Ospite Inatteso

  • Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    “Enemy” è un film del 2013 diretto da Denis Villeneuve e basato sul romanzo “The Double” di José Saramago. Il film è noto per la sua trama complessa e ricca di simbolismi, che ha portato a numerose interpretazioni e discussioni tra gli spettatori.

    La trama segue la vita di Adam Bell, un insegnante di storia noioso e insoddisfatto, interpretato da Jake Gyllenhaal. Un giorno, guardando un film, Adam nota un attore che assomiglia in modo sorprendente a lui. Adam inizia quindi a indagare sulla vita dell’attore, Anthony Claire, che è anche interpretato da Jake Gyllenhaal.

    Man mano che la trama si sviluppa, emergono parallelismi e simboli che suggeriscono che Adam e Anthony potrebbero essere la stessa persona, o almeno rappresentazioni simboliche di parti della stessa personalità. Entrambi i personaggi condividono una relazione complicata con le donne nella loro vita, che a loro volta sembrano avere connessioni e parallelismi.

    Il film è caratterizzato da una forte atmosfera onirica e surreale, con una fotografia cupa e una colonna sonora inquietante che contribuiscono a creare un senso di tensione e mistero. La narrazione ambigua e aperta a interpretazioni multiple ha portato a numerose teorie e discussioni tra gli spettatori sul significato e sulle implicazioni della trama.

    In definitiva, “Enemy” è un film che sfida lo spettatore a riflettere sul concetto di identità, doppio e la natura oscura della psiche umana. La sua natura enigmatica e simbolica lo rende un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per chi è disposto ad affrontare il suo mistero.

  • TRASGREDIRE: il manifesto dell’eros secondo Tinto Brass

    Carla è alla ricerca di un appartamento a Londra da condividere con lo studente di cui è innamorata, Matteo.

    In breve. Un micro-saggio di erotismo del Maestro italiano, semplice nella sua struttura quando significativo all’interno della produzione brassiana. Nonostante alcune situazioni possano sembrare forzate (e questo non aiuta la componente suggestiva), il film è simbolico di un modo di intendere l’eros tuttora attuale.

    Film emblematico della più recente ondata brassiana di erotismo, quella che aveva deciso di attualizzarsi ed abbandonare le ricostruzioni storiche. La figura di Carla, interpretata dalla bellezza statuaria, sublime e abbagliante di Yuliya Mayarchuk (una Musa quasi simbolica – senza slip, con le calze colorate e l’ombrello – di questa fase del cinema di Brass) è la tipica donna che alterna ruolo di dominatrice e dominata, persa tra i meandri di un erotismo che la cerca, senza mai soddisfarla seriamente. Come è sua consuetudine, i toni del film giocano sull’ironia e su un’idea del sesso gioiosa quanto poco preventivabile, e questo a cominciare dal titolo, in bilico tra il tradimento e la trasgressione.

    La figura del protagonista maschile, poi, è apparentemente il tipico tonto medio (che si può apprezzare egualmente nei film di Russ Meyer come Supervixens) in cui paure, educazione e perbenismo gli impediscono di godersi edonisticamente il sesso – cosa che il film sembra invitare il pubblico a fare fin dall’inizio, senza pensieri nè remore.

    Questo è anche un po’ il senso della pellicola, al netto delle numerose scene erotiche (a volte ben costruite e suggestive, altre vagamente forzate o irrealistiche): se all’inizio Matteo impazzisce di gelosia nell’immaginare la propria donna guardata da altri, in una relazione lesbica, di gruppo o etero che sia (e rapito da questa ossessione nemmeno si accorge che Carla vorrebbe fare del sesso telefonico con lui), successivamente sblocca la situazione in modo radicale. Lo fa nell’unico modo realistico: chiedendo alla propria donna di mentirgli, di non raccontargli mai una verità che demolirebbe l’immagine idealizzata di cui è geloso.

