MISTERO_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori gialli usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Un giallo piuttosto appetitoso per gli amanti del genere, condito da trama intrigante, vaghi elementi sexploitation ed una trama piuttosto intricata: l’inquietante colonna sonora, dai richiami dichiaratamente argentiani (come del resto l’intero intreccio) è stata firmata da Ennio Morricone.

    In breve: una storia incalzante, poco ed intenso splatter, qualche sbavatura sparsa ma tutto sommato pienamente godibile. Per amanti del giallo all’italiana e dell’exploitation.

    Inizialmente vediamo un uomo (che si scopre essere un investigatore privato, Umberto Paradisi) che si aggira nei pressi di uno stagno, dando indicazioni al manovratore di una scavatrice: l’uomo viene decapitato dalla benna della macchina, senza che si veda il volto dell’asssassino. La polizia inizialmente indirizza le indagini sull’operaio che sarebbe dovuto essere al lavoro sul posto, ma dopo poco lo stesso viene trovato impiccato: si tratta, neanche a dirlo, di un suicidio simulato. L’attento poliziotto Peretti (George Hilton, volto noto dei 70) indaga quindi su un caso di omicidio piuttosto complesso: un personaggio perfetto, impeccabile sul lavoro, ma con più di un problema con la compagna (una poco convincente, a mio parere, Helga Linè). Dopo l’inizio di una catena di omicidi, che ricollegano il caso ad un precedente di una bambina rapita assieme al padre e morta di inedia nel covo dei sequestratori, verrà a galla la verità in un finale tutto da gustare.

    Dario Argento aveva creato uno stile, che si era delinato attraverso quelli che sarebbero diventati gli archetipi di cui fu artefice (su tutti, l’assassino dai guanti neri): in questo film di Valerii non si tratta, per la verità, di semplici richiami stilistici. Il film è totalmente immerso nello spirito delle opere del regista argentiano, visto che c’è quasi tutto quello che ha inventato il primo argento: il disegno infantile risolutore, la nenia inquietante a sottolineare i momenti topici, il passato torbido di uno dei protagonisti, i familiari della vittima che nascondono un orribile segreto, addirittura i personaggi-macchietta che intervallano i momenti di tensione del film. Del resto a chi sarà venuto un colpo pensando ad una squallida scopiazzatura di Profondo rosso o Quattro mosche di velluto grigio, posso dire di stare tranquillo: ci sono infatti almeno due elementi originali e di rilievo in “Mio caro assassino” (senza contare, forse, la banalità del titolo).

    Il primo è che il commissario di polizia (Hilton), sicuro di sè e figlio dei detective razionalisti dei gialli classici, è costretto a risolvere ben due casi collegati tra loro, e questo lo porta a considerare una ragnatela insolitamente fitta con almeno dieci personaggi sospetti, eliminati poco per volta dalla mano crudele dell’assassino. I personaggi sono tutti ben caratterizzati e preziosi per l’intreccio, anche se diventa facile perdersi nei dettagli, in certi casi. Il secondo aspetto secondo me “cult” di “Mio caro assassino” riguarda alcuni inserti davvero originali, come il killer che agisce in soggettiva e “in diretta”: noi non riusciamo a capire chi sia, ma in almeno due momenti decisivi “vediamo” con i suoi occhi. Questo avviene anche, ad esempio, nella scena in cui uccide con la fresatrice. Questo secondo me è un elemento notevole, che conferisce uno spessore insolito rispetto alla sostanziale exploitation presente nel film (lo splatter da manuale della scena appena citata, i nudi belli ma totalmente gratuiti di Helga Linè e della maestrina Mary Shepard, il criticatissimo nudo della bambina-modella dello scultore pedofilo)

