MISTERO_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori gialli usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Tutti i colori del buio: l’Horror policromatico di Sergio Martino

    Tutti i colori del buio: l’Horror policromatico di Sergio Martino

    Una donna sopravvive ad un incidente stradale, ed inizia ad essere perseguitata da una setta satanica.

    In breve. Un Sergio Martino delirante ed onirico, a raccontare una storia accattivante di manipolazione e sensualità.

    Forse è tutto un incubo.

    Tutti i colori del buio è uno dei film di Sergio Martino più noti nel panorama del cinema italiano di genere. Un genere cupo, introspettivo e pieno di sorprese come ormai (purtroppo) non si usa produrre più. Ambientato nella Londra anni 70 e apertamente figlio di quell’epoca, vede tra i protagonisti Edwige Fenech e Ivan Rassimov, entrambi interpreti al di sopra delle righe.

    Jane (la Fenech) inizialmente ha un tremendo incubo nel quale vede una donna incinta uccisa su un lettino, un’anziana signora che la fissa, un orologio senza lancette ed un misterioso uomo dagli occhi azzurri (Rassimov). Quest’ultimo, in particolare, sembra perseguitarla dal sogno alla realtà, trovandoselo così in ogni luogo che frequenta, compreso lo studio dello psicanalista che la tiene sotto osservazione.

    Almeno questa è la sensazione che abbiamo nella prima parte del film, dato che le debolezze di Jane emergono lentamente a mostrare un personaggio fragile e facilmente manipolabile. Per cui le sue debolezze, tenute un po’ superficialmente a bada dal pragmatico marito, diventano bersaglio ideale per la vicina della donna, che è adepta di una setta satanica e si offre di aiutarla. Superata l’iniziale riluttanza, Jane si trova coinvolta in un rituale satanico nel quale il “santone” approfitta del proprio carisma per farsela e – neanche tanto strano a dirsi – “liberarla” temporaneamente dalle sue inibizioni e tormenti interiori. Ovviamente non finisce qui: Jane custodisce dei ricordi terribili che riguardano il suo passano, uno dei quali è legato strettamente all’uomo dagli occhi di ghiaccio…“…ma tu non muoverti da casa!”

    Il misterioso individuo continua infatti a perseguitare Jane (almeno è quello che lei crede di vedere, essendo la trama perennemente in bilico tra incubo e realtà). Dopo qualche ulteriore sviluppo della trama, tra cui un omicidio commesso (?) dalla protagonista stessa, si scopre che l’uomo che la perseguita brandisce lo stesso pugnale con il quale ha ucciso la madre di lei, anch’essa coinvolta nella setta. Inoltre Jane ha perso il proprio figlio a causa di un incidente stradale causato dal suo attuale marito, il che spiega il trauma di natura sessuale e la diffidenza verso il consorte. Consorte che, in barba a qualsiasi sospetto lo spettatore possa avere avuto, è l’elemento decisivo per arrivare al finale.
    L’ottima musica in stile prog-settantiano (Bruno Nicolai), con tonalità simili a quelle che possiamo sentire nel repertorio fulciano ed argentiano dello stesso genere, corona un cult thriller morboso e con diverse venature orrorifiche, sempre dosate con giustezza. Nel finale esce dunque fuori l’inaspettata verità, ovvero il marito di Jane ha ordito egli stesso un piccolo complotto al fine di far intascare una cospicua eredità alla moglie, arrivando a fare fuori la cognata. Questo basta a spiegare i continui dubbi ed insicurezze della protagonista, anche se a questo punto il resto della vicenda (esclusa la chiamata dell’avvocato a Jane senza dare ulteriori spiegazioni, quasi messa lì per essere dimenticata) è completamente collaterale alla storia stessa.
    Senza dubbio un film molto ben riuscito che piacerà ai cinefili incalliti – e a chi cerca film “fuori dalle righe”.

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  • La Dama Rossa uccide sette volte: un piccolo cult italiano da riscoprire

    Due sorelle crescono assieme al nonno in una suggestiva villa, e sono terrorizzate da un’antica leggenda che racconta di una Dama Rossa assassina. Diversi anni dopo arriva il momento della scomparsa dell’anziano parente (e dell’eredità), e la misteriosa signora sembra essere di nuovo in azione…

    In sintesi. Uno dei più rappresentativi gialli-horror all’italiana del periodo, non esattamente al top e comunque curioso nel proprio svolgimento. Un cast di discreto livello (la Bouchet domina su tutti) per una variazione sul tema abbastanza originale sul tema del ritorno dalla morte. Da riscoprire tutto sommato anche oggi, meglio se da cultori del genere.