    Un piccolo dramma-commedia a tinte fortemente erotiche, forse non il migliore della lunga serie del regista (questo soprattutto per via di interpretazioni non sempre all’altezza della situazione), ma che oggi può essere riscoperto perchè, nella sua leggerezza, di un minimo interesse cinefilo. La versione inglese del film (quella italiana si trova facilmente in rete) è leggermente differente a livello di montaggio, presenta i credits iniziali con il titolo inglese “Cheeky” (in inglese sfacciata/o) e manca del primo minuto iniziale di riprese. Anche la musica di apertura, nell’edizione anglofona, è leggermente differente.

  • Maniac Cop: la violenza poliziesca secondo Lusting

    Un poliziotto di stazza enorme uccide innocenti a casaccio: la polizia brancola nel buio, e sembra nascondere qualcosa…

    In breve. Un film probabilmente nell’oblio per i più, ma di grandissimo valore: intreccio tra poliziesco e horror-slasher, racconta la storia di un agente di polizia psicopatico che uccide apparentemente senza motivo. Cresce la diffidenza della popolazione verso le autorità, e lo spettatore è coinvolto in una storia senza respiro.

    Cult diretto dall’esordiente William Custig, ma realizzato (produzione e soggetto) da parte del Larry Cohen che ha diretto “Cellular“, “In linea con l’assassino” e il mitico “The stuff – Il gelato che uccide“: ritmo e storia da poliziesco, con linguaggio da horror ottantiano puro. Il poliziotto sadico massacra la popolazione, ed attenta alla vita di alcuni colleghi, mentre la storia riesce a coinvolgere lo spettatore fin dai primi istanti: notevoli i momenti di tensione, mentre la natura del bestione protagonista viene delineata da tratti oscuri.

    Splendido il personaggio di Tom Atkins, il poliziotto dal volto umano, eccellente anche Bruce Campbell (La casa) e di tutto rispetto il cast in generale; tipicamente ottantiane le musiche, tanto che nelle buie scene metropolitane sembra che l’ispettore Callaghan debba uscire fuori da un minuto all’altro. Piacerà agli amanti dell’horror e, probabilmente, anche a quelli del poliziesco esplicito anni 70. Un po’ confusa la storia dei titoli italiani: il primo episodio della saga è Maniac Cop – Poliziotto sadico, seguito da Maniac Cop – Il poliziotto maniaco (orig. Maniac cop II) e da Maniac Cop 3 – Il distintivo del silenzio. Un film da riscoprire.

    Come può la popolazione difendersi se non è informata sul fatto che uno degli agenti di questa città potrebbe essere uno psicopatico, il cui intento è di uccidere senza motivo delle vittime innocenti?

  • Io, Caligola: un film scabroso a sette facce, rinnegato da chiunque

    L’imperatore Tiberio sta per morire, e convoca il successore Caligola, suo nipote, dedito ad una vita più dissoluta della sua.

    In breve. Sesso esplicito e violenza nella Roma decadente dell’epoca: ecco la storia di Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico vista dalla regia di Tinto Brass. In verità, questo è vero solo sulla carta. Il film ebbe una produzione travagliatissima, il regista venne licenziato prima della fine dei lavori e ci furono incalcolabili problemi con la censura (e con varie forme di boicottaggio).

    Se la Mirren (che nel film interpretava il personaggio Cesonia) commentò sobriamente dopo la fine delle riprese di “un mix irresistibile di arte e genitali“, Rogert Ebert parlò di “vergognosa spazzatura“, stigmatizzandone la partecipazione di attori di grosso calibro. Il Malcom McDowell di Arancia Meccanica interpreta Caligola, e la scelta sembra essere felicissima – fa anche sorridere che qualche movenza dell’imperatore decadente per eccellenza ricordi quella di Alex, soprattutto quando cerca falsamente di convincere chi teme (autorità o rivali al potere che siano) che la situazione sia sotto controllo. Non valgono a molto, viste oggi, le pesanti critiche che vennero mosse a Caligula, anzi lette oggi sembrano piuttosto fini a se stesse, come spesso accade nel caso di film banditi dal genere umano per scelta di uno o più censori: naturale pensare anche a Morituris.