    Del resto si tratta di un giallo “puro”, condito da elementi extra non sempre molto coerenti: del resto, ci vorrà ancora una decina di anni perchè giallo ed horror possano unirsi con gran classe, e declinarsi in una delle migliori opere italiane di sempre. Non voglio abusare delle citazioni di Argento perchè è possibile che il regista abbia avuto diversi pugni allo stomaco dalla visione di questo film, che per molti versi ne ricalca fedelmente scenari, ambientazioni e stilemi. Mi pare inoltre ci sia stato un piccolo errore da parte del regista probabilmente in fase di montaggio, che consentirà allo spettatore più “cattivello” di capire subito chi sia l’assassino: basta fare caso alla macchina ed al  suo brand che viene esposto più volte. Un peccato, lo dico senza sarcasmo ovviamente, perchè in fondo dato il contesto, l’epoca ed il confronto con film piuttosto discutibili diffusi in quel periodo, va bene anche  così. Non male il finalone alla Agatha Cristie, con il poliziotto che passa in rassegna tutti i potenziali indiziati svelando il dettaglio rivelatore soltanto nell’ultimo fotogramma, creando una tensione ed un’aspettativa nello spettatore secondo me senza pari.

     

  • La tarantola dal ventre nero: il giallo all’italiana di Cavara del 1971)

    Maria Zani, ex moglie di un assicuratore romano viene brutalmente uccisa da un assassino dall’impermeabile nero, che usa degli aghi da agopuntura per immobilizzare le sue vittime.

    In breve. Cavara gioca con i film inventati da Argento, a cominciare dal titolo “animalesco” : qualcosa di già visto, già fatto e già sentito, ma l’importante in questi casi è mantenere vivo l’interesse, cosa che avviene con grande eleganza.

    Ispirandosi alla lotta tra una vespa ed una tarantola, nella quale la prima usa paralizzare l’altra con il suo pungiglione lasciando che siano le larve deposte nella ferita a fare il resto, Cavara presenta un assassino atipico che imita tale modalità. Egli infatti uccide le vittime paralizzandole con un ago nel collo, facendole rimanere coscienti (ed inermi) mentre le finisce con un coltello. Un particolare agghiacciante che rende l’idea di un sadismo – per la verità piuttosto consueto – da parte di molti killer visti sullo schermo all’epoca, mentre la presenza di un cast davvero di livello (Sandrelli, Giannini, Bouchet, Falk) garantisce che non si tratti di uno sterile trattato sul gore come se ne vedevano troppi all’epoca.

    L’ennesimo giallo all’italiana, quindi, basato su ambigui doppi giochi, forse un po’ troppo evocativo  dei capolavori argentiani ma sostanzialmente diverso da questi ultimi come forma e sostanza: la regia è di grande livello, la fotografia incanterà gli appassionati del genere e si conferma la triade tipica del genere: momenti di violenza insana, storie di personaggi quotidiani e macchiette teatrali. Il commissario dal volto umano (Giancarlo Giannini) indagherà sull’omicidio della bellona ambigua di turno (Barbara Bouchet), trovando lentamente l’identità di un insospettabile assassino dall’impermeabile nero e guanti, su cui probabilmente Argento potrebbe un giorno esigere i diritti d’autore. Tra le curiosità, un errore di inquadratura che permette di vedere uno dei membri della troupe – in maglietta blu – durante le movimentate riprese del secondo omicidio.

    Imprevedibilità ed una storia che diventa avvicente a partire dalla sua spiegazione biologica  fa diventare “La tarantola dal ventre nero” una piccola chicca del suo genere, capace di proporre un insolito parallelismo tra il comportamento della razza umana e quella animale, e proponendo nel finale l’identità di un assassino del tutto insospettabile e dal movente imprevedibile. Ma questo in fondo si sa: l’importante è che non annoia, intriga, diverte e non sfigura neanche oggi. Favolosa la colonna sonora di Morricone, e da segnalare la tela di ragno che si sovrappone all’immagine nei titoli di coda. Da vedere.

  • Non si sevizia un paperino: uno dei film di Fulci che amiamo di più

    Un giornalista ed una donna indagano su alcuni omicidi di ragazzini avvenuti ad Accendura, paese retrogrado dell’Italia meridionale.