    Sulla carta è uno dei più celebri ed equilibrati gialli all’italiana anni 70: piuttosto ritmato, truculento quanto basta e con elementi originali (su tutti, il killer di sesso femminile dichiarato fin dall’inizio). Evelyn, personaggio misterioso ed emblematico fino alla rivelazione conclusiva (neanche troppo clamorosa, alla fine), è la traccia del passato oscuro alla base dell’intreccio, ed in questo richiama seppur timidamente in molti capolavori argentiani. Una carrellata di belle donne, raramente a tale densità (Sybil Danning, Marina Malfatti ed ovviamente l’iconica Bouchet) rappresenta il tocco di classe e “bel vedere” che non guasta l’atmosfera, anzi contribuisce a renderla ancora più malsana e alimenta il tipico gioco dei “tutti sospettati”. In fondo questo film di Miraglia non è che uno dei tanti gialli all’italiana incentrati sulle alterazioni della personalità, il che già da solo – pubblicità subliminale del J&B a parte – non dovrebbe lasciare delusi, anche se l’ho trovato piuttosto inferiore alle aspettative costruite.

    La caratterizzazione delle due sorelle da bambine, macabro e azzeccato mix di innocenza e ferocia, suggerisce quello che sarà il tema portante del film, rilevando così l’aspetto chiave sullo sdoppiamento di personalità. Ma la trama tende a diluirsi in contorsioni deliranti e, come spesso accade in questi casi, un numero eccessivo di dettagli, situazioni, personaggi: quasi sempre, per la cronaca, aspetti legati all’avidità ed alle perversioni sessuali. Caratterizzazioni di fatto ambigue e costruite con discreta efficacia, che non riescono pero’ a risultare troppo funzionali alla storia (salvo alcuni casi, s’intende).

    È questo, in definitiva, che rende il film parzialmente sopravvalutato, anche se una visione probabilmente finisce per meritarla, per via la doppia interpretazione di Bouchet/Pagliai, piuttosto ben focalizzati e con una discreta dose certa convinzione. In definitiva “La Dama Rossa Uccide Sette Volte“, per quanto disponga di suggestioni sopra la media, proprio per il fatto che manca il tocco “da Maestro” tende un po’ a diluirsi nel contenuto (quasi due ore), che risultando per questo un po’ difficile da seguire in tutto il suo svolgimento e con un finale, a mio avviso, interessante per quanto vagamente “telefonato”.

  • La morte cammina con i tacchi alti: il giallo erotico all’italiana con finale a sorpresa

    Un tale di nome Rochard viene ucciso da un uomo incappucciato: il movente sembra legato ad un tentato furto, così le autorità interrogano Nicole, figlia della vittima e celebre attrice da nightclub. La donna sostiene di non sapere nulla in merito, ma poco dopo l’assassino inizia a minacciarla falsificando la voce mediante un apparecchio elettronico per la gola…

    In due parole. Un thriller all’italiana ambientato in uno scenario da horror classico, con numerosi richiami ai più celebri stereotipi del genere (dinamiche degli omicidi, caratterizzazioni dei personaggi, “scenette” di intermezzo). Questo senza mai abusare del “già sentito”, e presentando piccole variazioni sul tema per un film complesso, avvicente ed altrettanto scorrevole. Finale sopra le righe, con tanto di doppio finale.

    La morte cammina con i tacchi alti” è probabilmente uno dei meglio riusciti gialli all’italiana degli anni settanta, e riesce ad emergere con autorità, incisività e decisione. La trama, costruita sostanzialmente come un poliziesco classico, mostra personaggi apparentemente innocenti e rispettabili, per quanto con un’anima nera che, per alcuni, si rivelerà nel finale. A questo si aggiunge un azzeccatissimo filo di ironia inglese, che riesce a calarsi alla perfezione nel contesto, e soprattutto da parte dell’ispettore di polizia, oltre che dell’immancabile assistente poco sveglio. Nieves Navarro, sensualissima protagonista principale, è perfettamente calata nel proprio ruolo, ed il regista non risparmia occasioni per mostrarne le grazie integralmente; alla donna fanno da contorno svariati personaggi molto ben caratterizzati ed altrettanto avvolgenti.