    Quattro furono gli anni necessari per girare questo film, che in Russia fu vietato fino al 1993, in Australia fino al 1981; bisognerà aspettare il 1984 per la versione uncut vietata ai minori, “lusso” che durò qualche anno, perchè di divieti assoluti ne arrivarono altri due, nel 2005 e nel 2010. In Brasile Io, Caligola venne trasmesso in TV solo parzialmente, per poi sparire per sempre in seguito alle proteste degli spettatori (che non videro mai la seconda metà). In Bielorussia, poi, questo film non circola neanche oggi. Un vero e proprio “bollettino di guerra“, insomma, per uno dei film che – come avvenuto anche per La fortezza di M. Mann, ad esempio. – avrebbero potuto essere qualcosa di memorabile, se solo ci fosse stata unità di intenti e – mi permetto di aggiungere – rispetto delle libertà artistiche.

    Basato su un’idea dello scrittore Gore Vidal, il soggetto è fortemente incentrato su un focus sul mondo dell’omosessualità, che pero’ nella pellicola si nota solo in parte (eufemismo per non scrivere molto poco). Il girato vide un primo cambio di rotta nell’imposizione di Bob Guccione (produttore, oltre che regista, di alcune sequenze aggiunte/manipolate in seguito), il quale temeva, con la scelta di mostrare rapporti gay, di andare contro i gusti del famigerato “grande pubblico”. Per protesta Vidal non volle farsi accreditare tra gli autori, ma venne comunque pagato 225.000 dollari, a quanto risulta.

    Non si può dire che Caligula sia nato sotto una buona stella, e questa prima discrepanza artistica fu solo l’inizio di una storia che vide scandali, licenziamenti, soldi investiti e mai più recuperati, critica schierata militarmente contro il film e via dicendo. Parliamo di quello che, secondo IMDB, fu uno dei film indipendenti (quando fare film indie non era roba da hipster, forse) più costosi della storia, che diede lavoro a più di 1500 persone tra attori, tecnici, addetti ad effetti speciali e via dicendo. Eppure, paradosso dei paradossi, a nessuno sembra importare della sostanza del film, che – sia pur nei suoi eccessi erotici – sembrava addirittura esserci, per quanto un film manipolato ad arte possa consentire. Caligula è significativo ancora oggi per quanto rientri nelle grandi occasioni mancate (e non per colpa di un singolo, beninteso) perchè sarebbe forse potuto essere una delle migliori trasposizioni storico-decadenti sull’Imperatore in questione. Parliamo di pure speculazioni, ovviamente, che mai potremo provare o smentire, ma tant’è.

    Tra gli attori che non vollero farsi coinvolgere nel progetto, per la cronaca, troviamo sia Orson Welles, il quale indicò motivi morali per questi diniego, e Maria Schneider, che aveva iniziato a girare le prime scene – ma che venne sostituita perchè in imbarazzo nel girare le scene di incesto (l’imperatore Caligola aveva infatti una relazione incestuosa con la sorella Drusilia). Del resto le sequenze grevi nel film non mancano: al di là di nudi più o meno artistici o necessari cosparsi in tutto il film, molte sequenze finiscono per evocare una lettura da cinema pasoliniano, dove l’obiettivo è quello di esorcizzare gli abusi del Potere mediante la rappresentazione di sesso e decadenza. Brass (e/o Guccione) non risparmia nulla e mostra scene di sesso di gruppo, omosessuale quanto eterosessuale, inasprendo le stesse in modo imprevedibile (si vede anche una castrazione punitiva, ad esempio, ed una brutale sodomia) e rendendo gli atti stessi quasi indispensabili al mantenimento di un impero che, con Caligola, sembrava avviarsi alla rovina.

    Stai assistendo alla … distruzione dell’Urbe!