    In breve: nonostante il titolo inquietante, si tratta di un film che fa molta attenzione a ciò che vuole trasmettere. Non manca il macabro, c’è un orrore “sporco”, che fa sentire sporchi – ma il messaggio sovversivo (anti-clericale) è altrettanto incisivo.

    Secondo Troy Howarth, Non si sevizia un paperino è sostanzialmente un film rabbioso (angry film): lo è essenzialmente per la sua estetica visuale che accarezza l’exploitation fin dalle prime sequenze (lo scheletro di un neonato che viene disseppellito). Ma lo è anche perchè si distacca dai canoni americani dei Jack e delle Jennifer a Londra o a New York, ambientando uno dei suoi thriller più macabri in un paesino dell’Italia meridionale, esibendo un atto registico coraggioso che avrebbe pagato soprattutto nel lungo periodo.

    Nel 1972 Lucio Fulci gira uno dei suoi migliori film, che considererà sempre uno dei suoi preferiti in assoluto: e non è poco, anche solo per il piglio iper-critico che aveva sempre accompagnato il famoso regista romano. Trattando temi scottanti per l’epoca (pedofilia, superstizione, intolleranza verso le le donne e le minoranze, ghettizzazione della maciara considerata colpevole solo perchè atipica) Fulci ambienta questo thriller atipico all’interno di un paese immaginario (Accendura), emblematico di un certo modo di pensare – e nel quale è all’opera un assassino di ragazzini. A rendere ancora più morboso il tutto, si aggiunge un’evidente movente di natura sessuale nei vari delitti: e così l’innocente paesello fatto di noia, di pettegolezzi e di vuoto diventa teatro di un macabro intreccio, grazie alla maestria del grande regista ed i suoi inconfondibili tocchi di classe.

    La polizia avvia le indagini, ogni paesano diventa un potenziale colpevole e vengono accusati ingiustamente prima lo scemo del villaggio, poi la “maciara” (Florinda Bolkan, considerata una vera e propria strega e massacrata di botte nella celebre scena con “Quei giorni insieme a te” di Ornella Vanoni a fare da chiaroscuro) e anche la donna più bella del paese, una disinibita Barbara Bouchet, contro cui il pregiudizio popolare colpisce duramente perchè cittadina e dipendente da droghe (l’attrice viene ricordata soprattutto per la celebre sequenza in cui si mostra senza veli di fronte ad un ragazzino: il prezzo da pagare per questa scena fu una denuncia, ma il giudice diede ragione al regista romano che, in realtà, aveva utilizzato un espediente per evitare che il minore vedesse l’attrice nuda: un nano come controfigura). A seguire le indagini vi è il giornalista Andrea Martelli (uno strepitoso Thomas Milian, in una interpretazione che ne mostra le doti attoriali in maniera decisiva, al netto degli stereotipi che lo associato a personaggi perlopiù da commedia), il quale indaga sugli strani fenomeni e che, sulla falsariga dei protagonisti dei film di Dario Argento, si fa letteralmente ossessionare dalla storia fin quando non riesce a venirne a capo.

    Fulci calca la mano sull’ipocrisia del piccolo paese, che si mostra superficiale, mostruoso nella propria ignoranza, forte con i deboli e debole con i forti a cominciare dalle autorità: nel frattempo i dettagli macabri e i cenni al voodoo diventano uno scenario perfetto per denunciarne i suoi pregiudizi e – in definitiva – la voglia maniacale di trovare un capro espiatorio, solo per lavarsi la coscienza. Potrebbe suonare anomala la scelta di una colonna sonora nostalgica, ma tutto sommato “leggera”, per accompagnare una delle scene più celebri e cruente del film: mentre vengono scandite le note di “Quei giorni assieme a te“, infatti, la povera “maciara” viene aggredita brutalmente a colpi di spranga e catene. Una critica simbolica alla mentalità retrograda (tipica del meriodione ma non solo, in effetti, e di cui avvertiamo vari echi ancora oggi), quelle che semplificano brutalmente i fatti per trovare un colpevole in modo populistico, senza preoccuparsi della verità. Il mondo di Non si sevizia un paperino è un mondo che ha rinunciato a conoscere le cose come stanno, ed elegge la realtà per mera votazione “a maggioranza”. L’essenziale si esprime proprio in quella musicalità romantica, unita alla nostalgia dell’amore perduto espresso dal pezzo, fa violentemente da contrappunto alla violenza visiva delle scene, e soprattutto all’immoralità dei protagonisti ed alla loro violenza machista.

