che Alma e Reynolds, pur essendo coinvolti in un comportamento strano e talvolta dannoso, trovano una forma di amore e complicità nella loro stranezza e follia condivise.
    4. La natura dell’arte e dell’ispirazione: Il finale può essere interpretato anche come una metafora sulla natura dell’arte e dell’ispirazione. Reynolds potrebbe essere rappresentato come un artista che trae ispirazione dalle situazioni estreme e dalle emozioni forti, e la sua relazione con Alma è la sua fonte di ispirazione creativa.
  • Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Un medico ed una ragazza, subito dopo un incidente stradale, arrivano in un castello per cercare aiuto: quello che troveranno sarà decisamente surreale.

    In breve. Un horror-erotico dal registro non banale, con la capacità di impressionare giocando sui contrasti; almeno, nelle intenzioni. Alla prova dei fatti è una sublimazione settantiana del “so bad is so good“: un gotico-porno sul tema del doppio, con pretese surrealiste e abbastanza poco riuscito. Gli inserti hardcore gratuiti, l’insistere su dialoghi ostentatamente lirici, le nudità randomizzate smantellano quasi del tutto l’impianto. Per gli amanti del cinema bis può essere comunque una gradevole esperienza.

    Nuda per Satana rimane scolpito nell’immaginario cinefilo soprattutto per la sua storia, che vorrebbe essere un singolare esperimento tra horror ed erotico (alla Jess Franco, per intenderci), e che possiede poco terrore e troppo osè. Tanto per proporre qualcosa di diverso dalla solita elencazione di difetti, partirei proprio dalla parte erotica: quella che fa diventare il film “di cassetta”. Fin dal titolo, del resto, si intuisce di un legame con suggestioni liberatorie ed occulte, e questo viene preannunciato dalle primissime sequenze – nelle quali non si perde occasione per mostrare la Calderoni nuda, una vera e propria costante della pellicola (anche quando sarebbe tutt’altro che necessario).

    Si è molto discusso e sbeffeggiato questo lavoro(cosa che, personalmente, non accetto di fare quasi per nessun film) proprio a cominciare dagli inserti hardcore, che spiazzano il pubblico – e per ragioni tutto sommato lecite, che valsero il divieto ai minori, ovviamente. Del resto si tratta di un erotismo distaccato, da VHS, ostentatamente esibizionista quanto impacciato; in un bizzarro equilibrio tra nudo artistico e porno classico, un insolito sesso esplicito, a più riprese, finisce per padroneggiare le scene senza un vero motivo. Se si volesse cercare un difetto anche qui, dovremmo parlare di gestualità che – il più delle volte – emulano il piacere, e che (soprattutto oggi) appaiono molto poco coinvolgenti. Il sesso nel film è un comparto staccato dal resto, e a poco o nulla serve che venga raffigurato come momento onirico o liberatorio.

    Quello che manca più concretamente in Nuda per Satana, del resto, è un solido tessuto di connessione tra le scene hard ed il resto della storia: storia che, sebbene suggestiva dalle premesse, risulta fastidiosamente spezzettata in più punti, e dal ritmo troppo altalenante. Avrebbe forse funzionato se si fosse basata su una dichiarazione di intenti meno seriosa, come accade ad esempio in tanti film di Russ Mayer o Tinto Brass (per i quali il sesso è spesso delirante, ma è anche giocoso), o al limite nel divertimento citazionista del Rocky Horror Picture Show (che nomino perchè, probabilmente in modo incidentale, Nuda per Satana mi pare ne condivida alcuni snodi narrativi: l’incidente di una coppia, un maggiordomo grottesco, un padrone di casa dal singolare fascino, una ambientazione gotica surreale, vari personaggi disinibiti contrapposti a due protagonisti sessualmente inebetiti dalle convenzioni). Se la parte erotica fosse stata meno ostentata, pertanto, Nuda per Satana avrebbe (forse) meglio fatto da contraltare alla componente orrorifica: ma nemmeno quest’ultima componente funziona del tutto, e così il film ne risente in ogni singolo fotogramma. Spaventarsi in questo film, per intenderci, è piuttosto arduo, e lo è almeno quanto provare a pensarlo in qualche modo eccitante. Peccato, anche perchè – al netto del resto – le ambientazioni e la colonna sonora (un delirio psichedelico a suo modo memorabile) erano particolarmente azzeccate. E, per inciso, su questo genere si è visto molto, ma molto di peggio.

    L’idea dei “doppi”, del resto, e l’ambientazione surreale non erano niente male: siamo negli anni ’70, ed i richiami a combattere le convenzioni e la repressione sessuale erano all’ordine del giorno. Il periodo, le masturbazioni mentali dei critici d’epoca e il pubblico a caccia di erotismo facile li caldeggiavano parecchio, per cui potevano tranquillamente starci. Per dovere di cronaca, quindi, Batzella un onesto tentativo lo fa: riprese sulfuree, qualche inquadratura azzeccata (e molte curiosamente fuori asse), suggestive ambientazioni fumose ed un montaggio/effetti speciali che a volte funzionano … e a volte no (su tutti, i vestiti di Susan che spariscono “al volo” e l’indimenticabile ragno gigante, visibilmente finto).