    Una delle scene più note, del resto (lo stupro di Proculo e della sua promessa sposa) è una chiara metafora modello A Serbian Film, in cui si condanna e si esemplifica l’arbitrio e la prepotenza del potere (ovviamente personificato da Caligola) nei confronti di chi, come viene detto apertamente, ha come paradossale “colpa” quella di aver servito fedelmente Roma. Se il principio a cui si ispira l’Imperatore è degradato, pertanto, è chiaro che qualsiasi personaggio retto sarà condannato per colpa di un diabolico contrappasso. Ed in quest’ottica la sodomizzazione di Proculo (che McDowell rifiutò di girare, e Brass trasformò in un brutale fisting non inquadrato), probabilmente fu ancora più traumatizzante per lo spettatore. Per inciso, durante la scena in questione, più volte l’Imperatore invita la vittima ad assistere ad occhi aperti, omaggiando implicitamente la cura Ludovico di kubrickiana memoria.

    Io, Caligola meriterebbe, al netto dei dettagli controversi ad ogni latitudine, una riscoperta se non una rivalutazione filologica (ammesso che sia lecito farlo) anche solo per la maestosa interpretazione di Malcom McDowell nella parte dell’imperatore, che arrivò – per dirne una – ad inventarsi una scena di sana pianta, decisamente suggestiva, in cui il personaggio ha una sorta di esaurimento nervoso, giusto mentre invoca Giove sotto la pioggia battente. Per Gore Vidal, pero’, la natura del personaggio sarebbe dovuta essere quella di un uomo buono, corrotto dalla smania del potere; per Brass, più coerentemente con un’antropologia pessimista, Caligola era invece un “mostro nato. Sono noti peraltro dissapori tra Brass e Vidal, in cui il regista italiano lamentava una scarsa filmabilità del soggetto proposto che lo portò a rivedere il senso di molte scene, e rigirarle a modo proprio.

    Salvo poi entrare in contrasto anche con Guccione che, da semplice produttore, pretendeva di avere un (per noi inconcepibile) controllo della regia. Tra l’altro, con una differenza stilistica sostanziale: Guccione sembrava prediligere un film con attori avvenenti e scene pornografiche esplicite per “fare cassa“, Brass – per contestualizzare l’ambientazione decadente – avrebbe preferito filmare brutture, anche nel sesso (pensiamo ad esempio alla donna con tre occhi, decisamente surreale ma efficace in tal senso). L’idea di Brass sarebbe stata, stando a IMDB, addirittura quella di far recitare autentici criminali con la condizionale, per rendere l’idea, mentre il sesso – a differenza di altri suoi film in cui assume una valenza giocosa e liberatoria – sarebbe dovuto essere più shockante che eccitante.

    Come andò a finire è storia: insensibile alla filosofia decadente (e forse a qualsiasi filosofia in generale), Guccione licenziò Brass prima della fine del girato, curando arbitrariamente e senza supervisione l’edit finale, che quindi possiamo considerare un “apocrifo” di Brass (di cui il regista parla, lecitamente, poco volentieri). A quanto pare, inoltre, la fama di “film maledetto” deriva anche dalle scelte del produttore e del tecnico al montaggio Baragli, che decisero di assemblare in modo arbitrario le sequenze e di togliere di mezzo vario girato che, ovviamente, non sappiamo precisamente se il regista avrebbe mantenuto o meno.

    Un film che sembra nato sotto una maledizione, di cui tanti (troppi?) hanno scritto e che nessuno, in effetti, sembra aver davvero visto in una qualche forma final cut. Questo anche per una ragione pratica: la versione italiana è stata mutilata, in alcune edizioni, di tutte le scene erotiche (e di qualcuna porno, presente nell’uncut e forse voluta / girata da Guccione), per cui l’unico modo per vedere una versione simile a quella che si sarebbe voluta è quella di reperirlo in lingua originale su DVD.