    Per via delle tematiche trattate e della sostanziale critica alla chiesa cattolica, il film è stato messo in blacklist al tempo dell’uscita ed ebbe qualche problema di distribuzione (limitata in Europa, mai arrivato negli USA). Limiti che poi, ovviamente, le distribuzioni in DVD (ad esempio quella della Anchor Bay) ed i servizi di streaming hanno abbondamentemente permesso di superare.

    “Non si sevizia un paperino” è uno dei capolavori del giallo-thriller all’italiana, nel quale le interpretazioni sono tutte sopra le righe, e nel quale resta spazio per mostrare un’ottima sceneggiatura, un’ambientazione da incubo ed un’estetizzazione della violenza a voler rappresentare le brutture dei pregiudizi e dell’intolleranza verso il “diverso”. La conclusione del film, basata sull’osservazione di un pupazzo di Paperino privato della testa (da cui il titolo), mostra che a compiere i delitti era un personaggio davvero insospettabile – per via dei presupposti impostati all’inizio, ed anche qui la sceneggiatura di Fulci, Gianviti e Clerici si esalta in tutta la propria maestria.

    Opera dalla nascita e dallo sviluppo tormentatissimo, “Non si sevizia un paperino” fu uno dei pochi film in cui il regista ebbe massima libertà espressiva, nonostante l’evidente impopolarità dell’ambientazione e l’intreccio morboso obiettivamente “difficile” da proporre e girare senza problema (pare ci furono problemi con la Disney per via del titolo, che venne cambiato da “Non si sevizia Paperino” a “Non si sevizia un paperino“). Un cult dell’horror all’italiana da avere in DVD ad ogni costo, e del quale esistono almeno due versioni (la uncut del DVD andata in onda anche sul satellite, e la televisiva che è solitamente tagliata nei momenti più macabri).

    Le due versioni più popolari in DVD sono quella della Arrow e quella Medusa.

  • Non ho sonno: la storia dei delitti del nano

    Ulisse Moretti (Max Von Sydow) indaga sul serial killer denominato “Il Nano”, considerato responsabile di almeno tre omicidi, collegato ad una storia di 17 anni prima…

    In breve. Epigono di Profondo Rosso ricco di suspance, forse prevedibile in alcuni suoi sviluppi quanto considerevole nel suo insieme. Argento non è inferiore alle aspettative, e si diverte con le citazioni da altre sue opere.

    Contaminatissimo dai suoi precedenti lavori, e con la collaborazione dei Goblin alla colonna sonora e di Sergio Stivaletti agli effetti speciali, Dario Argento produce uno dei suoi migliori film recenti, forse perchè influenzato in modo spinto dalle produzioni per cui è diventato famoso: è evidente che la storia dell’assassino di una medium ha giocato un ruolo determinante, soprattutto nella definizione delle scene clou (ne cito tre: la vivida morte per mano di un clarinetto, l’omicidio sul camino e la morte per soffocamento). Insanamente violento e curatissimo nei dettagli (come la prima morte sullo schermo, che sembra essere uscita da Tenebre), fu interpretato magistralmente da Max Von Sydow e preso un po’ alla leggera, a mio parere, dagli altri interpreti (ad esclusione della lucida follia dell’insospettabile assassino). La storia è ambientata nella Torino in cui vive la vicenda del pianista jazz, e racconta di un criminale che torna ad uccidere senza un apparente motivo dopo 17 anni. Sul suo conto indagano un commissario di polizia ed il figlio di una donna uccisa 17 anni prima in circostanze misteriose: l’assassino è un copycat, oppure si è risvegliato?