    Il gioco regge ancora meno la prova del tempo, con un livello narrativo non lineare quanto non troppo curato, per non parlare delle interpretazioni discutibili di quasi tutti i personaggi – unica vera eccezione la protagonista, che sembra l’unica nel giusto feeling con la storia. C’è anche spazio per due doppi personaggi (Dr. William Benson / Peter e Susan Smith / Evelyn), e questo aumenta ulteriormente l’aura mitologica del film. Nonostante tutto, Nuda per Satana rimane un cult da riscoprire: ma questo solo per chi ritenga divertente seguire il delirante “flusso di coscienza” che accompagna la narrazione, quei primi piani inspiegabili, le criptiche riflessioni dei personaggi (che vorrebbero sembrare saggi esistenzialisti, ma non lo sono), e la filosofia misticheggiante che dovrebbe accompagnare il tutto. A suo modo, un film da ricordare.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • The void: l’horror enciclopedico e autocelebrativo di Gillespie e Kostanski, bello quanto dimenticabile

    Un agente di polizia trova per strada una persona ferita, in apparente stato confusionale: una volta recatisi in ospedale, si accorge che l’edificio è stato circondato da varie figure incappucciate.

    In breve. Un horror difficile da giudicare: se gran parte del mood è positivo, e la regia sembra convinta quanto originale, il film sembra perdersi in digressioni splatter fini a se stesse, che  poco danno e poco tolgono, oltre che tendono a far perdere di vista il focus della trama. Si racconta di una intrigante “discesa negli inferi”, fin troppo sentita, quasi certamente già vista.

    Finanziato da un crowdfunding su Indiegogo (budget complessivo di 82,510 dollari), paraculisticamente annunciato “dallo stesso produttore di The Vvitch” e realizzato con massiccio uso di CGI, viene lanciato da una consueta tagline minacciosa ed espressiva: “C’è un inferno, e questo è peggio“.

    In effetti si intuisce da subito che ci sia poco da “scherzare”, in termini di credibilità della trama e di caratterizzazione dei personaggi, fin da subito sinistri, minacciosi e dal tipico modo di fare nichilista e sbrigativo già visto in decine di survival horror. Non ci vuole troppo, poco dopo, perchè la narrazione evolva nello splatter più esplicito che si possa concepire, schizzando in modo imprevedibile su vari registri e prefigurando uno scenario che evoca sia La cosa (l’essere mostruoso che usa corpi umani per replicarsi) che (in parte) Distretto 13 – Le brigate della morte (lo scenario claustrofobico e i personaggi che, come già nell’altro, non si fidano l’uno dell’altro, e ricorrono a strategie di sopravvivenza improvvisate quanto “romeriane” – La notte dei morti viventi è proprio il film che guarda uno dei ricoverati in ospedale, per inciso).

    Vedo un mostro che si vede Dio. Io ho sfidato Dio!

    Una cosa è certa: in questi casi è fin troppo comodo per qualsiasi recensore evocare i racconti di H. P. Lovecraft, cosa che ha reso accettabile qualsiasi film fuori dalle righe, irrazionale e multi-dimensionale, arricchito da orrori extraterrestri e dimensioni parallele in cui i personaggi rimangono intrappolati. Cosa piuttosto sbrigativa, in questo caso e che un film del genere a mio parere non giustifica del tutto: non fosse altro che sembra partire con determinate intenzioni, per poi evolvere su ben altro, sequenziando le varie scene in una maniera abbastanza subdola e poco prevedibile, quasi da sembrare inintelleggibile. The void evoca vari sottogeneri e in fondo non è un horror vero e proprio, proprio perchè sembra, in più momenti, un collage di idee diverse tra loro, messe insieme con entusiasmo (senza dubbio) ma in modo non sempre chiarissimo, mediante trovate a volte azzeccate (le creature che covano la propria stirpe violando corpi umani) altre meno (certe dinamiche in cui la gente si ritrova sgozzata quasi senza sapere come o perchè).

    E se le sequenze più cruente mi hanno ricordato Hellraiser (nuovi supplizianti che promettono vita eterna, in risposta al sempiterno dramma della morte di un figlio, per cui varrebbe la pena evocare film inossidabili come Don’t look now), l’aspetto di alcuni personaggi non ho potuto che ricordarmi (almeno per qualche istante) il moloch visto ne La fortezza, uno degli horror ottantiani potenzialmente più belli (e altrettanto incompiuti) mai visti su uno schermo.