    Sulle versioni di Caligula, poi, bisogna fare una breve digressione: sono numerosissime le versioni che circolano di questa pellicola. Wikipedia italiana ne conta sette, di cui quella di 156 min (uncut o integrale, del 1979, di cui pero’ circa 6 minuti sono stati girati da Guccione), ed una da 133 min (versione italiana, del 1984). Esistono almeno due versioni in cui le scene hardcore non sono presenti (che sono ovviamente più brevi), anche se in questo caso è improprio parlare di Director’s cut, visto che fu il produttore ad aver preso il controllo della situazione. Nel Regno Unito, poi, circolerebbe (secondo IMDB) una versione da 2 ore e 39 minuti con le scene hardcore sostituite da altre, che poi sarebbe diventata misteriosamente più corta nell’edizione successiva (1 ora e 42 minuti). Contrariamente a varie voci circolanti sui forum, poi, non esiste alcuna versione da più di tre ore: l’equivoco deriva da una durata indicata erroneamente nel programma del Cannes Trade Festival (da non confondersi con il Festival di Cannes che finisce, ogni anno, sotto i riflettori). Sarebbe quindi il caso (?) di riprendere in mano l’uncut del film, che sono circa due ore e mezza di girato, e vederlo (possibilmente non in presenza di minori ed impressionabili vari) prima di emettere un giudizio.

    Tra le ulteriori curiosità, una sequenza pornografica girata da Guccione dovrebbe coinvolgere Anneka Di Lorenzo (modella di Penthouse ed indimenticabile infermiera in Vestito per uccidere); a quanto pare, la donna fece causa al produttore per molestie sessuali e per avergli rovinato la carriera. La conclusione della storia fu piuttosto beffarda, perchè la donna vinse la causa ma non riuscì mai a recuperare i soldi del risarcimento (se non, racconta IMDB, per la quota simbolica di 4 dollari e 6 centesimi).

  • The Lighthouse: alla ricerca del nostro faro psichico

    1890: due guardiani del faro vivono su una remota isola del New England, prendendosi cura della struttura. L’equilibrio sembra destinato a saltare per via del maltempo e delle provviste che scarseggiano…

    In breve. Affascinante nella forma quanto vagamente logorroico nella sostanza, The lighthouse restituisce una dimensione horror primordiale, claustrofobica, d’essai, a volte illuminante, altre un po’ persa nel proprio linguaggio. Un film non banale e destinato, più che altro, a chi cerchi qualcosa fuori norma.

    Diretto da Robert Eggers (e scritto dal medesimo assieme al fratello Max), The Lighthouse è una sorta di piece teatrale al cinema, in cui ovviamente giganteggia il ruolo di Willem Dafoe (che nel teatro molto ha lavorato). Imponente, insopportabile, sorprendente nella sua mutevolezza, solo di pochissimo più convincente del proprio antagonista. The Lighthouse è senza dubbio un horror fuori norma, il che dovrebbe “far bene” al genere per sua stessa natura, dato che la narrazione procede in modo anti-causale (e forse addirittura senza un vero e proprio riferimento cronologico), evocando una meta-narrativa al passato – si racconta o si rivive ciò che si è già vissuto – un po’ come avveniva a Jack Torrance in Shining, condannato a rivivere un passato dimenticato o forse, per dirla diversamente, come se la foto finale del party prendesse vita e mostrasse lo scrittore al party del 1921. In The Lighthouse sembra quasi mancare, peraltro, una trama vera e propria, nel senso che nella prima mezz’ora sembra esserci ma poi non c’è, va in scena un tipo psicologico, poi un altro, poi ancora un’altro che mette in crisi gli altri due. Un espediente narrativo che farà storcere il naso ad alcuni ma che, ad esempio, chi segue il teatro moderno non dovrebbe aver difficoltà a seguire.

    Non sfigura Robert Pattinson nel ruolo del custode gentile e senza esperienza (salvo ravvedimenti come da copione), costretto a sottostare alle angherie del proprio capo per motivi, per la verità, alquanto criptici. Tanto da appensantire vagamente la visione (un’ora e mezza abbondante, che sembra almeno il doppio), tenuta vivida – se non altro – dal dettaglio della sirena, il personaggio che si frappone furtivamente nelle visioni (o forse nella realtà) del Thomas giovane. “Il terzo incomodo” appare fugacemente come una mancata liberazione, un sogno soffocato alla nascita, impossibile da realizzare a livello anatomico quanto, di fatto, ideale assoluto di bellezza non raggiungibile. Anche in questo confermiamo l’impressione che l’unico modo di parlare del film, oggettivamente difficile da raccontare, sia quello di descrivere micro-scene legate convulsamente tra loro.