    Bellissima la storia basata sui ricordi ricostruiti dal protagonista, costruita grazie all’ausilio del giallista Carlo Lucarelli, perfetto ogni piccolo dettaglio di “Non ho sonno“: a partire dalla filostrocca di morte, all’aspetto scaramantico legato ai 17 anni, alla costruzione di Ulisse Moretti, sintesi argentiana di molti poliziotti visti in precedenti film. Probabilmente, invece, l’escamotage con cui si rivela l’assassino non è pienamente all’altezza della genialità delle opere precedenti: del resto basta guardare con attenzione il film per intuire quale esso sia, e questo un po’ stona nel quadro argentiano che da sempre si prefigura come una macchina mortale perfetta e senza una sbavatura. Del resto resta vero che dopo tanti successi si crei un clima di aspettativa insostenibile, che porta a sottovalutare tutto quello che esce oggi solo perchè, appunto, “non è roba degli anni 70/80“.

    Ad ogni modo la nostra onestà di spettatori dovrebbe imporci di affermare che “Non ho sonno” è un buon film focalizzato con cura e passione per il giallo classico, che fa invidia alle tante produzioni banali odierne.

  • L’etrusco uccide ancora: l’horror thriller italiano dal finale clamoroso

    Un archeologo, con un passato da alcolista e tormentato dal ricordo dell’ex compagna, lavora intensamente presso alcuni scavi tra Spoleto e Cerveteri. Alcuni feroci delitti saranno commessi all’interno delle catacombe…

    In breve. Thriller di “vecchia scuola” italiana, che bilancia la componente horror con quella puramente di tensione, senza mai eccedere nè eccellere, nell’una o nell’altra. Un lavoro nella media del periodo, per cultori e veri appassionati del genere, che rischia di deludere tutti gli altri – nonostante qualche colpo di scena interessante (specie nel finale).

    Armando Crispino, artefice del meglio riuscito Macchie solari (che risulterà qualitativamente superiore a questo sotto vari punti di vista)  realizza un giallo-thriller piuttosto intricato fin dall’inizio, tanto che non riesce ad essere chiaro lo stesso ruolo dei vari personaggi almeno per la prima mezz’ora. In seguito il film, sulla scia di varie suggestioni pre-argentiane (gli omicidi efferati, l’allucinazione – un po’ troppo artigianale, per la verità – del demone Tuchulcha che compare nella locandina) tenta un decollo qualitativo che sembra apparentemente realizzabile, per quanto – a confronto di quello che farà Argento qualche tempo dopo – il film sia quasi completamente carente del giusto ritmo. La recitazione non esattamente da Actor’s Studio della maggioranza dei personaggi, inoltre, con poche eccezioni tra cui l’ispettore di polizia ed il suo assistente, non contribuisce a rendere “L’etrusco uccide ancora” un lavoro da ricordare, e questo nonostante l’idea di inserire le suggestioni del demone etrusco della morte fosse obiettivamente parecchio accattivante (almeno per l’epoca). Appare comunque chiaro fin dall’inizio che il killer è un uomo e non un’entità, e la componente sovrannaturale finisce sia per essere un fondale degno dell’intreccio che per conferire una certa “autorità” al film stesso: questo nonostante non manchino dettagli tipici del genere che pero’, a ben vedere, non risultano essere troppo sconvolgenti.

    Notevole, su tutto il resto, come il doppio-finale (qui talmente esasperato da sembrare addirittura quadruplo, per quante sono le apparenti identità dell’assassino) sia archetipico del succitato regista romano, che ne aveva già fatto uso per la prima volta ne “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970, due anni prima). In definitiva un discreto giallo all’italiana, con vera tensione solo a sprazzi, originale solo in parte e – a mio avviso – ampiamente sopravvalutato dalla critica più “revisionista” in materia: il suo principale problema è la mancanza di quel mordente che rende davvero uniche pellicole di questo tipo. Da vedere per curiosità o per una serata senza troppe pretese.

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