    Questo per far capire come gli ingredienti de “La morte cammina con i tacchi alti” siano essenziali, ben calibrati e funzionali alla storia, tanto che gli elementi prettamente violenti – per quanto parte integrante del genere – sono ridotti all’osso (l’unica scena gore, di fatto, è talmente cruda che sembra essere stata l’ispirazione delle sevizie psicopatiche del futuro squartatore di New York). Dal canto proprio l’assassino in passamontagna e con gli occhi azzurri (senza impermeabile e cappello nero, tanto per cambiare) mostra la propria identità solo alla fine e questo, naturalmente, costituisce un ulteriore elemento distintivo. Gli elementi del giallo italiano ci sono comunque tutti, a partire dal “doppio ruolo” dei protagonisti a finire col il ritmo, sempre di buon livello ed arricchito da elementi prettamente exploitation (voyeurismo, aggressioni, omicidi e nudi femminili a volte piuttosto gratuiti). Che poi il film sia dimensionato in una direzione rigidamente razionalista (e neanche troppo bizzarra, a ben vedere) non dovrebbe essere una novità per il genere: e proprio nella delineazione del personaggio (e delle sue contraddizioni ambigue) di Nieves Navarro si viene a creare la complessa personalità di una donna, ritratta come in perenne fuga da qualcosa di oscuro e minaccioso.

    Il colpo di scena a metà film, del resto, contribuisce a mettere pepe in una trama che diversamente sarebbe divenuta piuttosto monotona, e questo si sposa alla perfezione con uno dei migliori finali mai concepiti per un film di questo genere nel periodo. Una chicca decisamente imperdibile, in altri termini, che potrebbe aiutare a riscoprire la fama dei giallo-movie presso chi non sia troppo avvezzo alle tematiche ed allo stile.

    “Ma… cos’ha in testa, ispettore?” – “Un cappello”

  • Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Un giallo-horror di vecchia scuola degno di Edgar Allan Poe, accompagnato da un’inquietante nenia suonata con il piano…

    In breve: un Fulci in gran forma produce uno dei suoi migliori lavori in ambito thriller (che fa coppia con “Non si sevizia un Paperino).

    Si è detto a più riprese che Lucio Fulci ha espresso il meglio della propria arte durante la prima fase delle sue produzioni, ovvero quelle che partono dagli anni 60 per arrivare ai primissimi 80: venti anni di cinema anarchico, lontano dalle classificazioni di genere e che rifiutava orgogliosamente le imposizioni da cinema “commerciale”. Il regista diresse horror violentissimi, gialli inquietanti, gangster-movie, western ma anche commedie satiriche e film di Franco e Ciccio, riuscendo quasi sempre nell’intento artistico di farsi notare, di colpire, di scandalizzare la critica come parte di pubblico. “Sette note in nero” è probabilmente uno dei migliori film mai girati dal compianto regista romano: la storia è quella di Virginia, una sensitiva che da ragazzina, stando a Firenze, aveva previsto – in una specie di allucinazione – il suicidio della madre in Inghilterra. Diversi anni dopo è diventata architetto, ed è fresca di matrimonio con Francesco – impegnato uomo d’affari londinese. Un’ affascinante Jennifer O’Neill interpreta la parte di Virginia, il cui “terzo occhio” continua ad avere, anche in età adulta, visioni inquietanti e non sempre decifrabili con facilità: un po’ come accadrà – qualche anno dopo – al professor Johnny Smith ne “La zona morta“. Questa caratteristica, assieme ad una complessa rete di distorsioni ed incomprensioni temporali, costituisce l’autentico colpo di genio del film, soprattutto nelle “stilettate” finali. Durante un viaggio in macchina Jennifer ha un momento di “buio” e vede uno specchio rotto, i dettagli di una stanza ben arredata (ripresa con un “taglio” tipicamente argentiano) ed uno zoppo che mura una donna anziana: come ne “Il gatto nero” di E. A. Poe, anche qui c’è una vittima umana nascosta all’interno di un muro. Sapendo di non essere ascoltata da nessun altro, decide di rivolgersi ad un amico, ex spasimante e para-psicologo (Marc Porel, il prete di Non si sevizia un paperino). Tornata nella villa del marito, che è lontano da casa per lavoro, scopre che al suo interno molti dettagli combaciano perfettamente con quelli della sua visione: il senso di smarrimento e deja-vu è reso qui in modo davvero magistrale da uno dei migliori Fulci di sempre. Lo specchio rotto, il quadro e tutti gli altri dettagli combaciano pero’ fino ad un certo punto: qualcosa è accaduto, qualcosa deve ancora accadere, e in questo puzzle horrorifico i pezzi si incastreranno perfettamente soltanto nello splendido finale. Un film sceneggiato in modo superbo, ottimamente interpretato dal cast, piuttosto simile nella sua dinamica a “Non si sevizia un paperino” con quel pizzico di sovrannaturale che poi sarà marchio di fabbrica della produzione horror fulciana. Con il suddetto lavoro “Sette note in nero” condivide comunque il senso morboso di inconfessabilità del delitto, il continuo “non detto” che aleggia all’interno dell’opera e la favolosa fotografia da incubo di Lucio Fulci. Un classico in ogni senso, certamente da rivedere e riscoprire oggi dopo oltre trent’anni.