    In definitiva The void è un horror compatto e relativamente convincente, che pero’ presenta il difetto sostanziale di proporre più forma che sostanza, preso com’è dall’entusiasmo e dalla briga di citare didascalicamente i classici del genere. Sia chiaro che il gioco del cinema passa anche questo genere di trovate, che possono rasentare la vera e propria manìa autocelebrativa senza sfigurare: ma se questo, come secondo me accade, finisce per far perdere di vista il focus (al punto che i personaggi sembrano soltanto sciocchi burattini destinati alla morte), ovvero un insieme di (stereo)tipi da survival horror, in cui si lotta per la sopravvivenza senza sapere cosa-cazzo-succede, chiaro che le valutazioni troppo entusiastiche dovrebbero essere messe aprioristicamente al bando. Pare anche che i registi abbiano invitato il pubblico a farsi un’idea personale sulla storia, lasciando volutamente molti riferimenti non specificati, e ciò rende The void un film horror sperimentale a pieno titolo, per cui potrebbe avere un senso l’ennesima rivalutazione incensatrice tra una ventina d’anni circa (e buon divertimento a chi lo riscoprirà, dato che adesso non ce la possiamo fare).

    Un film del genere è anche puramente carpenteriano, lo è così tanto (soprattutto nella scena clou del “regolamento di conti”) che è impossibile non pensare a Il signore del male, con i suoi riferimenti ad un’altra dimensione oscura e ad un futuro minaccioso quanto imprecisabile. C’è anche una setta di mezzo (l’elemento cardine di ogni horror moderno, a quanto pare, deve essere sempre una setta), figure incappucciate con un triangolo nero al posto del viso che potrebbe ricordare, per certi versi, i guardiani del citatissimo Squid Game in voga su Netflix (The void è disponibile su Amazon Video, per inciso).

    E quel finale che ha lasciato tanti di stucco, allora, che spiegazione ha? Impossibile provare a dare indizi senza considerare un precedente celebre di cui, per la veritá, non si fa esplicita menzione, ma qualche recensore si è accorto lo stesso. Il finale di The void sembra infatti calcare apertamente quello, altrettanto surreale, de L’aldilà di Lucio Fulci, giusto con più mezzi visuali e un mood più rassicurante: come a dire che i due personaggi sono assieme, per sempre, più o meno al sicuro, in un mondo extrasensoriale che potrebbe essere l’aldilà, appunto, che si svelerà al momento della morte. Vale la pena di ricordare la frase che chiude il capolavoro fulciano, guarda caso anch’esso ambientato parzialmente in un ospedale, ovvero: E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.

    E dagli anni ottanta per il momento è tutto.

    Dalla parte di The void, e in favore di una valutazione mediamente positiva, muove anche la sua brevità, il suo non tirarla per le lunghe, la sua capacità di far switchare i personaggi da una situazione normale ad una extra-ordinaria senza perdere colpi, ambientazione, dettagli o (per dirla con una parola semplice quanto poco utilizzata in ambito horror) credibilità. Ma c’è anche quell’effetto “minestrone” – Minestrone Valle dei Morti, probabilmente – a cavallo su più fronti, pronto a restare sul pezzo e assumere ora la parvenza del nuovo Inferno, poco dopo chissà che altro. Il tutto, insomma, rende davvero difficile per lo spettatore comprendere a che punto della trama si sia arrivati, con il dilemma di spalancare la porta della noia, quasi in corrispondenza del momento in cui un portale extradimensionale si apre sullo schermo.

    Non che The void sia un brutto horror, anche perché scrivere una cosa del genere sarebbe ingiustificato: ma non è nemmeno il film da riscoprire di cui molti hanno scritto, anche perché denota un limite evidente a livello narrativo per cui la sceneggiatura avrebbe fatto meglio ad ispirarsi seriamente a Lovecraft, invece che lasciarlo come riferimento vago (e sia pur riconoscendo l’evidente conoscenza dei classici che i due registi hanno sfoggiato). Non ci sono solo Lovecraft e Carpenter in The void: ci sono anche Lucio Fulci, Clive Barker, forse addirittura Dario Argento e Michele Soavi, per non parlare di George Romero e dei suoi immarcescibili morti viventi. Oltre un certo limite, è veramente troppo per poter osannare un vero e proprio capolavoro, senza limitarsi  – in modo più equilibrato, secondo noi – a constatare che questo film sia proprio come quello di Michael Mann: un potenziale capolavoro che vive di incompiutezza, questa volta ingiustificata rispetto alla situazione in cui si trovava il regista statunitense.

    Un horror canadese da vedere per curiosità, senza dubbio, con la certezza di non assistere al consueto delirio randomico di psicopatici e vittime urlanti, ma che rischia lo stesso di farsi dimenticare con la stessa velocità con cui si guarda, al netto degli entusiasmi che provocano determinate sequenze e alla sensazione positiva che accompagna gran parte della sua visione. Manca qualcosa, e non riusciamo a saperne di più: lo guardiamo, e tanto basta.

Exit mobile version