Due piccoli criminali romani tramano per vendicarsi di un boss infido e molto potente, intento a monopolizzare le attività criminali della città.
In breve. Lineare, diretto e cinico quanto basta, risulta forse poco credibile in certi frangenti. Manca pure di autentici twist che ne decreterebbero uno status qualitativo più elevato. Nonostante tutto, un film che continua ad essere citato e discusso nel sotto-genere noir poliziottesco, pur essendo abbastanza lontano dal capolavoro.
I padroni della città rientra tra i film di Fernando Di Leo, di genere ovviamente poliziottesco; uno dei registi più sottovalutati in vita e riscoperti dopo la scomparsa (nel 2003), soprattutto in funzione delle dichiarazioni di Quentin Tarantino e del lavoro imponente di recupero e riscoperta da parte della rivista Nocturno. Film, in questo caso radicato, in una realtà specifica (quella romana degli anni ’70) e con richiami alla produzione più nota del regista (per intenderci, Milano Calibro 9). Guardare questo lavoro, distribuito dalla Troma di Lloyd Kaufman negli USA con il titolo di Mister Scarface, significa apprezzare aprioristicamente il sottogenere nonchè scontrarsi con una perenne sensazione di “già visto“, tipica delle rielaborazioni del genere e di quello che si potrebbe, a tutti gli effetti, considerare un ennesimo spin-off.
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Spin-off un tantino autoreferenziale che, di fatto, rischia un po’ di prefigurarsi senza infamia e senza lode, essendo peraltro l’ultima produzione ufficiale della Daunia 80 Cinematografica, la casa cinematografica fondata dallo stesso Di Leo. Scrivo questo soprattutto perchè, nonostante sia evidente un tono narrativo che prova ad emulare (non sempre riuscendoci, forse) quello dei migliori film di Thomas Milian, i “cattivi” non sembrano abbastanza incisivi, come peraltro evidenziato da certa critica – ad esempio nelle scene di inseguimento, oltre che nelle scazzottate varie che ricordano più gli immarcescibili Bud Spencer e Terence Hill, che un vero e proprio noir. A questo, si aggiunge un tono relativamente leggero dell’opera, il che è abbastanza distante dal cinismo “filosofico” e senza speranza di altre opere di Di Leo, che lasciano comunque al pubblico un film relativamente gradevole e con siparietti imprevedibili e – tutto sommato – divertenti.
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Il film è caratterizzato da una tonalità narrativa duplice: da un lato un classico noir-poliziottesco, ricco dei consueti riferimenti iconografici, vari voltagabbana, tradimenti e vendette decennali, dall’altro un tono insolitamente ironico, ad esempio da parte del simpatico protagonista chiaramente ispirato al personaggio di Harry Baer (sia per il sarcasmo che per l’essere o voler sembrare un tombeur de femmes).
Al sonoro, come di consueto, le atmosfere suggestive create dal genio musicale di Luis Bacalov, un vero e proprio marchio di fabbrica e simbolo di qualitò, parzialmente sottovalutato specie in film non eccelsi come questo. Interessante anche segnalare l’incipit de I padroni della città, quasi onirico e surreale, che mostra un ricordo da ragazzino di uno dei protagonisti, che si vede uccidere il padre senza avere la forza di farci nulla, per poi tornare da adulto sulle tracce dell’assassino. Il tutto a dispetto di un finale tutto sommato banalotto (in breve: “‘nnamo mBrasileeh“), e di un climax narrativo che appare prevedibile e fin troppo lineare, oltre che privo di autentici twist. L’ambientazione si muove essenzialmente su una bisca clandestina e sulla consueta rivalità tra gangster, in particolare tra la banda che la gestisce e una rivale, truffata da un abile scagnozzo in un affare di diversi milioni (ovviamente, del vecchio conio).
Produzione italo-tedesca del 1976, fu girato prevalentemente a Roma e negli storici studi De Paolis, annoverando tra gli altri Harry Baer (noto per i ruoli nei film di Fassbender), Vittorio Caprioli (il coloratissimo e caratterizzato “Napoli“), il “fulciano” Al Cliver (Zombi 2), Jack Palance, Gisela Hahn e – tra varie bellezze ambosessi e mini-caratterizzazioni popolane – una ballerina (non accreditata, da quello che risulta) che prova a evocare Barbara Bouchet nel ruolo analogo, esibendosi in una sensuale danza decisamente simile (oltre che rigorosamente ripresa dal basso verso l’alto).
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Tra le location più celebri e riconoscibili del film, l’ormai ex mattatoio a Testaccio (dove la storia inizia ed è destinata a finire), uno scorcio di piazza Cavour e la scalinata in via San Simone.