    Il tema di Sette note in nero è stato ripreso recentemente da Tarantino per la “riscossa” di Beatrix Kiddo (Kill Bill).

  • Giornata nera per l’ariete: giallo all’italiana da non perdere

    Durante la festa di capodanno il timido John Lubbock – un giovane insegnante – assiste con sofferenza alle effusioni di Isabelle, ricchissima donna del posto, con il suo più grande collega (Valmont), suo promesso sposo. Poco dopo Lubbock viene aggredito da uno sconosciuto mentre torna a casa, mentre Andrea, un giornalista con problemi di alcool, cerca di ricucire il suo rapporto con Helena, la sua ex compagna.

    In breve. Dallo stesso regista de “Le orme“, un thriller italiano sopra le righe, con finale a sorpresa.

    Descritto dai più come film contorto che predilige la forma sulla sostanza, si tratta in realtà di un piccolo gioiello del cinema di genere all’italiana, quantomeno nel proprio genere. Molte tematiche in effetti tipiche (la follia, lo sdoppiamento della realtà e la sua distorsione) sono molto meno approfondite della media, ma esiste certamente più classe cinematografica. L’intreccio è tratto, molto liberamente a quanto pare, dal romanzo The Fifth Cord di David Macdonald Devine.

    Iniziano poco dopo l’avvio del film una catena di omicidi, legati da un filo apparentemente legati alla persecuzione del giovane professore, ma la verità è molto diversa – verrà rivelata solo negli ultimi minuti del film. La prima a morire è la moglie semi-paralizzata del dottor Binni, proprietario ed azionista del giornale in cui lavora Andrea: successivamente il capocronista, ritenuto co-responsabile del licenziamento dal protagonista, viene trovato morto in un parco apparentemente per infarto. La polizia arriva a sospettare dello stesso giornalista, e successivamente muore Isabelle, proprio quando si era decisa a contattare Andrea per comunicargli qualcosa di importante. Infine ad una prostituta tocca la medesima sorte: ogni delitto contiene un preciso indizio, ovvero un guanto con un dito mancante in più ogni volta, a sottolineare il numero di vittime che mancano.

    Chiaro che gli echi argentiani nell’intreccio non mancano, a cominciare dal particolare sfuggente che il protagonista non riesce a ricordare, e che lo tormenterà fin quando non riuscirà a bloccare l’assassino, proprio mentre che sta per aggredire il figlio di Helena, dopo essere penetrato in casa sua. Scena interessante, peraltro, poichè oggetto di un inquietante chiaroscuro: il bambino dovrà fronteggiare l’autentico “uomo nero” da solo, mentre la madre è fuori casa e gli ha giurato per telefono – qualche istante prima – che l’uomo nero … non esiste. Esiste inoltre una certa diluizione nella trama, e questo rischia di non rendere perfettamente fruibile la storia: ma il giallo all’italiana è spesso così, in una forma che aggiunge dettagli apparentemente rilevanti al semplice scopo di confondere un po’ le acque, e rendere meno ovvio lo svolgimento dell’intreccio.

    Incredibilmente si scopre che il filo conduttore degli omicidi è il fatto di essere commessi di martedì, la giornata di Marte, astrologicamente considerata una giornata favorevole per i nati nel segno dell’Ariete, come l’assassino… Nonostante il piccolo azzardo nel finale la sceneggiatura è solida, considerata nella sua interezza: tuttavia alcuni aspetti del film andavano forse approfonditi con maggiore attenzione, cercando di collegare meglio i vari personaggi che in verità rimangono abbastanza sconnessi (il film rimane poco impresso, tant’è che ho dovuto rivederlo una seconda volta per recensirlo). Superato questo difetto di massima, le interpretazioni sono molto convincenti, ed ho trovato particolarmente azzeccato lo stile da noir puro con Andrea che, con il suo impermeabile caratteristico, commenta dall’esterno lo svolgimento dei fatti nel finale, neanche fosse il cinico Henry Fonda di “Milano odia…”. La frase dell’assassino a circa metà film (“La prossima vittima è già scelta, il modo della sua fine deciso. Al di là dell’esaltazione c’è qualcosa di profondamente divino nel trasformare un essere sofferente in materia inanimata, per l’eternità“) è ripresa dal pezzo “94x Flashback di massacro” di “Misantropo a senso unico” dei Cripple Bastards.

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