    Sulla figura della sirena (Valeriia Karaman) vale la pena spendere qualche altra riga: personaggio ovviamente mitologico e derivante dall’Odissea di Omero, in cui la seduzione del canto veniva usata come arma per procurarsi carne umana (erano metà donne e metà uccelli, almeno all’inizio). La sirena eggersiana è più canonica, ricalca quella di origine medievale: fuoriesce dal mare metà donna e metà pesce. In una scena delirante – forse la migliore del film – appare sullo schermo a mo’ di twist e, vale la pena di notare, dal sapore cronenberghiano, dato che il personaggio si scopre dotato di vagina, sogno represso della pulsione sessuale del Thomas giovane. Sogno che viene espresso da un simbolo preciso: la statuetta con cui l’uomo si masturba pensando alla sua figura in carne ed ossa. D’altro canto il Thomas anziano, dualmente, sembra alludere ad una dimensione purificatrice, assoluta, forse anche erotica nella sommità del faro, dove viene intravisto senza vestiti e dove, presumibilmente, aleggia qualche misteriosa creatura marina. Vale la pena di sottolineare – attenzione allo spoiler successivo – il mood con cui finalmente il protagonista raggiunge la sommità della torre, estasiato dalla visione di quella luce da vicino con una colonna sonora che ricorda molto da vicino quella minacciosa e psichedelica di 2001 Odissea nello spazio. Il faro diventa il nuovo monolite, il barlume dell’evoluzione tecnologica a venire, con tutto quello che ne consegue (?).

    Se nell’horror c’è di mezzo il mare, del resto, la tradizione filmica insegna che è quasi sempre un delirio citazionistico che rischia di rimanere lettera morta: fu il caso di Dagon, ad esempio, e dei suoi incubi sottomarini che mai hanno davvero funzionato, senza contare le miriadi di monster movie con creature marine e citando doverosamente il film più di ogni altro, probabilmente, con qualche assonanza con The Lighthouse (mi riferisco a The Fog). La spiegazione del Male in Carpenter, tuttavia, aveva una spiegazione precisa (dei pirati-spettri, forse ricorderete); quella di Eggers al contrario non racconta di un villain, ma sembra alludere al trionfo del senso di colpa, all’annullamento dell’uomo all’interno di azioni che lui stesso, per primo, non comprende. Azioni irrazionali (e spesso violente) che è spinto ad eseguire da un Grande Altro mistico quanto non raccontabile, quasi come se Dio fosse il cinico sperimentatore di un qualche test di psicologia sociale. Che i due guardiani faranno degenerare il rapporto, del resto, è talmente scontato che non dovrebbe nemmeno essere scritto; ma serve comunque un’ancora di salvezza per il pubblico, gran parte del quale a mio avviso potrebbe non cogliere ogni sfumatura o adagiarsi sull’atteggiamento radical chic per eccellenza (far finta di aver capito). Una chiave di lettura puramente nichilista, a questo punto, con la rappresentazione di un uomo-fantoccio che agisce crudelmente e senza un vero motivo – autentico leitmotiv lovecraftiano, peraltro – sembra davvero l’unica possibilità per non uscire dalla sala maledicendo la scelta del film, provando ad interpretarlo in una qualche chiave.

    Il soggetto del secondo film di Eggers è vagamente tratto da Il faro di E. A. Poe, il mitologico (anche qui) ultimo racconto, incompiuto, dello scrittore, in cui manca il quarto capitolo (c’è solo il titolo, e qualcuno ha anche suggerito la fan theory che fosse quella la conclusione della storia, dato che il narratore è morto, in tutti i sensi): i fratelli Eggers tuttavia producono qualcosa di differente dalla storia in questione, incentrato su una via di mezzo tra il thriller psicologico ed il grottesco puro.

    E se fosse un unico personaggio sadico o auto-lesionista?

    Il sospetto che si possa trattare di una sorta doppelganger psichico del personaggio potrebbe, di fatto, avere un suo perchè, quantomeno a cavallo tra prima e seconda parte dell’opera. Ciò tuttavia non spiega parte del resto, impossibile o quasi da decifrare e complicato dalla presenza dell’elemento narrativo a sorpresa (il terzo guardiano biondo). Se non altro resta impresso il leitmotiv: Thomas Howard desidera raggiungere la sommità del faro, Thomas Wake fa di tutto per impedirglielo. Il punto più oscuro del film consiste, di fatto, nell’apparente mutevolezza dei ruoli dei due (tre?): i due Thomas sembrano infatti interscambiarsi i ruoli in modo psicotico, senza preavviso, da vittima a carnefice e viceversa, accomunati dall’abuso di alcol, da un atteggiamento antisociale e da una personificazione prima attiva, poi passiva, poi di nuovo attiva. A complicare ulteriormente il profilo psicologico dei protagonisti si aggiunge una vaga allusione omoerotica tra i due, ed il fatto che in vari momenti il Thomas giovane si faccia chiamare, contraddicendosi più volte, Ephraim Winslow (gli echi lynchiani in effetti non sono da poco: viene in mente, ad esempio, Mulholland Drive e i suoi personaggi che cambiano aspetto).

    Non sputare il tuo rospo, qualunque esso sia.

    Girato in un sulfureo bianco e nero per scelta registica, The Lighthouse consta di soli due attori (più altre due comparsate che, peraltro, sembrano tutt’altro che irrilevanti). Resta sicuramente un film complesso, lontano dal mainstream, concettuale e filosofico, con echi psicologici di vario livello e spesso, c’è da ribadire, avulso ad una forma realmente chiara. In questi casi, come dire, de gustibus: probabile che la mia lettura non abbia convinto tutti e, mi verrebbe da dire, meglio così. Il film si presta a più interpretazioni e credo che in questi casi non sia nemmeno questo, esattamente, il punto. Oppure, parafrasando Lacan, il problema nemmeno si pone, dato che il linguaggio è ambiguo per natura e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.

    Robert Eggers ha diretto, oltre a questo film, The Vvitch e The Northman.

    Finale del film: spiegazione (avviso spoiler)

    Il film è noto per la sua trama enigmatica e surreale, che può essere interpretata in diversi modi. Ecco una spiegazione generale del finale del film.

    Il film segue due guardiani di un faro, interpretati da Willem Dafoe e Robert Pattinson, che lavorano su un’isola remota nel New England alla fine del XIX secolo. Mentre sono bloccati sull’isola a causa di una tempesta, i due uomini iniziano a mostrare segni di paranoia, follia e conflitto.

    Alla fine del film, la situazione diventa sempre più caotica e instabile. Thomas Wake (Dafoe) cerca di convincere Ephraim Winslow (Pattinson) a salire in cima al faro, che è stato la sua ossessione per tutto il tempo. Quando Winslow finalmente raggiunge la cima del faro, scopre un’immagine terribile: una visione di una divinità marina o di un mostro tentacolare.

    La sequenza finale è aperta a interpretazioni. Alcuni vedono l’immagine come una manifestazione della follia di Winslow, mentre altri la interpretano come una sorta di giudizio divino o punizione per i peccati dei personaggi. Il film suggerisce che la follia, l’isolamento e la paranoia possono portare a visioni e percezioni distorte della realtà. Infine, Winslow uccide Wake e si impadronisce della luce del faro, ma viene attaccato e ucciso da un gabbiano. La luce del faro, che rappresenta un potere e una conoscenza inaccessibili, sembra essere la causa principale di tutta la discordia e della follia sull’isola.

    In generale, il finale del film è aperto a interpretazioni e lascia molte domande senza risposta. Può essere interpretato come una discesa nella follia, una metafora sulla lotta per il potere e la conoscenza, o una rappresentazione di forze soprannaturali. Il regista Robert Eggers ha intenzionalmente creato un film che sfida lo spettatore a trovare il proprio significato nella storia.

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